mercoledì 31 gennaio 2018

'68 BELICE FERITO - Personale fotografica di Nino Giaramidaro (Slideshow)

https://youtu.be/BF_qFEbmMmE
"Erano le quattro del mattino nel buio di quel lunedì lungo la statale 119, da Santa Ninfa a Gibellina e poi, curvando a destra, sulla Provinciale verso Poggioreale e Salaparuta, ancora più giù l'agrigentina Montevago. In quella grande falce di paesi del Belice cìera stato l'epicentro, sinonimo elegante e docile della distruzione.
Quando il giorno si fece largo fra le pesanti nuvole, apparve Gibellina rasa al suolo. Il bombardamento di Dresda, la bomba di Enola Gay su Hiroshima. Poi Poggioreale, Salaparuta e Montevago dove sulla piazza era rimasta in piedi solo l'insegna di un distributore della Total.
Notti all'addiaccio, vagoni ferroviari pieni di deportati, le tende nel fango, la paura delle malattie, le baracche - anni e anni di vita dentro rettangoli di faesite - una punizione da rappresaglia per circa centomila della Sicilia sconosciuta. Una vergogna piena di bugie, sotterfugi, violenza, patimenti e speranze perdute.
Queste fotografie sono tentativi di ricordare quei giorni mesi e anni nel Belice ferito, umiliato e ingannato ma, per fortuna, non vinto." 

(Nino Giaramidaro)


martedì 30 gennaio 2018

Elezioni, il Pd in Sicilia candida gli ex di Lombardo e Cuffaro. E poi la figlia di Cardinale e del sindaco di Forza Italia



