giovedì 30 novembre 2017
domenica 26 novembre 2017
Il giornalismo è rischioso ma mica è obbligatorio
In un articolo pubblicato dal Corriere
Caterina Malavenda, uno dei migliori avvocati per i reati di
diffamazione a mezzo stampa, ha dichiarato che quello del giornalista è
un mestiere “pericoloso”. E certamente lo è. Chi fa inchieste ma anche
chi si limita agli editoriali è perennemente esposto al rischio di
querele penali o alle ancora più insidiose azioni civili per il
risarcimento dei danni, materiali e morali, alla persona che si ritiene
offesa. Poiché la responsabilità penale è personale a risponderne
direttamente è il giornalista. Ma il penale è quello che ci preoccupa di
meno. Per noi sono molto più infide le azioni civili di danno. Nel
penale se si accerta che il giornalista ha detto la verità la questione
finisce lì. Nel civile anche un ladro, riconosciuto come tale, può agire
per danni se il giornalista si è espresso “in termini non continenti”.
Ma
se il mestiere del giornalista è “pericoloso” per noi, noi giornalisti
siamo pericolosi per gli altri. Da quando la carta stampata, dove esiste
ancora un certo controllo e autocontrollo, si è integrata con i nuovi
media, i social, facebook, i Dagospia, i blogger, gli influencer che,
senz’arte né parte, hanno milioni di seguaci, noi possiamo distruggere
in un amen la carriera, la reputazione e anche la vita di una persona.
Il caso Weinstein e tutto ciò che ne è seguito dice questo. Una notizia,
vera o falsa che sia, una volta che diventa ‘virale’ è inarrestabile ed
è persino inutile confutarla, perché il circuito massmediatico ha già
emesso la sua condanna, senza processo e senza appello. Il servizio che
le Iene hanno fatto sul e al regista Fausto Brizzi è semplicemente vergognoso.
Anche
noi giornalisti, e non mi tolgo certo dal mazzo perché adesso non
faccio più cronaca, siamo dei molestatori. Totò Riina è morto. Sappiamo
tutto di lui, ha ordinato o eseguito personalmente un centinaio di
omicidi, è stato il capo di Cosa Nostra. Ma adesso è morto. E un morto è
un morto. Che bisogno c’era che decine di giornalisti si appostassero
davanti all’ospedale di Parma e importunassero la moglie e i figli cui,
giustamente, umanamente, la magistratura aveva dato l’autorizzazione a
vedere per l’ultima volta il morente? Che scoop si poteva trarre da una
salma? Se non vogliamo metterci allo stesso livello dovremmo avere per
Riina la pietas che lui non ha mai avuto per le sue vittime.
Ma
il vero tarlo dell’informazione di oggi, almeno in Italia, è che non fa
informazione ma disinformazione. Prendiamo i 5Stelle. Tutte le notizie
negative sui 5Stelle trovano grande risalto sulla stampa del regime,
quelle, poche, positive vengono degradate a taccuini quando non gli
vengono addirittura ritorte contro come è avvenuto per la vittoria della
Di Pillo a Ostia trasformata disinvoltamente in una sconfitta. Parliamo
di una vicenda che credo di conoscere bene perché me ne occupo da quasi
trent’anni: l’Afghanistan. Da quel Paese in guerra da sedici anni le
notizie, poiché siamo noi gli occupanti, non arrivano o arrivano
smozzicate o stravolte. Chi, tranne Il Fatto,
ha pubblicato la ‘lettera aperta’ che il Mullah Omar inviò nel 2015 ad
Al Baghdadi intimandogli di non mettere piede in Afghanistan? Chi,
tranne Il Fatto,
dà notizia che in Afghanistan ci sono scontri cruenti fra i talebani
afgani (confusi, per ignoranza, disinteresse o volutamente con i
talebani pachistani che sono tutt’altra cosa) e gli uomini dell’Isis? E’
solo per fare qualche esempio fra gli infiniti. Gli addetti ai lavori,
che sono costretti quotidianamente a leggere i giornali, sanno benissimo
che tutte le notizie politiche sono distorte, a favore o contro questa o
quella parte. Perché quasi tutti i giornali non sono più dei giornali
ma degli agitprop.
Il
giornalismo è un mestiere da avvoltoi, si giustifica e si nobilita solo
se fatto con una tensione etica, cioè nel tentativo di migliorare,
socialmente, culturalmente, moralmente, il proprio Paese. Se guardo la
storia d’Italia dal dopoguerra a oggi devo riconoscere che non solo non
ci siamo riusciti ma che il nostro Paese è andato progressivamente
degradando fino ai livelli quasi insostenibili di oggi. E di questo
degrado i politici sono meno responsabili degli intellettuali. Perché
per il politico le mezze verità, le promesse impossibili e la stessa
menzogna sono, come dire, ‘strumenti del mestiere’ per ottenere, qui e
ora, il famoso consenso. E questo dice qualcosa anche sull’essenza
stessa della democrazia (si veda in proposito il preveggente libro, Diario intimo,
di Henri-Frédéric Amiel, scritto in tempi non sospetti, nel 1871).
L’intellettuale è invece libero da questi obblighi. Certo, paga la sua
libertà a caro prezzo. Ma nessuno ci costringe a fare questo
“pericoloso”, inteso nel suo doppio senso, mestiere. Se ne può sempre
cercare, sia pur a magro salario, un altro.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2017)
venerdì 24 novembre 2017
Qual’è il senso del fotografare?
Nel lontano giugno 2009 ebbi il piacere di seguire un seminario di
Gianni Berengo Gardin al festival internazionale del reportage di Atri.
Eravamo già in completa rivoluzione digitale e ricordo che mentre lui ci
raccontava della sua vita, esordì con una frase particolare, se volete
realizzare un immagine usate pure le vostre reflex ma se volete scattare
una fotografia dovete usare una Leica, alludendo al paragone tra le
nuove reflex digitali e quelle a pellicola, nella fattispecie Leica di
cui è sempre stato un estimatore incallito.
A queste parole quasi mezza sala si svuotò ma io restai, continuai a seguirlo nel suo dialogare non tanto per educazione ma per pura convenienza, un lupo con 80 e passa anni di vita sulle spalle non può essere scaricato così su due piedi, qualcosa da spremere da questa vecchia spugna così intrisa di sensibilità e gusto, tecnica ed etica professionale, esperienza e garbo, ci sarebbe pur stato. La storia del suo successo mi intrigava ancor più delle sue stesse foto, cosi come pure la storia della sua vita che ha attraversato quasi un secolo di storia.
Non vi nascondo che lì per lì anch’io provai una forte indignazione ascoltando quelle sue parole che tanto disgusto provocarono in tanti ma oggi credo di aver capito a cosa alludeva il Maestro.
