Il piano per
scalare Palazzo Chigi raccontato in anteprima da Matteo Renzi. E poi le
confessioni di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, alcune nerissime, come
quella sul “mondo di Mezzo“, altre decisamente colorite come gli immigrati che
“rendono più della droga“. Quindi ovviamente tutti gli scandali italiani legati
alla corruzione: dalla verità sul terremoto che “non si dice” di Guido
Bertolaso, all’imprenditore Francesco Piscicelli che la notte del sisma
dell’Aquila rideva “alle tre e mezzo dentro al letto”, all’indimenticabile “ma
che volete fa’ i froci col culo degli altri?” di Stefano Ricucci, il sedicente
“furbetto del quartierino”, fino alla bellissima Fadoua Sebbar. Chi? Era
un’amica di Giampiero Tarantini e fu la prima a rivolgersi a Silvio Berlusconi
con un affettuoso nomignolo che diventerà indelebile: “papi”. Sono tutte
le storie che non avremmo mai letto. E che forse non leggeremmo mai più.
“Violano la privacy”. Ma è una bugia – Se la bozza del decreto che il ministro Andrea
Orlando ha inviato ai procuratori italiani fosse stata in vigore,
infatti, il salotto privato del potere sarebbe rimasto ben sigillato: anche
quando ospitava indicibili accordi. Nelle intenzioni del guardasigilli le
ordinanze dei pm non devono più includere i virgolettati delle intercettazioni
ma “soltanto il richiamo al loro contenuto”: stop alle telefonate, basta il
loro riassunto. Il motivo? Più o meno lo stesso che viene sollevato a ogni
tentativo di bavaglio: la privacy. Solo una scusa, visto che come ha rivelato un’inchiesta del fattoquotidiano.it negli ultimi vent’anni sono meno di venti
i casi in cui il garante per la protezione della privacy è dovuto
intervenire perché fatti privati – raccontati in inchieste
giudiziarie – erano finiti sui giornali. Per il resto dagli ascolti ordinati
dai magistrati sono spesso venute fuori frasi, episodi, fatti a volte
fondamentali per le indagini, quasi sempre utili a svelare il vero volto
dei potenti.
Il golpe di Renzi – “Lui non è capace, non è cattivo,
non è proprio capace. E quindi, però, l’alternativa è governarlo da fuori”.
Chissà se in pubblico Renzi si sarebbe mai espresso in questo modo sul suo
predecessore, Enrico Letta. In tv lanciava l’ormai noto #enricostaisereno. In
privato, al telefono, usava ben altro linguaggio. È il 10 gennaio del 2014: l’allora neoletto segretario
del Pd non è ancora premier ma lo diventerà 40 giorni dopo. In
quella telefonata – intercettata dal Noe dei carabinieri – confida al
numero due della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il suo
progetto per entrare a Palazzo Chigi: “Rimpastino sicuro. Rimpastone, no
rimpastino! Il problema è capire anche… se mettere qualcuno dei nostri”. E lo
stesso giro di telefonate, in cui Adinolfi parlando con Dario Nardella si
riferiva a Giorgio Napolitano , sostenendo che “l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro ed (Enrico, ndr) Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo
qualche cosa di Giulio (il figlio dell’ex presidente della Repubblica ndr).
Più della droga nel mondo di mezzo – Sarebbero state solo accennate in
un breve riassunto – con tanti auguri all’ufficiale di polizia giudiziaria
incaricato di quella sintesi – anche le parole regalate alle cimici da Massimo
Carminati, il Nero, il cecato, l’ex terrorista dei Nar accusato di essere il capo
dei capi di Mafia capitale e poi condannato in primo grado ma non per reati di
tipo mafioso. Ai carabinieri del Ros, che lo intercettavano, Carminati racconta
una sua personale visione del mondo, quella passata alla storia giudiziaria
come “la teoria del mondo di mezzo“. “Compà – spiega il Nero – Ci stanno i vivi
sopra e li morti sotto e noi stamo ner mezzo. Ce sta un mondo in mezzo in cui
tutti si incontrano e dici: cazzo, com’ è possibile che un domani io posso
stare a cena con Berlusconi? Il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si
incontra. Allora nel mezzo anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse
che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”.
Più pragmatico e molto meno evocativo, invece, il ragionamento di Salvatore
Buzzi, l’uomo forte delle coop romane, che confidava: “Tu c’ hai idea
quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh? Il traffico di droga rende de meno”.
Un’affermazione che vale più di dieci inchieste sul business dei centri
d’accoglienza.
Alfano tiene famiglia – Indagavano su Raffaele Pizza,
fratello dell’ex sottosegretario del governo
Berlusconi, Giuseppe, invece, gli uomini della Guardia di Finanza che si
trovarono loro malgrado il nome di Angelino Alfano nei brogliacci. Il motivo? Pizza si vantava al telefono di aver fatto assumere
Alessandro Alfano, fratello del ministro, alle Poste. “Angelino lo
considero una persona perbene un amico. Mi ha chiamato il fratello
per farmi gli auguri…tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr)
poteva avere 170.000 euro… no… io gli ho fatto avere 160.000. Tant’è che
Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d’accordo con
Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va
dicendo che la colpa è la mia, che l’ho fottuto perché non gli ho
fatto dare i 170.000 euro”, è la registrazione che inguaia l’attuale ministro
degli Esteri. “Cioè noi gli abbiamo sistemato la famiglia. La
sera prima mi ha chiamato suo padre: mi ha mandato ottanta curriculum”, dice invece Marzia Capaccio, segretaria
di Pizza, intercettata nella stessa inchiesta.