C’è l’ex capogruppo del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. E poi quella che Totò Cuffaro definisce una “sua amica“. Qualche cambiacasacca di lungo corso fulminato sulla via delle Leopolda. Quindi gli immancabili “figli di“: l’erede dell’ex ministro Totò Cardinale, che ormai da dieci anni ha ricevuto in dote dal padre il seggio al Parlamento. E il rampollo dell’ex sindaco di Agrigento, già senatore del centrodestra con un nutrito curriculum giudiziario. Non c’è solo il caso di Maria Elena Boschi a surriscaladare gli animi del Pd in Sicilia. Non c’è soltanto la tripla candidatura da capolista della sottosegretaria a rendere il partito una “pentola a pressione“. Ad avvelenare gli animi dei dem, infatti, sono anche gli altri nomi inseriti dal Nazareno nei collegi per le politiche del prossimo 4 marzo. 
“Le liste hanno quattro padroni” – “La composizione delle liste l’abbiamo appresa dal sito. Quelle liste hanno quattro padroni: Leoluca Orlando, Davide Faraone, Luca Sammartino e Totò Cardinale“, commentano velenosi dai vertici del partito siciliano. Dopo anni di polemiche roventi con i dem, infatti, il sindaco di Palermo ha formalizzato venerdì scorso la sua adesione al Pdincassando subito il posto da capolista – nel collegio proporzionale della Camera a Palermo – per il fidato Fabio Giambrone. Ex senatore di Italia dei Valori, Giambrone ha ben amministrato negli ultimi anni la Gesap, che gestisce l’aeroporto del capoluogo siciliano: quella per l’adesione di Orlando al Pd, dunque, è una polemica di tipo puramente politico. 
Faraone il vicerè – Diverso è il caso dei nomi blindati dal sottosegretario Faraone. Il vicerè di Matteo Renzi guida il listino per il Senato sulla sponda occidentale dell’isola. Alle sue spalle ci sono la deputata uscente, Teresa Piccione, vicina al leader di Areadem, Giuseppe Lupo, e Paolo Ruggirello, che è anche candidato all’uninominale di Marsala. Consigliere regionale di lungo corso, non rieletto alle ultime elezioni, Ruggirello è stato per anni luogotenente dell’ex governatore Lombardo, prima di finire tra i nuovi acquisti del Pd targato Faraone. Noto alle cronache era stato in passato suo padre, il ragionier Giuseppe Ruggirello, fondatore della Banca Industriale negli anni ’70, diventato ricco in modo tanto veloce da meritare addirittura un’interrogazione parlamentare che puntava a fare luce sull’origine del suo successo economico. Poi nel 1997 il nome di Ruggirello senior salterà fuori addirittura in un’inchiesta che coinvolgeva  Enrico Nicoletti, cassiere della banda della Magliana. Rosario Crocetta, invece, attacca il rettore dell’università di Messina, Pietro Navarra, candidato nel collegio peloritano alle spalle della capolista Boschi. “È il nipote del capomafia di Corleone, coinvolto anche nell’omicidio di Placido Rizzotto”, dice l’ex governatore. Dura la replica del rettore: “Premetto che la mia posizione su questo argomento – prosegue Navarra – è ben nota da tempo: si parla di persone morte prima della mia nascita e ogni collegamento non può che rappresentare una volgare strumentalizzazione. Non sono, però, disposto a tollerare ulteriori attacchi su tali temi. Con estrema chiarezza, pertanto, puntualizzo che presenterò querela contro chi rilascerà dichiarazioni di questo tipo e nei confronti delle testate che daranno spazio a simili considerazioni”. 
L’amica di Totò e mister Preferenza – A guidare il listino per Palazzo Madama sul versante orientale della Sicilia è invece Valeria Sudano, che nel novembre scorso non è riuscita a tornare all’Assemblea regionale siciliana, dove era entrata per la prima volta nel 2012 con il Cantiere Popolare dell’ex ministro Saverio Romano. “I miei? Il grosso è nel Pd. Una lista che non finisce più, dai più noti al sottobosco. Li ho tirati su io, come la mia amica Valeria Sudano”, aveva detto alla vigilia del voto per il referendum costituzionale l’ex governatore Totò Cuffaro, fresco di scarcerazione dopo 5 anni trascorsi a Rebibbia. Il riferimento alla deputata di Catania non era casuale, dato che Valeria Sudano è nipote di Mimmo, potentissimo ex senatore della Dc di stretta osservanza cuffariana: ora è uno dei nomi di punta del partito di Renzi. Ha seguito la stessa parabola di Luca Sammartino , ex enfant prodige dell’Udc, poi diventato renziano di stretta osservanza: alle regionali di tre mesi fa ha battuto ogni record raccogliendo più di 32mila preferenze. Ora ha ottenuto il posto sicuro per Sudano, ma si è dovuto candidare anche in prima persona all’uninominale di Misterbianco per la Camera: un seggio praticamente impossibile ma in cui è chiamato nuovamente a “pesare” la sua potenza elettorale. 