Stiamo parlando di un uomo che iniziò a fotografare quando non c’erano in giro tanti fotografi e neanche tanta scelta in fatto di apparecchi da ripresa, erano gli anni in cui professionalmente si erano affermate solo le Rolleiflex e le Leica e fu proprio quest’ultimo brand che più si adattava alle sue esigenze di reporter. Acquistò quindi una Leica in società con un altro fotografo per via del prezzo proibitivo (erano care già allora) e la usavano a turno. Quando poi le cose cominciarono ad andargli bene ne acquistò una tutta sua e non si staccò più da questo marchio ma soprattutto non lasciò mai più la pellicola, quella stessa pellicola che sembra aver avuto lo stesso suo periodo di vita. Curioso infatti notare che il periodo di maggior splendore della fotografia analogica coincide con l’arco di vita di Berengo, dalla sua nascita ad oggi anche se lui iniziò a fotografare nel 1954.
Quello che accadde a quest’uomo a cavallo degli anni 70-80 credo sia stato qualcosa per lui traumatico che somiglia molto a quello che succede oggi a molti della mia età, a quei cinquantenni fotografi che si formarono a suon di pellicole prima di abbracciare il digitale.
Cosa successe a Berengo ? come dicevo già negli anni 70 la fotografia divenne un fenomeno di massa, il boom economico e il proliferare di reflex a basso costo di marchi pur sempre prestigiosi come nikon, canon e pentax, fecero si che schiere sempre più numerose di fotografi si affacciassero sul mercato. Questo fatto al povero Berengo che fino ad allora aveva fatto parte di una ristrettissima cerchia di “amici”, gli dovette apparire come un vero e proprio imbastardimento della nobilissima arte della fotografia, ne prese atto ma continuò per la sua strada. Erano diventati tanti i fotografi, in molti pure bravi, altri sempre più banali ma si trattava pur sempre di persone che usavano la stessa pellicola che usava lui seppur più “libertini”. Una persona come lui cosi abituata ad osservare per ore prima di pigiare il bottone della sua Leica non avrà visto di buon occhio tutta quella gente col “cheese” sempre pronto che produceva montagne di foto insignificanti, foto mute e senza anima.
Eccoci arrivati ai nostri giorni, uno come lui può apparirci di certo come un dinosauro del mesozoico, un fossile vivente che ha attraversato un secolo con poche ma inossidabili certezze, uno che fa paura quando ti dice che non sappiamo più se una foto è vera o taroccata, che oggi è il tempo del grande “dubbio”. Senza parlare della valenza di un reale scopo della fotografia attuale.
Cosa potevamo aspettarci in quella sala ad Atri da Berengo ? da uno che per la seconda volta ha vissuto un trauma di abbrutimento della fotografia e del suo processo lento ma inesorabile di metamorfosi verso una banalissima “immagine” ? Che i social e i selfie dei nostri giorni siano il siero che hanno trasformato il dottor Jekill in mister Hyde credo non ci siano più dubbi ma probabilmente nelle parole predittorie fredde e dirette del Maestro di quella piovosa mattina di giugno c’era anche la triste consapevolezza che l’antidoto non lo avremmo trovato MAI.
Da questa esperienza e non solo, mi è spesso ritornato in mente più impetuoso che mai il vero interrogativo che per molto tempo mi privò del sonno, qual’è il senso del fotografare? Lo spingersi e rincorrersi tra fotografi, riesce a far dimenticare loro lo scopo ultimo del loro lavoro, della “mission” sociale a cui sono chiamati di rispondere. A una fotografia esteriore ed estetizzante, fedele sacerdotessa della bellezza a tutti i costi, ad una banalizzazione progressiva scontata e melensa, al ritrovato gusto per l’orrido, è pensabile ai giorni nostri contrapporre delle ragioni nobili nel fotografare ? Sensibilità e intelligenza da sole non bastano a ritrovare noi stessi, serve una nuova consapevolezza del nostro vivere, una percezione differente dell’atto fotografico, che possa mutare e mutarsi in un attimo di reale utilità sociale. Chi credeva di essere arrivato può accorgersi oggi di essere appena partito.
A queste parole quasi mezza sala si svuotò ma io restai, continuai a seguirlo nel suo dialogare non tanto per educazione ma per pura convenienza, un lupo con 80 e passa anni di vita sulle spalle non può essere scaricato così su due piedi, qualcosa da spremere da questa vecchia spugna così intrisa di sensibilità e gusto, tecnica ed etica professionale, esperienza e garbo, ci sarebbe pur stato. La storia del suo successo mi intrigava ancor più delle sue stesse foto, cosi come pure la storia della sua vita che ha attraversato quasi un secolo di storia.
Non vi nascondo che lì per lì anch’io provai una forte indignazione ascoltando quelle sue parole che tanto disgusto provocarono in tanti ma oggi credo di aver capito a cosa alludeva il Maestro.
Stiamo parlando di un uomo che iniziò a fotografare quando non c’erano in giro tanti fotografi e neanche tanta scelta in fatto di apparecchi da ripresa, erano gli anni in cui professionalmente si erano affermate solo le Rolleiflex e le Leica e fu proprio quest’ultimo brand che più si adattava alle sue esigenze di reporter. Acquistò quindi una Leica in società con un altro fotografo per via del prezzo proibitivo (erano care già allora) e la usavano a turno. Quando poi le cose cominciarono ad andargli bene ne acquistò una tutta sua e non si staccò più da questo marchio ma soprattutto non lasciò mai più la pellicola, quella stessa pellicola che sembra aver avuto lo stesso suo periodo di vita. Curioso infatti notare che il periodo di maggior splendore della fotografia analogica coincide con l’arco di vita di Berengo, dalla sua nascita ad oggi anche se lui iniziò a fotografare nel 1954.
Quello che accadde a quest’uomo a cavallo degli anni 70-80 credo sia stato qualcosa per lui traumatico che somiglia molto a quello che succede oggi a molti della mia età, a quei cinquantenni fotografi che si formarono a suon di pellicole prima di abbracciare il digitale.
Cosa successe a Berengo ? come dicevo già negli anni 70 la fotografia divenne un fenomeno di massa, il boom economico e il proliferare di reflex a basso costo di marchi pur sempre prestigiosi come nikon, canon e pentax, fecero si che schiere sempre più numerose di fotografi si affacciassero sul mercato. Questo fatto al povero Berengo che fino ad allora aveva fatto parte di una ristrettissima cerchia di “amici”, gli dovette apparire come un vero e proprio imbastardimento della nobilissima arte della fotografia, ne prese atto ma continuò per la sua strada. Erano diventati tanti i fotografi, in molti pure bravi, altri sempre più banali ma si trattava pur sempre di persone che usavano la stessa pellicola che usava lui seppur più “libertini”. Una persona come lui cosi abituata ad osservare per ore prima di pigiare il bottone della sua Leica non avrà visto di buon occhio tutta quella gente col “cheese” sempre pronto che produceva montagne di foto insignificanti, foto mute e senza anima.
