venerdì 24 novembre 2017

Qual’è il senso del fotografare?



Nel lontano giugno 2009 ebbi il piacere di seguire un seminario di Gianni Berengo Gardin al festival internazionale del reportage di Atri. Eravamo già in completa rivoluzione digitale e ricordo che mentre lui ci raccontava della sua vita, esordì con una frase particolare, se volete realizzare un immagine usate pure le vostre reflex ma se volete scattare una fotografia dovete usare una Leica, alludendo al paragone tra le nuove reflex digitali e quelle a pellicola, nella fattispecie Leica di cui è sempre stato un estimatore incallito.
A queste parole quasi mezza sala si svuotò ma io restai, continuai a seguirlo nel suo dialogare non tanto per educazione ma per pura convenienza, un lupo con 80 e passa anni di vita sulle spalle non può essere scaricato così su due piedi, qualcosa da spremere da questa vecchia spugna così intrisa di sensibilità e gusto, tecnica ed etica professionale, esperienza e garbo, ci sarebbe pur stato. La storia del suo successo mi intrigava ancor più delle sue stesse foto, cosi come pure la storia della sua vita che ha attraversato quasi un secolo di storia.
Non vi nascondo che lì per lì anch’io provai una forte indignazione ascoltando quelle sue parole che tanto disgusto provocarono in tanti ma oggi credo di aver capito a cosa alludeva il Maestro.
Stiamo parlando di un uomo che iniziò a fotografare quando non c’erano in giro tanti fotografi e neanche tanta scelta in fatto di apparecchi da ripresa, erano gli anni in cui professionalmente si erano affermate solo le Rolleiflex e le Leica e fu proprio quest’ultimo brand che più si adattava alle sue esigenze di reporter. Acquistò quindi una Leica in società con un altro fotografo per via del prezzo proibitivo (erano care già allora) e la usavano a turno. Quando poi le cose cominciarono ad andargli bene ne acquistò una tutta sua e non si staccò più da questo marchio ma soprattutto non lasciò mai più la pellicola, quella stessa pellicola che sembra aver avuto lo stesso suo periodo di vita. Curioso infatti notare che il periodo di maggior splendore della fotografia analogica coincide con l’arco di vita di Berengo, dalla sua nascita ad oggi anche se lui iniziò a fotografare nel 1954.
Quello che accadde a quest’uomo a cavallo degli anni 70-80 credo sia stato qualcosa per lui traumatico che somiglia molto a quello che succede oggi a molti della mia età, a quei cinquantenni fotografi che si formarono a suon di pellicole prima di abbracciare il digitale.
Cosa successe a Berengo ? come dicevo già negli anni 70 la fotografia divenne un fenomeno di massa, il boom economico e il proliferare di reflex a basso costo di marchi pur sempre prestigiosi come nikon, canon e pentax, fecero si che schiere sempre più numerose di fotografi si affacciassero sul mercato. Questo fatto al povero Berengo che fino ad allora aveva fatto parte di una ristrettissima cerchia di “amici”, gli dovette apparire come un vero e proprio imbastardimento della nobilissima arte della fotografia, ne prese atto ma continuò per la sua strada. Erano diventati tanti i fotografi, in molti pure bravi, altri sempre più banali ma si trattava pur sempre di persone che usavano la stessa pellicola che usava lui seppur più “libertini”. Una persona come lui cosi abituata ad osservare per ore prima di pigiare il bottone della sua Leica non avrà visto di buon occhio tutta quella gente col “cheese” sempre pronto che produceva montagne di foto insignificanti, foto mute e senza anima.
Eccoci arrivati ai nostri giorni, uno come lui può apparirci di certo come un dinosauro del mesozoico, un fossile vivente che ha attraversato un secolo con poche ma inossidabili certezze, uno che fa paura quando ti dice che non sappiamo più se una foto è vera o taroccata, che oggi è il tempo del grande “dubbio”. Senza parlare della valenza di un reale scopo della fotografia attuale.
Cosa potevamo aspettarci in quella sala ad Atri da Berengo ? da uno che per la seconda volta ha vissuto un trauma di abbrutimento della fotografia e del suo processo lento ma inesorabile di metamorfosi verso una banalissima “immagine” ? Che i social e i selfie dei nostri giorni siano il siero che hanno trasformato il dottor Jekill in mister Hyde credo non ci siano più dubbi ma probabilmente nelle parole predittorie fredde e dirette del Maestro di quella piovosa mattina di giugno c’era anche la triste consapevolezza che l’antidoto non lo avremmo trovato MAI.
Da questa esperienza e non solo, mi è spesso ritornato in mente più impetuoso che mai il vero interrogativo che per molto tempo mi privò del sonno, qual’è il senso del fotografare? Lo spingersi e rincorrersi tra fotografi, riesce a far dimenticare loro lo scopo ultimo del loro lavoro, della “mission” sociale a cui sono chiamati di rispondere. A una fotografia esteriore ed estetizzante, fedele sacerdotessa della bellezza a tutti i costi, ad una banalizzazione progressiva scontata e melensa, al ritrovato gusto per l’orrido, è pensabile ai giorni nostri contrapporre delle ragioni nobili nel fotografare ? Sensibilità e intelligenza da sole non bastano a ritrovare noi stessi, serve una nuova consapevolezza del nostro vivere, una percezione differente dell’atto fotografico, che possa mutare e mutarsi in un attimo di reale utilità sociale. Chi credeva di essere arrivato può accorgersi oggi di essere appena partito.


 

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