Cardinale, amici e famiglia – Più o meno la stessa cosa che dovrà fare ad Acireale Nicola D’Agostino, ex capogruppo del Mpa di Lombardo all’Ars dove è stato rieletto con Sicilia Futura, lista fai-da-te dell’ex ministro Cardinale. D’Agostino è uno dei consiglieri regionali del centrosinistra che hanno votato Gianfranco Micciché come nuovo presidente del Parlamento siciliano. Scelta che ha spaccato il Pd sull’isola senza che nessuno da Roma dicesse nulla. D’altra parte Cardinale è ormai il Richelieu dei dem in Sicilia: considerato il volto del ministro Luca Lotti, gestisce la sua lista personale – costituita da numerosi ex esponenti del centrodestra – come una corrente maggioritaria del Pd nei giorni pari, e come un partito autonomo in quelli dispari. A questo giro ha ottenuto di piazzare in lista due dei suoi fedelissimi trombati alle ultime regionali: all’uninominale c’è Salvo Lo Giudice, che cinque anni fa era stato addirittura eletto con la lista di Nello Musumeci, mentre alle spalle di Sudano trova posto Giuseppe Picciolo, condannato in primo grado a due anni e sei mesi per calunnia (sentenza che sta per essere prescritta). In questo risiko di potere e poltrone poteva Cardinale pensare solo agli amici dimenticando al famiglia? Nossignore. Nonostante le polemiche, dunque, viene riconfermata come capolista alla Camera nel collegio di Gela la figlia Daniela, titolare di uno scranno a Montecitorio dal 2008. Un’imposizione che ha provocato il passo indietro di Giuseppe Provenzano, vicedirettore dello Svimez originariamente inserito alle spalle di Cardinale. 
Renziani rampanti dietro Gentiloni- Ottiene la posizione numero due nel listino di Catania, invece, Francesca Raciti, presidente del consiglio comunale etneo. La sua candidatura potrebbe valere ad un seggio sicuro a Montecitorio: il capolista, infatti, è Paolo Gentiloni, candidato anche in altri collegi. Considerato uno dei volti principali del renzismo siciliano, nell’ottobre del 2016 Raciti era stata costretta a replicare alle parole usate dall’allora prefetta di Catania, Maria Guia Federico, davanti ai componenti della commissione parlamentare Antimafia. La prefetta, infatti, aveva tirato in ballo il padre di Francesca, Carmelo Raciti. “Indicato da un collaboratore di giustizia nell’ambito dell’inchiesta Iblis quale personaggio di riferimento per alcune attività lecite dei Santapaola-Ercolano. Viene indicato come imprenditore strettamente correlato a Maurizio Zuccaro, ma la cosa non ha avuto seguito”, aveva detto Federico davanti ai commissari di Palazzo San Macuto, come ricorda meridionews.it. “Mio padre – aveva detto Raciti -non ha mai ricevuto dalla magistratura nessuna comunicazione che lo riguardi, né risulta essere mai stato indagato in qualsivoglia altro procedimento per reati associativi di alcuna natura”. In effetti, come ricorda sempre il quotidiano online catanese, nelle circa 80mila pagine dell’inchiesta Iblis non è stato possibile trovare il nome del padre della consigliera comunale. 
Il figlio del sindaco di destra nella terra di Pirandello – Molto più chiara, invece, è la storia giudiziaria di Calogero Sodano, ex sindaco di Agrigento e senatore del centrodestra. Per guidare l’uninominale della Camera nella città dei Templi, infatti, il Pd ha deciso di puntare su Giuseppe Sodano, giovane avvocato e figlio dell’ex primo cittadino eletto da Forza Italia. Una candidatura voluta dal Civica popolare, la lista di Beatrice Lorenzin alla quale i dem hanno ceduto il collegio agrigentino, ma che scatenato il caos nel partito. “Siamo preoccupati per le simpatie di Sodano per la destra di Nello Musumeci e la sua militanza in Generazione Futuro di Gianfranco Fini“, dicono dal Pd di Agrigento, ricordando come la famiglia Sodano abbia sostenuto il centrodestra fino alle ultime regionali. Nessuna parola, invece, sui trascorsi giudiziari di Sodano senior. Processato e assolto per concorso esterno, Sodano è stato condannato in via definitiva a un anno e sei mesi per abuso d’ufficio. Era accusato di non aver contrastato l’abusivismo edilizio quand’era sindaco. Una sentenza che ha indirittamente provocato un’altra condanna per l’ex primo cittadino: quella nove mesi per falso ideologico in atto pubblico. Nel 2006, infatti, Sodano si candidò alle regionali producendo un certificato penale che non faceva alcun cenno a quella condanna per abuso d’ufficio. Il motivo? Quella pena  era stata addebitata a un suo cugino omonimo. Uno scambio di persona che potrebbe apparire curioso ovunque ma non certo nella terra di Pirandello. Dove il Pd sembra essere stato colpito dalla sindrome di Vintangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila, animato dal senso della disgregazione dell’io. Molto più banalmente a queste latitudini sembra di osservare la disgregazione di un partito.

