In Sicilia, quando non sei proprio convinto dici
“ora, poi lo faccio”; oppure, a una domanda rispondi contemporaneamente “sì,
no”.
Noi siciliani abbiamo una percezione del tempo
molto particolare, ad esempio, quello che hai fatto il giorno prima diventa
passato remoto, come se fossero trascorsi secoli; oppure, quando stai per
uscire di casa, rassicuri tutti affermando “sto tornando”, anche se il tuo
rientro sarà tra un paio d’ore.
Il futuro non ha coniugazioni. Sciascia
affermava: “Come volete non essere pessimisti in un paese dove il verbo al
futuro non esiste”. Viene ridotto tutto al presente: “andrò” è “vaju, o
vagghiu”, “farò” è “faju o fazzu”; come se volessimo sfuggire al domani, alla
morte.
Anche il condizionale è inutile, infatti lo
sostituiamo direttamente col congiuntivo, tipo: “se putissi, u facissi”.
Ci piace molto utilizzare gli spostamenti “salire
e scendere” in modo fantasioso: “scendiamo giù a Natale” e “saliamo su dopo le
feste”, anche il caffè “è salito” e la pasta “si cala”.
Spesso utilizziamo una sola parola per indicare
più oggetti, ad esempio non c’è differenza tra tovaglia, asciugamano,
tovaglietta, accappatoio, strofinaccio, canovaccio, per noi è solo “a
tuvagghia”, e basta.
Se vogliamo dire a un amico di venire a trovarci,
gli diciamo di “avvicinare”, che è meno formale e più amichevole.
Riusciamo anche a trasformare un luogo in un modo di fare, in un verbo: ad
esempio il cortile diventa “u curtigghiu” (da cui “curtigghiare”), cioè
spettegolare.
Il nostro modo di esprimerci è tanto unico e
originale quanto preso in prestito, ereditato da chi c’è stato prima di noi; un
dizionario frutto di secoli e secoli di storia: invasioni, colonizzazioni,
scambi; popoli e culture che si sono susseguite e incrociate tra di loro.
Ad esempio “tumazzu (formaggio), carusu
(ragazzo), cammisa” (camicia), sono parole greche (vedi “tumassu, kouros,
poucamiso”); “carrubo” deriva dall’arabo “harrub”, così come le parole “cassata
e giuggiulena” (dolci tipici); “accattari” (comprare), deriva dal normanno
“acater” (da cui il francese “acheter”), oppure “arrieri” (nuovamente, da
darriere); dal catalano abbiamo preso in prestito le parole “abbuccari”
(sversare, da abocar),”accupari” (soffocare, da acubar), “cascia” (bara, da
caixa).
Dunque, se parliamo così, non vuol dire che siamo
ignoranti e arretrati, non vuol dire che non conosciamo l’italiano (a parte
alcune simpatiche eccezioni): dietro ogni parola o espressione del nostro
meraviglioso dialetto (che poi dialetto non è, ma “lingua madre”- come ha
affermato l’Unesco), ci sono le nostre travagliate origini, la nostra lunga e
meravigliosa storia.
Virginia Avveduto (se questo è un blog - 15 luglio 2017)
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