Sguattera del Guatemala – E se nonostante le polemiche Alfano
è rimasto ben saldo alla sua poltrona ministeriale, è stata costretta alle
dimissioni Federica Guidi, ex ministro dello Sviluppo Economico e compagna di
Gianluca Gemelli coinvolto nello scandalo petroli in Basilicata. Il
motivo? Un emendamento per sbloccare Tempa Rossa che avrebbe avvantaggiato
gli affari del suo compagno. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, è
d’accordo anche Mariaelena. Con l’emendamento alla legge di stabilità e a
questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa… ehm… dall’altra parte
si muove tutto”, assicura Guidi a Gemelli, che in quel momento chiedeva
continuamente aiuto alla sua compagna ministra e poi vedrà ogni accusa
archiviata. “Non fai altro che chiedermi favori, con me ti comporti come un
sultano. Io mi sono rotta a quarantasei anni, tu siccome stai con me e hai un
figlio con me, mi tratti come una sguattera del Guatemala“, si ribellò Guidi a
un certo punto.
Patonze per i nani- Di diverso tenore, invece, le
intercettazioni contenute nell’indagine passata alla storia
come Vallettopoli. “Sto andando a Milano, in città… e adesso c’ho tre
quarti d’ora… e volevo andare a puttane“, diceva Vittorio
Emanuele, l’erede al trono dei Savoia. E siccome un trono i Savoia
non lo hanno più, ecco che il livello delle conversazioni di Vittorio
Emanuele è tutt’altro che reale: “Le do 200 euro e non di più, eh?”,
diceva il principe riferendosi alla parcella di una prostituta. Da quelle
accuse Vittorio Emanuele uscì assolto, mentre è stato condannato a 7 anni e 10
mesi Giampaolo Tarantini, che qualche anno dopo organizzava le “cene eleganti”
per Silvio Berlusconi. Le intercettazioni di quell’inchiesta raccontano
molto non solo della vita privata del leader di Forza Italia, ma soprattutto
del modus operandi dell’allora presidente del consiglio che poco dopo
finirà coinvolto nel caso Ruby (assolto in via definitiva nel primo processo
dopo la condanna in primo grado, ancora pendente il procedimento Ter). “Io
c’ho due bambine piccole, che è tanto che non vedo”, si vanta in una delle
centinaia di telefonate Berlusconi, autore di una serie di indicazioni
lapidarie per l’amico Giampaolo. “Per favore non pigliamole alte come fa questo
qui di Milano perché noi non siamo alti“, chiede l’ex premier riferendosi alle
caratteristiche fisiche delle ragazze da portare alle cene. Appuntamenti
talmente eleganti che è lo stesso Berlusconi a spiegare a Tarantini il galateo
da seguire: “Poi ce le prestiamo… Insomma la patonza deve girare“, dice
Silvio prima di essere vittima della legge del contrappasso. “Lui pur di
salvare il suo culo flaccido non gliene frega niente”, è il giudizio tranchant
di Nicole Minetti quando la stella del leader azzurro sarà ormai offuscata
dalle inchieste e dallo spread che porterà a Palazzo Chigi Mario Monti.
L’attentatuni di Cosa nostra – Un discorso a parte vale per le
cimici piazzate dalla Dia in un appartamento di via Ughetti a Palermo nel
1993. È in quella palazzina che dopo l’arresto di Totò Riina si erano
rifugiati tre uomini d’onore: Gioacchino La Barbera, Santino Di Matteo e
Antonino Gioè. Sono tre boss importanti dai destini maledetti: hanno
partecipato tutti alla strage di Capaci che il 23 maggio del 1992 mise fine ai
giorni di Giovanni Falcone. La Barbera è l’uomo che diede materialmente il
segnale che dà il via all’attentato: suo padre venne ritrovato misteriosamente
impiccato nel 1994, mentre lui stava per saltare il fosso collaborando con la
magistratura. Lo stesso percorso di Santino Di Matteo che per quella scelta
sarà punito con il rapimento e l’uccisione del figlio, il piccolo Giuseppe,
sciolto nell’acido. Venne invece praticamente suicidato in carcere (ma ad oggi
nessuna inchiesta della magistratura lo ha mai accertato) Gioè: in quei mesi
dicono stesse riflettendo su una sua possibile collaborazione con i pm. Sono
questi i personaggi che si rifugiano in via Ughetti in quell’inverno del 1993.
E sono questi i padrini che la Dia registra mentre parlano della strage di
Capaci. “Nni ficimu l’attentatuni“, dicono. Ci siamo fatti
l’attentatone, il grande attentato. È così che i mafiosi vedono il botto
organizzato per assassinare Falcone: il grande attentato della storia di Cosa
nostra. L’attentatuni, appunto. Una parola che è diventata il titolo di
libri, film e fiction. Con il ddl Orlando non l’avremmo mai conosciuta.
Giuseppe Pipitone
(Il Fatto Quotidiano – 9 settembre 2017)
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