Eccoci arrivati ai nostri giorni, uno come lui può apparirci di certo come un dinosauro del mesozoico, un fossile vivente che ha attraversato un secolo con poche ma inossidabili certezze, uno che fa paura quando ti dice che non sappiamo più se una foto è vera o taroccata, che oggi è il tempo del grande “dubbio”. Senza parlare della valenza di un reale scopo della fotografia attuale.
Cosa potevamo aspettarci in quella sala ad Atri da Berengo ? da uno che per la seconda volta ha vissuto un trauma di abbrutimento della fotografia e del suo processo lento ma inesorabile di metamorfosi verso una banalissima “immagine” ? Che i social e i selfie dei nostri giorni siano il siero che hanno trasformato il dottor Jekill in mister Hyde credo non ci siano più dubbi ma probabilmente nelle parole predittorie fredde e dirette del Maestro di quella piovosa mattina di giugno c’era anche la triste consapevolezza che l’antidoto non lo avremmo trovato MAI.
Da questa esperienza e non solo, mi è spesso ritornato in mente più impetuoso che mai il vero interrogativo che per molto tempo mi privò del sonno, qual’è il senso del fotografare? Lo spingersi e rincorrersi tra fotografi, riesce a far dimenticare loro lo scopo ultimo del loro lavoro, della “mission” sociale a cui sono chiamati di rispondere. A una fotografia esteriore ed estetizzante, fedele sacerdotessa della bellezza a tutti i costi, ad una banalizzazione progressiva scontata e melensa, al ritrovato gusto per l’orrido, è pensabile ai giorni nostri contrapporre delle ragioni nobili nel fotografare ? Sensibilità e intelligenza da sole non bastano a ritrovare noi stessi, serve una nuova consapevolezza del nostro vivere, una percezione differente dell’atto fotografico, che possa mutare e mutarsi in un attimo di reale utilità sociale. Chi credeva di essere arrivato può accorgersi oggi di essere appena partito.
mercoledì 22 novembre 2017
Frasi fatte, strafalcioni, insulti: così (male) parlano i politici per apparire ‘uno di voi’. “Di Maio, Renzi, Salvini? Figli di B” Frasi fatte, strafalcioni, insulti: così (male) parlano i politici per apparire ‘uno di voi’. “Di Maio, Renzi, Salvini? Figli di B”
Un vocabolario sempre più ristretto,
discorsi fatti in parole davvero povere, con molte frasi fatte,
motti alla moda, sfondoni, parolacce, formulette trite non
da salotto ma da tinello tv. Un italiano grossolano, banale, elementare,
quasi infantile che moltiplica parole vuote ma all’occorrenza anche gli strafalcioni.
La crisi della politica sta dentro la crisi della sua lingua che cambia. Male.
Di più: di male in peggio. Berlusconi, colui che come al solito
tutto comprende, è stato solo l’inizio, ma in realtà alla fine è l’alfa
e l’omega del nuovo idioma. Una noncuranza nei confronti delle
regole delle scuole elementari, ma anche nei confronti dell’aderenza alla
realtà e del senso delle proporzioni: è così che anche la grammatica è
diventata populista, è così che dal politichese si è passati al politicoso.
L’analisi è da disperarsi una volta di più e la mette nero su bianco il
linguista Giuseppe Antonelli, in Volgare eloquenza (Collana
Tempi nuovi di Laterza, 144 pagine, 14 euro). Un saggio essenziale,
nel senso che toglie il superfluo: con una forma leggera, scorrevole, ironica,
Antonelli dà un colpo secco al tavolo stile saloon dei western per scoprire le
carte della lingua dei politici della Terza Repubblica. Carte che,
nonostante i bluff, non sono esattamente quattro assi.
Il titolo del libro ribalta quello di un’opera (De
vulgari eloquentia) con cui Dante certificava che ormai
il volgare era “pronto” per sostituire il latino
nell’uso corrente perché era “popolare”. Ora, spiega Antonelli, questo
concetto è stato gualcito, fino ad uscirne accartocciato: “Oggi l’eloquenza
di molti politici può essere definita volgare proprio a partire
dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo”.
Non più popolare, quindi. Semmai “nel momento stesso in cui si mitizza il popolo
sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue”. Ci si
rivolge al popolo lisciandolo ma parlandogli come a un bambino abbassando
sempre di più il livello. Con parole terra-terra, da poppante (vaffanculo,
vergogna, basta, tutti a casa): “E’ uno schifo”, “è infame”, “siamo
stufi” dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini quasi ogni giorno
quasi su ogni argomento, dalle pensioni alla difesa dell’olio pugliese. O
viceversa con espressioni così universali da assomigliare alla pace nel
mondo auspicata dalle concorrenti di Miss Italia (andiamo avanti!,
verso il futuro, un futuro meraviglioso, pieno di sfide, sfide che vinceremo, ché
siamo tantissimi). “Si può fare di più e meglio, facciamolo insieme –
ha detto Matteo Renzi durante la direzione del Pd di dieci giorni fa –
L’Italia ha bisogno di una comunità politica che abbia al centro il futuro dei
figli”.
Dall’incomprensibile a
quelli che parlano come (o mentre) mangiano - Così, il Paese si ritrova a pezzi
anche davanti al vocabolario. I burocrati e i magistrati portano avanti la
loro dittatura di chi scrive in modo incomprensibile, scambiandolo per
aulico, convinti di farlo bene. Da legislatori i politici usano una lingua rigonfia e
oscura, come fu per la riforma della Costituzione poi bocciata.
Mentre da comunicatori, infine, gli stessi politici usano “un linguaggio
elementare, fatto di battute e parole effimere“, parole che, “rimbalzate
all’infinito, stanno paralizzando la politica”. Altro che mondo
nuovo, dunque, altro che sol dell’avvenire, altro che piramide rovesciata,
altro che post-politica: quella della classe politica è piuttosto una “veterolingua:
rozza, semplicistica, aggressiva” che punta su emozioni, istinti,
impulsi. L’obiettivo è uno: dare uno specchio all’elettore. Così “parlano
come mangiano”, anche se a volte sembra che parlino e mangino nello stesso
momento. “Dal ‘Votami perché parlo meglio (e dunque ne so di più) di te’ si è
passati al ‘Votami perché parlo (male) come te’” chiude Antonelli.
