Un vocabolario sempre più ristretto,
discorsi fatti in parole davvero povere, con molte frasi fatte,
motti alla moda, sfondoni, parolacce, formulette trite non
da salotto ma da tinello tv. Un italiano grossolano, banale, elementare,
quasi infantile che moltiplica parole vuote ma all’occorrenza anche gli strafalcioni.
La crisi della politica sta dentro la crisi della sua lingua che cambia. Male.
Di più: di male in peggio. Berlusconi, colui che come al solito
tutto comprende, è stato solo l’inizio, ma in realtà alla fine è l’alfa
e l’omega del nuovo idioma. Una noncuranza nei confronti delle
regole delle scuole elementari, ma anche nei confronti dell’aderenza alla
realtà e del senso delle proporzioni: è così che anche la grammatica è
diventata populista, è così che dal politichese si è passati al politicoso.
L’analisi è da disperarsi una volta di più e la mette nero su bianco il
linguista Giuseppe Antonelli, in Volgare eloquenza (Collana
Tempi nuovi di Laterza, 144 pagine, 14 euro). Un saggio essenziale,
nel senso che toglie il superfluo: con una forma leggera, scorrevole, ironica,
Antonelli dà un colpo secco al tavolo stile saloon dei western per scoprire le
carte della lingua dei politici della Terza Repubblica. Carte che,
nonostante i bluff, non sono esattamente quattro assi.
Il titolo del libro ribalta quello di un’opera (De
vulgari eloquentia) con cui Dante certificava che ormai
il volgare era “pronto” per sostituire il latino
nell’uso corrente perché era “popolare”. Ora, spiega Antonelli, questo
concetto è stato gualcito, fino ad uscirne accartocciato: “Oggi l’eloquenza
di molti politici può essere definita volgare proprio a partire
dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo”.
Non più popolare, quindi. Semmai “nel momento stesso in cui si mitizza il popolo
sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue”. Ci si
rivolge al popolo lisciandolo ma parlandogli come a un bambino abbassando
sempre di più il livello. Con parole terra-terra, da poppante (vaffanculo,
vergogna, basta, tutti a casa): “E’ uno schifo”, “è infame”, “siamo
stufi” dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini quasi ogni giorno
quasi su ogni argomento, dalle pensioni alla difesa dell’olio pugliese. O
viceversa con espressioni così universali da assomigliare alla pace nel
mondo auspicata dalle concorrenti di Miss Italia (andiamo avanti!,
verso il futuro, un futuro meraviglioso, pieno di sfide, sfide che vinceremo, ché
siamo tantissimi). “Si può fare di più e meglio, facciamolo insieme –
ha detto Matteo Renzi durante la direzione del Pd di dieci giorni fa –
L’Italia ha bisogno di una comunità politica che abbia al centro il futuro dei
figli”.
Dall’incomprensibile a
quelli che parlano come (o mentre) mangiano - Così, il Paese si ritrova a pezzi
anche davanti al vocabolario. I burocrati e i magistrati portano avanti la
loro dittatura di chi scrive in modo incomprensibile, scambiandolo per
aulico, convinti di farlo bene. Da legislatori i politici usano una lingua rigonfia e
oscura, come fu per la riforma della Costituzione poi bocciata.
Mentre da comunicatori, infine, gli stessi politici usano “un linguaggio
elementare, fatto di battute e parole effimere“, parole che, “rimbalzate
all’infinito, stanno paralizzando la politica”. Altro che mondo
nuovo, dunque, altro che sol dell’avvenire, altro che piramide rovesciata,
altro che post-politica: quella della classe politica è piuttosto una “veterolingua:
rozza, semplicistica, aggressiva” che punta su emozioni, istinti,
impulsi. L’obiettivo è uno: dare uno specchio all’elettore. Così “parlano
come mangiano”, anche se a volte sembra che parlino e mangino nello stesso
momento. “Dal ‘Votami perché parlo meglio (e dunque ne so di più) di te’ si è
passati al ‘Votami perché parlo (male) come te’” chiude Antonelli.
Razzi, Salvini e Di Maio - Tutto è perdonato, su
tutto si passa sopra, perché l’elettore si sente a casa. Mentre tutti si
sentono intelligenti a canzonare il senatore Antonio Razzi – che
vabbè, è Razzi – nessuno si scandalizza se il segretario della Lega Nord
dice che “migrante” è un gerundio e “Nord” un avverbio. O
se il vicepresidente della Camera dei Cinquestelle dice di avere alter ego
in altri Paesi, quando nel frattempo ha un problema conclamato con il congiuntivo
con il quale centrò il record con la triplice riscrittura di un tweet (per la
cronaca erano sbagliati tutt’e tre). Il leader del Partito democratico fatica a
finire un discorso senza un termine calcistico o una frase fatta (“Chi sbaglia,
deve andare a casa” ha detto della Nazionale di calcio), quello del M5s
senza una parolaccia o un insulto.