Giuseppe Pipitone (Il Fatto Quotidiano - 29 gennaio 2018)


venerdì 26 gennaio 2018

Processo Trattativa, procura chiede 12 anni per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e 6 per Mancino




Ottantotto anni di carcere in totale per gli uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni: quella tra Cosa nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura di Palermo alla fine della requisitoria del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e la mafia. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento, a 1914 giorni dalla prima udienza preliminare e a dieci anni esatti dall’apertura dell’inchiesta, l’accusa ha dunque tirato le somme. I pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene hanno impiegato otto delle 210 udienze celebrate fino ad oggi per esporre la requisitoria. Un racconto lungo e complesso che comincia alla fine degli anni ’80, attraversa il biennio stragista che ha destabilizzato il Paese e riscrive nei fatti la storia della nascita della Seconda Repubblica.
Le richieste di pena – Alla corte d’Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto i pm hanno chiesto di condannare a 16 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo politico. Ed è sempre il padrino corleonese che a poi dirotta il sostegno di Cosa nostra sulla neonata Forza Italia.  Non doversi procedere invece per intervenuta prescrizione per Giovanni Brusca, il collaboratore di giustizia che partecipò ai vari summit in cui si organizzò l’assalto di Cosa nostra alla Stato e che è stato condannato – tra le altre cose – per essere stato l’esecutore principale della strage di Capaci.
Il prequel e i carabinieri – Antonino Cinà, medico fedelissimo di Riina, accusato di aver consegnato a Massimo Ciancimino il papello, cioè la lista con le richieste avanzate dalla mafia per far cessare le stragi. Ciancimino junior avrebbe consegnato quel foglio al padre, don Vito, l’uomo agganciato dai carabinieri nel giugno del 1992 – dopo l’omicidio di Giovanni Falcone – con l’obiettivo di avere un’interlocuzione con la Cupola e far cessare le stragi. Per questo motivo sono imputati per tre ex ufficiali dell’Arma: Antonio Subranni, ex capo del Ros, per il quale l’accusa ha chiesto 12 anni, il suo vice del tempo Mario Mori, su cui pende una richiesta di condanna pari a 15 anni, e l’ex colonnello, anche lui in servizio al Raggruppamento speciale, Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare a 10 anni. Per Cinà la richiesta è di 12 anni.
Il ruolo di Dell’Utri – La procura ha poi chiesto di considerare colpevole anche Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia che sconta una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: per lui sono stati chiesti altri 12 anni di carcere. Braccio destro di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, è Dell’Utri – secondo l’accusa – l’uomo che chiude il patto con i boss ottenendo sostengo per il suo neonato partito politico. “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del consiglio”, hanno sostenuto i magistrati alla fine della requisitoria. E ancora: “La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”. Sono tutti imputati di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Per la procura di Palermo “risulta provato che l’incontro tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi incontri – dice Del Bene in aula con i colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo – sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. In quel momento storico e politico è il linguaggio della violenza quello prediletto dai mafiosi che sulla cultura della violenza hanno costruito un sistema di potere, la loro carriera personale. È solo con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa nostra e, in particolare uomini sanguinari come Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, pensano di potere realizzare i loro obiettivi con l’uso della violenza. E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra“.
Mancino e il Romanzo Quirinale – Accusato di falsa testimonianza è, invece, Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno. Davanti ai giudici che celebravano il processo per favoreggiamento a Cosa nostra in cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa trattativa. Finito coinvolto nell’inchiesta Mancino diventa poi il protagonista del Romanzo Quirinale. Intercettando l’ex presidente del Senato i pm registrano anche Giorgio Napolitano: un evento che nel 2012 farà scontrare la procura di Palermo e il Quirinale, con il Colle che ottenne la distruzione di quelle telefonate. Per lui i pm hanno chiesto 6 anni di reclusione. 
Gli altri imputati – Cinque anni di carcere è poi la richiesta pena avanzata per Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, accusato di calunnia e concorso esterno (prescritto) e, allo stesso tempo, teste del processo. Ciancimino, che dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per riciclaggio, è detenuto. Sono tutti stati rinviati a giudizio il 7 marzo del 2013. In origine, però, gli imputati erano 12. L’ex ministro Calogero Mannino, invece, scelse il rito abbreviato: processato separatamente è stato assolto in primo grado. L’appello a suo carico è ancora in corso. La posizione del boss Bernardo Provenzano venne presto stralciata in quanto il capomafia, poi deceduto, venne dichiarato non in grado di partecipare consapevolmente all’udienza. A novembre ecco venir meno anche Riina, personaggio chiave nella ricostruzione della Procura del dialogo che pezzi dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi.
La mancata cattura di Provenzano – Il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano “non poteva essere catturato perché l’eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte, sparigliato gli accordi e comportato per i Carabinieri del Ros la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall’autorità giudiziaria e dall’opinione pubblica” ha detto il pm Nino Di Matteo. Una vicenda per la quale il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti in via definitiva. “Questo era il motivo per il quale non poteva essere arrestato Bernardo Provenzano – dice ancora Di Matteo – il motivo per cui Mario Mori e Antonio Subranni, ai vertici del Ros, non potevano e non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano. Non perché potenzialmente corrotti, o intimiditi, o pregiudizialmente collusi con la mafia, ma perché preoccupati di rispettare il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetuazione della segretezza” .
Un’inchiesta lunga 10 anni – L’udienza di oggi, tra l’altro, è l’ultima alla quale hanno partecipato i pm Di Matteo e Del Bene: promossi alla procura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 era Di Matteo il pm che ordinò le prime iscrizioni del registro degli indagati. “Siamo arrivati al termine della requisitoria, la presenza mia e del collega Francesco Del Bene cessa con l’udienza di oggi. Personalmente è stato per me un impegno, tra le Procure di Caltanissetta e di Palermo durato 25 anni. Ho seguito questo processo fin dall’inizio, dalle indagini preliminari. Un processo che è destinato a portarsi dietro una scia infinita di veleni e di polemiche” ha detto Di Matteo concludendo la sua requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. I due magistrati non potranno nemmeno più seguire le udienze dedicate alla discussione della difesa. “Man mano che siamo andati avanti ho avuto contezza del costo che avrei pagato per questo processo – dice ancora – e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l’azione di noi pm è stata caratterizzata persino da finalità eversive, e nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difeso di fronte ad accuse cosi gravi, ma noi lo abbiamo messo in conto. Così avviene in questi casi, in cui l’accertamento giudiziario non si limita agli aspetti criminali ma si rivolge a profili più alti e causali più complesse”. “Siamo veramente onorati di avere avuto l’occasione di confrontarci con la serenità e l’autorevolezza della corte d’Assise – prosegue Di Matteo – abbiamo l’ulteriore certezza che ci fa vivere con coraggio che nessuno ci potrà togliere: quella di avere agito per cercare la verità”. Se questa verità costituisce o meno un reato, toccherà ai giudici deciderlo.