Razzi, Salvini e Di Maio - Tutto è perdonato, su
tutto si passa sopra, perché l’elettore si sente a casa. Mentre tutti si
sentono intelligenti a canzonare il senatore Antonio Razzi – che
vabbè, è Razzi – nessuno si scandalizza se il segretario della Lega Nord
dice che “migrante” è un gerundio e “Nord” un avverbio. O
se il vicepresidente della Camera dei Cinquestelle dice di avere alter ego
in altri Paesi, quando nel frattempo ha un problema conclamato con il congiuntivo
con il quale centrò il record con la triplice riscrittura di un tweet (per la
cronaca erano sbagliati tutt’e tre). Il leader del Partito democratico fatica a
finire un discorso senza un termine calcistico o una frase fatta (“Chi sbaglia,
deve andare a casa” ha detto della Nazionale di calcio), quello del M5s
senza una parolaccia o un insulto.
Una comoda verità - Ma il resto degli
italiani non è meglio. Né peggio: secondo Tullio De Mauro – il teorico
della lingua come democrazia – 8 su 10 hanno difficoltà a utilizzare
quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà
abbastanza gravi nella comprensione, i 5 milioni di italiani
hanno completa incapacità di lettura. Si chiamano analfabeti. Una
volta a De Mauro hanno chiesto qual è la percentuale di italiani che capiscono
discorsi politici o come funziona la politica. “Certamente inferiore al 30 per
cento”, rispose lui. E chi “non possiede strumenti linguistici adeguati rimane
un individuo a cittadinanza limitata” chiarisce Antonelli. De Mauro,
d’altra parte, abbottonava l’analfabetismo di ritorno con i “molti
spinti a votare più con la pancia che con la testa”. E tutto questo
alla politica fa un gran comodo: “La valutazione di questi gruppi dirigenti –
diceva sempre De Mauro – è che uno sviluppo adeguato dell’istruzione mette in
crisi la loro stessa persistenza in posizioni di potere“. “Il falso
in bilancio è tornato reato penale” scrivono i deputati del Pd
orgogliosissimi in un tazebao digitale che fanno girare su Twitter e nessuno ha
detto loro che un reato non penale non esiste.
I politici parlano come te
(la “congiuntivite” vuol dire fiducia) - Così il circolo è viziosissimo. Da una parte
tutto è perdonato perché non c’è capacità di sanzione per chi non ha strumenti.
Dall’altra la deformazione della lingua della politica c’entra soprattutto con
la psicologia, spiega Antonelli. Sbagliare un congiuntivo o
parlare di un fatto storico scambiando il Venezuela per il Cile,
usare metafore sciatte come derby, corner, catenaccio, zona Cesarini o parole
da reality show o ancora buttare qua e là un po’ di turpiloquio “hanno
la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà“. Lo specchio:
gli psicologi lo chiamano mirroring, rispecchiamento, cioè il ricalco.
“L’imitazione – spiega Antonelli – crea empatia: copiare i gesti
e gli atteggiamenti di una persona è un’ottima tecnica per guadagnare la sua
fiducia. Per piacergli e dunque per convincerlo più facilmente“.
L’analfabetismo, ha detto più volte De Mauro, è un instrumentum regni,
cioè “un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie
e mistificazioni“. La conclusione è che questo fenomeno “nel
migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo)
innesca una corsa al ribasso” perché “alimenta il narcisismo dei
destinatari, i quali – lusingati – preferiscono riflettersi che
riflettere”. Non lo fanno solo Berlusconi, Salvini, Renzi o i grillini. Lo fa
anche la sinistra, è successo per esempio con Nichi Vendola che –
analizza Antonelli – mescolava paroloni e espressioni da comitato centrale (nella
misura in cui) in modo da mettere in moto – con quello stile rococò – un “rispecchiamento
di nicchia“, magari con il precariato intellettuale o il mondo della
scuola.
Tutti i figli di Berlusconi - Ma dallo scivolamento
verso lo sprofondo non si salva nessuno dei principali leader politici,
nonostante tutti abbiamo promesso di incarnare il “nuovo” contro il
“vecchio”. Renzi e i Cinquestelle, per come parlano, sono
tutti figli dell’arcinemico, l’odiatissimo. E’ Berlusconi – il generalistissimo,
lo chiama Antonelli – che in Italia ha completato prima di tutti
l’adesione totale del linguaggio politico a quello televisivo e
pubblicitario, lui che se ne intendeva, quando dall’altra parte c’era la noia
della politica vestita come gli impiegati del catasto (Occhetto nel
primo duello tv con Berlusconi, 1994). L’unica differenza, semmai, tra
il linguaggio di allora e quello di oggi, secondo Antonelli, sta nell’insieme
delle parole da scegliere: Berlusconi si riferiva al sogno di un futuro
migliore, ma quel sogno non si è mai realizzato e la speranza si è trasformata
in rabbia, se non in invidia sociale.
I social: condivisione
dall’alto più che partecipazione dal basso - Un processo che ha messo
l’acceleratore a paletta prima con i talk-show a ogni ora del giorno e di più
con i social network che da sinonimo di partecipazione dal basso
sono già ridotti a strumenti di condivisione di un messaggio dall’alto (la parola più frequente sulla bacheca di Beppe Grillo,
secondo uno studio recente pubblicato da ilfatto.it, è “diffondete”).
“Il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinquestelle è figlio
proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la
cosiddetta seconda Repubblica” dice Antonelli. L’esito di un’involuzione,
aggiunge il linguista, che ha trascinato la lingua dei politici “da una
lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente
bassa”. Sempre più giù. Fino alla continua ricerca della battuta fino
alle barzellette di Berlusconi, fino all’estremo, fino all’insulto e
alla volgarità gratuita. Prima lo sfottò era facoltà del giullare di corte,
poi è finito scritto a penna sotto gli slogan dei manifesti (“La Dc ha
vent’anni”, ed è già così puttana), ora tutto è ribaltato: il Vaffanculo
day è l’anniversario della fondazione di un movimento.
Dai pensieri ai simboli
(leggere o guardare le figure) - Così ci si ritrova ad ascoltare l’offerta
politica “un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos
preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che – rinunciando a interpretare
la complessità del mondo – la semplifica in una serie di disegnini stilizzati”.