Una comoda verità - Ma il resto degli
italiani non è meglio. Né peggio: secondo Tullio De Mauro – il teorico
della lingua come democrazia – 8 su 10 hanno difficoltà a utilizzare
quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà
abbastanza gravi nella comprensione, i 5 milioni di italiani
hanno completa incapacità di lettura. Si chiamano analfabeti. Una
volta a De Mauro hanno chiesto qual è la percentuale di italiani che capiscono
discorsi politici o come funziona la politica. “Certamente inferiore al 30 per
cento”, rispose lui. E chi “non possiede strumenti linguistici adeguati rimane
un individuo a cittadinanza limitata” chiarisce Antonelli. De Mauro,
d’altra parte, abbottonava l’analfabetismo di ritorno con i “molti
spinti a votare più con la pancia che con la testa”. E tutto questo
alla politica fa un gran comodo: “La valutazione di questi gruppi dirigenti –
diceva sempre De Mauro – è che uno sviluppo adeguato dell’istruzione mette in
crisi la loro stessa persistenza in posizioni di potere“. “Il falso
in bilancio è tornato reato penale” scrivono i deputati del Pd
orgogliosissimi in un tazebao digitale che fanno girare su Twitter e nessuno ha
detto loro che un reato non penale non esiste.
I politici parlano come te
(la “congiuntivite” vuol dire fiducia) - Così il circolo è viziosissimo. Da una parte
tutto è perdonato perché non c’è capacità di sanzione per chi non ha strumenti.
Dall’altra la deformazione della lingua della politica c’entra soprattutto con
la psicologia, spiega Antonelli. Sbagliare un congiuntivo o
parlare di un fatto storico scambiando il Venezuela per il Cile,
usare metafore sciatte come derby, corner, catenaccio, zona Cesarini o parole
da reality show o ancora buttare qua e là un po’ di turpiloquio “hanno
la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà“. Lo specchio:
gli psicologi lo chiamano mirroring, rispecchiamento, cioè il ricalco.
“L’imitazione – spiega Antonelli – crea empatia: copiare i gesti
e gli atteggiamenti di una persona è un’ottima tecnica per guadagnare la sua
fiducia. Per piacergli e dunque per convincerlo più facilmente“.
L’analfabetismo, ha detto più volte De Mauro, è un instrumentum regni,
cioè “un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie
e mistificazioni“. La conclusione è che questo fenomeno “nel
migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo)
innesca una corsa al ribasso” perché “alimenta il narcisismo dei
destinatari, i quali – lusingati – preferiscono riflettersi che
riflettere”. Non lo fanno solo Berlusconi, Salvini, Renzi o i grillini. Lo fa
anche la sinistra, è successo per esempio con Nichi Vendola che –
analizza Antonelli – mescolava paroloni e espressioni da comitato centrale (nella
misura in cui) in modo da mettere in moto – con quello stile rococò – un “rispecchiamento
di nicchia“, magari con il precariato intellettuale o il mondo della
scuola.
Tutti i figli di Berlusconi - Ma dallo scivolamento
verso lo sprofondo non si salva nessuno dei principali leader politici,
nonostante tutti abbiamo promesso di incarnare il “nuovo” contro il
“vecchio”. Renzi e i Cinquestelle, per come parlano, sono
tutti figli dell’arcinemico, l’odiatissimo. E’ Berlusconi – il generalistissimo,
lo chiama Antonelli – che in Italia ha completato prima di tutti
l’adesione totale del linguaggio politico a quello televisivo e
pubblicitario, lui che se ne intendeva, quando dall’altra parte c’era la noia
della politica vestita come gli impiegati del catasto (Occhetto nel
primo duello tv con Berlusconi, 1994). L’unica differenza, semmai, tra
il linguaggio di allora e quello di oggi, secondo Antonelli, sta nell’insieme
delle parole da scegliere: Berlusconi si riferiva al sogno di un futuro
migliore, ma quel sogno non si è mai realizzato e la speranza si è trasformata
in rabbia, se non in invidia sociale.
I social: condivisione
dall’alto più che partecipazione dal basso - Un processo che ha messo
l’acceleratore a paletta prima con i talk-show a ogni ora del giorno e di più
con i social network che da sinonimo di partecipazione dal basso
sono già ridotti a strumenti di condivisione di un messaggio dall’alto (la parola più frequente sulla bacheca di Beppe Grillo,
secondo uno studio recente pubblicato da ilfatto.it, è “diffondete”).
“Il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinquestelle è figlio
proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la
cosiddetta seconda Repubblica” dice Antonelli. L’esito di un’involuzione,
aggiunge il linguista, che ha trascinato la lingua dei politici “da una
lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente
bassa”. Sempre più giù. Fino alla continua ricerca della battuta fino
alle barzellette di Berlusconi, fino all’estremo, fino all’insulto e
alla volgarità gratuita. Prima lo sfottò era facoltà del giullare di corte,
poi è finito scritto a penna sotto gli slogan dei manifesti (“La Dc ha
vent’anni”, ed è già così puttana), ora tutto è ribaltato: il Vaffanculo
day è l’anniversario della fondazione di un movimento.
Dai pensieri ai simboli
(leggere o guardare le figure) - Così ci si ritrova ad ascoltare l’offerta
politica “un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos
preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che – rinunciando a interpretare
la complessità del mondo – la semplifica in una serie di disegnini stilizzati”.
Renzi dice di voler abbattere le ideologie, ma passa all’ideografia,
cioè al pensiero dell’immagine. “Tutta la sua comunicazione è improntata a
questa retorica ideografica, che procede accostando simboli diversi”. Nei suoi
libri, ricorda Antonelli, cita Clint Eastwood, Josè Mourinho, Steve
Jobs, Pierluigi Collina, usa termini calcistici, giochi di parole di
grana grossa (il consunto “voti/veti” che dirà cento volte all’anno). “Renzi
parla velocemente, correttamente, senza perdere mai il filo – scriveva Claudio
Giunta in Essere #matteorenzi – Usa male le parole che tutti quanti
oggi usano male”. L’altro giorno non ha risparmiato un commento
dell’eliminazione dell’Italia dai Mondiali: “Il calcio in Italia è un’emozione
fantastica“, “Non partecipare al Mondiale di Russia è una sberla enorme“,
“Ripartiamo dai volontari dei settori giovanili e da chi crede nella magia
di questo sport”. Il punto, sottolinea Antonelli, è “che parli o che scriva,
Renzi non spiega: racconta”. Altro che partito della Nazione, “è il
partito della narrazione”. La soluzione ci sarebbe, per tutti, secondo
Antonelli: spostare il concetto di chiarezza dalla forma al contenuto:
“Smettere di usare le parole senza le cose“. Prima il cosa e poi il
come, prima l’analisi della realtà (tutta) e poi il modo giusto per dirla.
“Significa abbandonare l’idea che la politica debba limitarsi a ripetere la
vox populi“.
Specchio, servo delle mie
brame -
Dal politichese al politicoso, appunto. Visto che -oso indica abbondanza di
qualcosa, ecco che politicoso è “un linguaggio elementare, fatto di battute
e parole effimere“, “fatto di favole per adulti che affascinano chi
si lascia affabulare”. E forse anche con il rischio dell’autoaffabulazione.
Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame? e quello le
rispondeva che era lei, ma non era vero. La politica delle tifoserie – quella
di questi anni – corre lo stesso pericolo: gli elettori di ciascuna area dicono
al proprio leader che non c’è nessuno bello come lui, onesto come lui,
convincente come lui, ganzo come lui. E così i leader – ma anche quelli un po’
meno leader – si sentono in diritto di parlare “a nome del popolo”: “Siamo noi
il popolo sovrano e ne usciremo più forti che mai” gridava alla
manifestazione anti-Rosatellum la deputata M5s Roberta Lombardi che
tuttavia al momento è solo candidata alla presidenza della Regione Lazio. Piace
così tanto intestarsi l’opinione del popolo che spesso – come fece Salvini nel
2015 insieme a CasaPound che ora aborre – i partiti organizzano le loro
manifestazioni a piazza del Popolo. Che però, come si è spesso divertito
a ricordare proprio De Mauro, è riferito alla chiesa vicina, è
tradotto dal latino e soprattutto vuol dire pioppo. Da avere la
maggioranza al Senato ad andare per boschi, insomma, per qualcuno può essere
cosa di un attimo.
Diego Petrini (Il Fatto Quotidiano - 22 novembre 2017)
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