Renzi dice di voler abbattere le ideologie, ma passa all’ideografia,
cioè al pensiero dell’immagine. “Tutta la sua comunicazione è improntata a
questa retorica ideografica, che procede accostando simboli diversi”. Nei suoi
libri, ricorda Antonelli, cita Clint Eastwood, Josè Mourinho, Steve
Jobs, Pierluigi Collina, usa termini calcistici, giochi di parole di
grana grossa (il consunto “voti/veti” che dirà cento volte all’anno). “Renzi
parla velocemente, correttamente, senza perdere mai il filo – scriveva Claudio
Giunta in Essere #matteorenzi – Usa male le parole che tutti quanti
oggi usano male”. L’altro giorno non ha risparmiato un commento
dell’eliminazione dell’Italia dai Mondiali: “Il calcio in Italia è un’emozione
fantastica“, “Non partecipare al Mondiale di Russia è una sberla enorme“,
“Ripartiamo dai volontari dei settori giovanili e da chi crede nella magia
di questo sport”. Il punto, sottolinea Antonelli, è “che parli o che scriva,
Renzi non spiega: racconta”. Altro che partito della Nazione, “è il
partito della narrazione”. La soluzione ci sarebbe, per tutti, secondo
Antonelli: spostare il concetto di chiarezza dalla forma al contenuto:
“Smettere di usare le parole senza le cose“. Prima il cosa e poi il
come, prima l’analisi della realtà (tutta) e poi il modo giusto per dirla.
“Significa abbandonare l’idea che la politica debba limitarsi a ripetere la
vox populi“.
Specchio, servo delle mie
brame -
Dal politichese al politicoso, appunto. Visto che -oso indica abbondanza di
qualcosa, ecco che politicoso è “un linguaggio elementare, fatto di battute
e parole effimere“, “fatto di favole per adulti che affascinano chi
si lascia affabulare”. E forse anche con il rischio dell’autoaffabulazione.
Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame? e quello le
rispondeva che era lei, ma non era vero. La politica delle tifoserie – quella
di questi anni – corre lo stesso pericolo: gli elettori di ciascuna area dicono
al proprio leader che non c’è nessuno bello come lui, onesto come lui,
convincente come lui, ganzo come lui. E così i leader – ma anche quelli un po’
meno leader – si sentono in diritto di parlare “a nome del popolo”: “Siamo noi
il popolo sovrano e ne usciremo più forti che mai” gridava alla
manifestazione anti-Rosatellum la deputata M5s Roberta Lombardi che
tuttavia al momento è solo candidata alla presidenza della Regione Lazio. Piace
così tanto intestarsi l’opinione del popolo che spesso – come fece Salvini nel
2015 insieme a CasaPound che ora aborre – i partiti organizzano le loro
manifestazioni a piazza del Popolo. Che però, come si è spesso divertito
a ricordare proprio De Mauro, è riferito alla chiesa vicina, è
tradotto dal latino e soprattutto vuol dire pioppo. Da avere la
maggioranza al Senato ad andare per boschi, insomma, per qualcuno può essere
cosa di un attimo.
Diego Petrini (Il Fatto Quotidiano - 22 novembre 2017)
martedì 21 novembre 2017
Valencia 19 novembre 2017: in questa città ho concluso la mia quindicesima maratona.
Valencia 19 novembre 2017: in questa città ho concluso la mia
quindicesima maratona. Dopo quattro anni di infortuni e problemi di ogni
genere, domenica mattina ho nuovamente vissuto l'emozione della
partenza in un fiume di gente che parte entusiasta verso una meta
lontana. In una gelida mattina, riscaldata dagli abbracci di Franco,
siamo partiti in un misto di tensione e gioia. Accecata da un fascio di
luce ho visto Franco avviarsi più velocemente di me e scomparire tra la
folla.
Si corre una maratona per tanti motivi diversi. Ognuno ha la sua personale motivazione, i propri obiettivi, il proprio risultato. Si corre per mettersi alla prova, per misurarsi con l'aria, la fatica, il tempo, il corpo. Si corre perché correre è vivere e, come durante la vita si affrontano prove difficili, così nella corsa si attraversano tante fasi: gioia ed entusiasmo, dolore fisico e mentale, sconforto e forza miracolosamente ritrovata.
Si corre una maratona per tanti motivi diversi. Ognuno ha la sua personale motivazione, i propri obiettivi, il proprio risultato. Si corre per mettersi alla prova, per misurarsi con l'aria, la fatica, il tempo, il corpo. Si corre perché correre è vivere e, come durante la vita si affrontano prove difficili, così nella corsa si attraversano tante fasi: gioia ed entusiasmo, dolore fisico e mentale, sconforto e forza miracolosamente ritrovata.
Durante una maratona si fanno tanti incontri, proprio come nella vita.
Ci si sostiene a vicenda, ci si chiama per nome. Volti che appaiono e
scompaiono, gambe doloranti e affaticate davanti a te, piedi incerti sul
terreno della nostra esistenza, idiomi e accenti diversi, sguardi e
voci che ti aiutano ad andare avanti.
Città viva e accogliente Valencia, pronta a sostenerti durante la crisi per farti ritrovare una forza che pensavi di non avere più, perché senti solo dolore, fatica e nient'altro. Gente capace di inondarti d'affetto e calore così che i muscoli possano riprendere a funzionare, gli arti riscoprire il loro ruolo ed il tuo corpo rispondere ancora una volta.
Si corre per tanti motivi.... Nel 2009 a Praga ho corso per mio fratello Tony ed ancora adesso corro le maratone che lui non può più fare. Oggi corro per la mia Anastasia, per Marco, per Silvia e per Sara. Corro per questi giovani sperduti in un mondo che parla una lingua incomprensibile, corro perché riescano a trovare la propria strada.
Raggiungere un traguardo è importante, perché non bisogna mai arrendersi ed il coraggio e la forza d'animo devono sostenerci fino alla fine. Concludere una maratona è una conquista, comunque sia andata, perché durante la corsa della vita si è dato il massimo e questa certezza deve accompagnarci sempre.
Lucia Lo Bianco
Città viva e accogliente Valencia, pronta a sostenerti durante la crisi per farti ritrovare una forza che pensavi di non avere più, perché senti solo dolore, fatica e nient'altro. Gente capace di inondarti d'affetto e calore così che i muscoli possano riprendere a funzionare, gli arti riscoprire il loro ruolo ed il tuo corpo rispondere ancora una volta.
Si corre per tanti motivi.... Nel 2009 a Praga ho corso per mio fratello Tony ed ancora adesso corro le maratone che lui non può più fare. Oggi corro per la mia Anastasia, per Marco, per Silvia e per Sara. Corro per questi giovani sperduti in un mondo che parla una lingua incomprensibile, corro perché riescano a trovare la propria strada.
Raggiungere un traguardo è importante, perché non bisogna mai arrendersi ed il coraggio e la forza d'animo devono sostenerci fino alla fine. Concludere una maratona è una conquista, comunque sia andata, perché durante la corsa della vita si è dato il massimo e questa certezza deve accompagnarci sempre.
Lucia Lo Bianco
mercoledì 15 novembre 2017
Se B. torna premier, capiremo chi siamo davvero noi italiani
Io
coltivo un sogno per nulla irrealizzabile: che Silvio Berlusconi
ridiventi presidente del Consiglio. Perché l’affermazione del
“delinquente naturale” come capo del nostro Paese chiarirebbe, una volta
per tutte, a noi stessi e forse anche all’Europa (forse, perché
l’Italia sta infettando anche gli altri Stati del Vecchio Continente)
che cosa siamo diventati noi italiani, oggi, che cos’è la nostra
cosiddetta democrazia, oggi.
Perché
Berlusconi rappresenta al meglio il peggio degli italiani. Lasciamo pur
perdere che costui è stato condannato in via definitiva per un grave
reato, la frode fiscale, che ad altri cittadini costerebbe conseguenze
pesantissime e che invece Berlusconi ha scontato in modo ridicolo,
irridente, insultante per chi in galera ci è andato sul serio. Lasciamo
pur perdere le nove prescrizioni di cui questo soggetto ha goduto per
reati ancora più gravi, che in due casi anche la Cassazione aveva
accertato, come la corruzione di magistrati e di testimoni. Lasciamo pur
perdere che ha tuttora dei processi in corso.
Ma
concentriamoci su alcuni aspetti che non hanno a che fare strettamente
col giuridico: la menzogna, la volgarità, la disumanità mascherata da
calda umanità. Costui ha truffato, in combutta con Previti, una
minorenne, Anna Maria Casati Stampa, orfana di padre e di madre morti in
circostanze drammatiche, approfittando della sua età e del suo
smarrimento. Fatti lontani dirà qualcuno, ma che dicono di che pasta sia
fatto l’uomo fin dall’inizio della sua formidabile carriera
imprenditoriale e politica. E infatti questa spietatezza, priva di ogni
scrupolo, si è puntualmente ripetuta di recente quando Berlusconi,
premier, con abili maneggi, è riuscito a mandare una minorenne
psicolabile, contro la volontà dell’unico soggetto legittimato a
decidere sul caso, il pm dei minori Annamaria Fiorillo, là dove non
doveva proprio andare: fra le braccia di una prostituta ufficiale.
La
volgarità. Qualcuno ricorderà, forse, quello schioccar di dita in
televisione con cui intendeva dire, umiliandoci tutti, che in quel solo
attimo lui guadagnava quanto nessun lavoratore onesto avrebbe mai
guadagnato in mille vite. Oppure le corna fatte alle spalle del ministro
degli Esteri spagnolo in un importante consesso internazionale o il
goffo e goliardico tentativo di avvicinare le teste di Putin e di Bush
in un altro importante convegno internazionale o anche l’epiteto di
nazista appioppato al deputato socialdemocratico tedesco Martin Schulz
che ci rese ridicoli davanti al mondo intero o ancora la “culona
inchiavabile” rifilato ad Angela Merkel. E fermiamoci qui per carità di
Patria, ammesso che il nome di Patria possa avere ancora un senso in
questo Paese. Questa volgarità non è precipua di Berlusconi, noi
italiani siamo Berlusconi. La volgarità la vediamo dilagare nelle nostre
strade, nella nostra cultura, nella nostra televisione, nel nostro
giornalismo.
La
menzogna. Infinite sono le promesse non mantenute da Berlusconi nel
quasi quarto di secolo in cui è stato, di volta in volta, premier o capo
dell’opposizione. Ma in questo non si differenzia da moltissimi altri
politici italiani. Sfido chiunque ad affermare che l’Italia è migliorata
di un ette, economicamente, dal 1994, anno in cui Berlusconi divenne
per la prima volta premier, al 2008 (dopo il 2008 intervengono variabili
internazionali a cui nessuno avrebbe potuto porre rimedio, ci provò il
disprezzatissimo Mario Monti, che politico non era, cui fu affidato il
lavoro sporco).
L’Italia
calcistica, se batterà la Svezia, andrà ai Mondiali e potrebbe anche
vincerli. Ma l’Italia nel suo complesso un campionato mondiale lo ha già
vinto con ampio margine: quello della distruzione etica di un Paese e
di una comunità. Proponiamo che questa specialità sia introdotta,
insieme alle gare con le slot machine, nel programma delle prossime
Olimpiadi di Tokyo.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2018)
--
Caro Massimo Fini,
Nel suo pezzo di ieri accenna a una truffa di B.ai danni di una minore, Annamaria Casati Stampa orfana dei genitori deceduti in modo drammatico, senza fornire qualche informazione sul tipo di truffa fra le innumerevoli del Nostro.
Potrebbe precisare un po' o non si può per ragioni deontologiche?
Campanini M.
La truffa di Berlusconi e Previti ad Annamaria Casati Stampa è stata raccontata da Giovanni Ruggeri nel libro Berlusconi. Gli affari del Presidente (Kaos Edizioni, 1994) e da me in tre successivi articoli sull'Indipendente.
Solo dopo le mie ripetute insistenze Previti (e non Berlusconi) si
decise a querelare Ruggeri e me. Entrambi siamo stati assolti .
La
truffa, o meglio le truffe, consistevano in questo. La Casati Stampa,
minorenne, era rimasta orfana di entrambi i genitori morti per una
tragedia a sfondo sessuale. Purtroppo per lei aveva come protutore
Previti già in combutta con Berlusconi attraverso la società Idra.
Previti vendette a Berlusconi la villa di Arcore con annesso parco per
la cifra ridicola di 500 milioni (solo i luini della villa valevano tre
volte tanto). Prima che fosse regolarizzata la permuta, e quindi che
Berlusconi avesse pagato, l’allora Cavaliere si installò nella villa di
Arcore con Dell’Utri e il noto mafioso Mangano. Salderà solo ad anni di
distanza, mentre la Casati continuerà a pagarci le tasse.
Ma
ancora più incredibile è la seconda truffa. I Casati Stampa a Cusago
possedevano un vastissimo territorio pari a 246 ettari. Previti vendette
queste proprietà a Berlusconi per la cifra ancora più ridicola di
1miliardo e 700milioni. Ma le pagò con azioni di società di Berlusconi
non quotate in borsa e dal valore molto dubbio. Quando la Casati Stampa
cercò di realizzare vendendo queste azioni non trovò nessuno disposto a
comprarle. Allora arrivarono, soccorrevoli, il Gatto e la Volpe
dicendole: le ricompriamo noi. Ma a metà prezzo: 800milioni.
domenica 12 novembre 2017
Non solo il vento ma anche delle piccole pietre potranno smuovere acque stagnanti
Convenzioni culturali
che accomunano cicliche generazioni variano secondo i tempi, si evolvono e si
involvono seguendo i corsi ed il mutare delle regole di convivenza che nuovi uomini cambiano
di conseguenza.
In un sistema anarchico ciascuno troverebbe legittimo e ideale il proprio modo di vivere, senza regole che obblighino neanche a rispetto di limiti posti a salvaguardia dell’altrui pensiero. In un contesto organizzato convenzioni innovate e paletti sono indispensabili per delimitare i confini posti a tutela, per garantire a tutti una convivenza associativa.
Se dovessi sintetizzare il senso dei commenti suscitati dal mio ultimoscritto sulla fotografia direi: “mi meraviglio che tu ti meravigli, anche perché nella competizione fine a se stessa c’è molto narcisismo e spesso solo voglia di affermarsi …… sono proprio pochi i casi che si caratterizzano con l’intento di condividere per comunicare”.
Quanto da me sollevato non sono proteste velleitarie ma delle considerazioni ...... per questo ho voluto argomentare producendo fatti concreti e dopo aver precedentemente concettualizzato e messo in conto ogni possibilità e discrezionalità.
Per quanto mi riguarda, le reazioni registrate mi sono comunque tornate utili, in quanto mi hanno consentito di scoprire che tanti altri hanno vissuto in passato queste questioni e che tanti altri saranno destinati a scoprirle in futuro.
Qualcuno ha evidenziato che, grazie alla comunicazione resa più facile dal web, oggi si ha la possibilità di discutere di queste cose coinvolgendo una ampia platea; in passato, chi si è imbattuto in esclusioni “arbitrarie” ha, in solitudine, dovuto farsene una ragione.
In qualche caso qualcuno, a distanza di tempo, ancor oggi non riesce a trovare una razionale spiegazione.
Taluni anestetizzano il problema, scartando ogni possibilità che induca a competere; equivocando sulla natura stessa del competere che costituisce di per sé una occasione di confronto e di crescita comune. Ma, perché il confronto corrisponda a crescita, occorre che siano convenute regole improntate alla trasparenza, ovvero che siano palesati i valori e le caratteristiche premianti in ogni competizione.
Come ho avuto modo di precisare il mio precedente scritto intendeva accendere un cono di luce proprio su questi aspetti, rendere cioè chiare e leggibili per tutti le motivazioni sottostanti ai giudizi e che possano giustificare qualunque risultato.
Si dirà il mondo è bello perché è vario e differenti modi di vedere possono anche trovare giustificazione e supporto legittimo, ma occorre offrire un minimo di garanzie rendendo chiare convinzioni maturate che adducono ai criteri selettivi propedeutici alle scelte premianti.
Questo che potrà apparire anche un panegirico potrà essere valutato eccessivo ma le discussione sono sempre state una costante “sempreverde” in ogni forma associativa.
Tutti i fenomeni sociali che ci toccano sono sempre stati influenzati dagli uomini del tempo e dalle regole sociali via via attuate, ma in tutti i casi è sempre necessitato almeno uno “statuto”.
A completamento dell’articolo rimando ai commenti postati sul blog e agli stralci di quattro altre utili considerazioni ricevute in forma privata, che ritengo siano meritevoli di essere lette.
Infine, al di la di ogni conclusione che ciascuno potrà facilmente trovare e fare propria, l’avere buttato una ennesima piccola pietra nell’acqua di un ampio mare mi soddisfa. Solo con il vento o con simili gesti si potranno muovere eventuali acque stagnanti.
Per il futuro, almeno per quanto mi riguarda, magari davanti a eventuali solleciti per partecipare a concorsi accennerò a un sorriso ripensando al classico motto di ripelica del mitico Totò, che ironicamente rispondeva: "Ma mi faccia il piacere!".
Per chi avesse curiosità informo che sono stati intanto ufficializzati i risultati finali e pubblicate sul sito dell'UIF le sole 83 immagini risultate premiate e segnalate nelle tre competizioni che componevano il "Circuito" su cui ho disquisito. Nel caso, scorrendo i pdf che elencano i risultati di dettaglio si avrà già modo di scoprire, udite udite, ben quattro casi di foto classificate prima o seconda in un concorso (Gold o Silver) che non riusultano neanche ammesse negli altri due; ciò è di fatto la prova provata di incongruenze intrinseche nei metodi/risultati nello stesso "Circuito Ponente Ligure" ovvero la dimostrazione lampante di tutto quanto ho voluto evidenziare nei miei articolati interventi scritti.
Buona luce a tutti.
In un sistema anarchico ciascuno troverebbe legittimo e ideale il proprio modo di vivere, senza regole che obblighino neanche a rispetto di limiti posti a salvaguardia dell’altrui pensiero. In un contesto organizzato convenzioni innovate e paletti sono indispensabili per delimitare i confini posti a tutela, per garantire a tutti una convivenza associativa.
Se dovessi sintetizzare il senso dei commenti suscitati dal mio ultimoscritto sulla fotografia direi: “mi meraviglio che tu ti meravigli, anche perché nella competizione fine a se stessa c’è molto narcisismo e spesso solo voglia di affermarsi …… sono proprio pochi i casi che si caratterizzano con l’intento di condividere per comunicare”.
Quanto da me sollevato non sono proteste velleitarie ma delle considerazioni ...... per questo ho voluto argomentare producendo fatti concreti e dopo aver precedentemente concettualizzato e messo in conto ogni possibilità e discrezionalità.
Per quanto mi riguarda, le reazioni registrate mi sono comunque tornate utili, in quanto mi hanno consentito di scoprire che tanti altri hanno vissuto in passato queste questioni e che tanti altri saranno destinati a scoprirle in futuro.
Qualcuno ha evidenziato che, grazie alla comunicazione resa più facile dal web, oggi si ha la possibilità di discutere di queste cose coinvolgendo una ampia platea; in passato, chi si è imbattuto in esclusioni “arbitrarie” ha, in solitudine, dovuto farsene una ragione.
In qualche caso qualcuno, a distanza di tempo, ancor oggi non riesce a trovare una razionale spiegazione.
Taluni anestetizzano il problema, scartando ogni possibilità che induca a competere; equivocando sulla natura stessa del competere che costituisce di per sé una occasione di confronto e di crescita comune. Ma, perché il confronto corrisponda a crescita, occorre che siano convenute regole improntate alla trasparenza, ovvero che siano palesati i valori e le caratteristiche premianti in ogni competizione.
Come ho avuto modo di precisare il mio precedente scritto intendeva accendere un cono di luce proprio su questi aspetti, rendere cioè chiare e leggibili per tutti le motivazioni sottostanti ai giudizi e che possano giustificare qualunque risultato.
Si dirà il mondo è bello perché è vario e differenti modi di vedere possono anche trovare giustificazione e supporto legittimo, ma occorre offrire un minimo di garanzie rendendo chiare convinzioni maturate che adducono ai criteri selettivi propedeutici alle scelte premianti.
Questo che potrà apparire anche un panegirico potrà essere valutato eccessivo ma le discussione sono sempre state una costante “sempreverde” in ogni forma associativa.
Tutti i fenomeni sociali che ci toccano sono sempre stati influenzati dagli uomini del tempo e dalle regole sociali via via attuate, ma in tutti i casi è sempre necessitato almeno uno “statuto”.
A completamento dell’articolo rimando ai commenti postati sul blog e agli stralci di quattro altre utili considerazioni ricevute in forma privata, che ritengo siano meritevoli di essere lette.
Infine, al di la di ogni conclusione che ciascuno potrà facilmente trovare e fare propria, l’avere buttato una ennesima piccola pietra nell’acqua di un ampio mare mi soddisfa. Solo con il vento o con simili gesti si potranno muovere eventuali acque stagnanti.
Per il futuro, almeno per quanto mi riguarda, magari davanti a eventuali solleciti per partecipare a concorsi accennerò a un sorriso ripensando al classico motto di ripelica del mitico Totò, che ironicamente rispondeva: "Ma mi faccia il piacere!".
Per chi avesse curiosità informo che sono stati intanto ufficializzati i risultati finali e pubblicate sul sito dell'UIF le sole 83 immagini risultate premiate e segnalate nelle tre competizioni che componevano il "Circuito" su cui ho disquisito. Nel caso, scorrendo i pdf che elencano i risultati di dettaglio si avrà già modo di scoprire, udite udite, ben quattro casi di foto classificate prima o seconda in un concorso (Gold o Silver) che non riusultano neanche ammesse negli altri due; ciò è di fatto la prova provata di incongruenze intrinseche nei metodi/risultati nello stesso "Circuito Ponente Ligure" ovvero la dimostrazione lampante di tutto quanto ho voluto evidenziare nei miei articolati interventi scritti.
Buona luce a tutti.
©
Essec
--
“Letto.... riletto ed anche riletto
"giudici e giurie". …… Le Tue Opere sono molto belle e significative;
poi, con le didascalie aiutano il fruitore (me) a "leggerle" meglio.
Vorrei vedere le Opere vincitrici, selezionate ed ammesse per capire meglio....
Certo è un concorso internazionale con molti iscritti ed è anche FIAF (che mi
porta a confermare le Tue supposizioni....... Proprio per l'internazionalità, forse,
il livello si alza ed allora riporto un pezzo dal Tuo blog : " molto
dipende anche dalle tecniche attuate in sede selettiva, ancor di più dal numero
e dalla media qualitativa delle opere presentate, ...."Ripeto, desidero
vedere le opere vincitrici ecc. per esprimere una modestissima opinione.”
--
Faccio una considerazione NON strettamente
legata alle TUE fotografie (quindi "im-pertinente”). Premesso che la tua
produzione è quasi tutta valida e che mi piace, provo a mettermi nei panni di
chi non le ha ritenute meritevoli. Tra tante fotografie di elevata qualità
tecnica avranno preferito le più efficaci dal punto di vista estetico, anche
quelle che, forse, sono ottenute ricorrendo a particolari di sicuro e immediato
effetto (riflessi, colori, glamour, silhouette ...) ed hanno penalizzato
ingiustamente i contenuti ed il significativo messaggio trasmesso dalle altre
immagini. E così hanno voluto anche semplificare la lettura al pubblico meno
preparato. Le gare prevedono anche i sorpassi e il carburante special per
questo non è sempre vero che vince il migliore. Ti suggerisco di non
polemizzare e non essere competitivo.
Racconta, piuttosto, le esperienze personali, il bagaglio tecnico e
l'attrezzatura che hai usato per realizzare le foto più improbabili. Il famoso "Manuale
illustrato Clemente teorico-pratico".
--
“Che dirti? La fotografia sta sempre bene in
salute; i fotografi un pò meno; anzi, decisamente male. La realtà cambia
con velocità di tempo e di senso maggiore di loro strumenti; e, se ci
tocca ricorrere ai loro intelletti, ci accorgiamo spesso che sono servi del
benedetto denaro (nei casi migliori). Io, ……, non cerco riconoscimenti di alcun
genere e come quel tale (J. Schmid) mi sono proposto di non vedere altre
fotografie se non dopo avere esaurito la visione di tutte le fotografie
realizzate in tutto il pianeta e solo in era analogica. Ho, pertanto, un
grande avvenire dietro alle spalle: devo, però, liberarmi della presunzione -
caratteristica di noi siciliani- , della vanità che ogni giorno vedo, per
fortuna, mortificata da nuovi pensieri che tanta gente (a cominciare
dalla tua persona) sa esprimere con maggiore opportunità ed intelligenza,
e dal desiderio esistenziale che mi spinge, spes contra spem, a chiedervi di non
smettere di fotografare (proprio così). Lo sfogo finisce qui: io mi
ritiro tra i miei libri e tra le mie meditazioni affidando la conoscenza, per
chi interessa, del mio modestissimo pensiero alla vecchia carta stampata (v.
Gente di fotografia, Fotoit, Riflessioni, Rivista di Studi di Storia della
fotografia, Arabeschi Università di Catania), non accordando la minima fiducia
alla gratuità e alla spettacolarità del web. Agli amanti della fotografia
siciliana confesso di non avvertire nessuna necessità di confronto, ma solo il
sincero desiderio di dialogo e conoscere e imparare, sempre e nuovamente,
qualcosa dell’immagine della vita. Niente, a mio avviso, cura la vita
meglio della vita.”
--
“Comunque è sempre così. Dipende dalle giurie, dalla loro cultura, dai loro trascorsi di vita e poi dalle altre immagini a concorso. Ma possibile pure (ed al 70% è sempre così) che quando riceverai il catalogo non sarai d'accordo con la giuria sulle foto ammesse, le premiate di solito sono molto superiori alla norma e quindi vanno bene.”
--
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“Comunque è sempre così. Dipende dalle giurie, dalla loro cultura, dai loro trascorsi di vita e poi dalle altre immagini a concorso. Ma possibile pure (ed al 70% è sempre così) che quando riceverai il catalogo non sarai d'accordo con la giuria sulle foto ammesse, le premiate di solito sono molto superiori alla norma e quindi vanno bene.”
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