Il vero pericolo di ribeccarci il delinquente

Parlando alla kermesse del Movimento animalista, Silvio Berlusconi ha definito “criminale” la sentenza di condanna che gli impedisce di fare il premier. “Criminale” non è la sentenza, ma questa affermazione. Nessun cittadino di uno Stato può esprimersi in questi termini nei confronti di una sentenza definitiva della Magistratura di questo stesso Stato. Perché vuol dire che non crede alla legittimità della Magistratura, delle leggi, votate o confermate dal Parlamento, sulle quali è chiamata a prendere le sue decisioni, delle Istituzioni e dello stesso Stato che le ricomprende. Un soggetto del genere è, concettualmente, un terrorista e dovrebbe, come coerentemente fecero al loro tempo i brigatisti, darsi alla clandestinità. Invece Silvio Berlusconi pretende di fare il Presidente del Consiglio di uno Stato a cui non crede, che non rispetta, che considera “criminale”.
Sempre in quell’occasione Berlusconi ha affermato che i Cinque Stelle “non hanno valori né princìpi”. Per la verità almeno un valore, espresso in un modo anche troppo ossessivo, nelle parole e nei fatti, i Cinque Stelle ce l’hanno, ed è quello della “legalità”. Capiamo perfettamente perché, in questo senso, un tale valore sia particolarmente ostico per Berlusconi. Vorremmo anche sapere a quali valori si ispira un uomo che è stato dichiarato “delinquente naturale” da un Tribunale della Repubblica italiana, che ha usufruito di nove prescrizioni per i più diversi reati (e in almeno tre casi la Cassazione, quest’organo “criminale”, ha accertato che Berlusconi quei reati li aveva effettivamente commessi, anche se, per il tempo intercorso, non erano più perseguibili), che ha tre processi in corso. Io richiamo spesso, probabilmente con una certa sorpresa di qualche lettore, la figura di Renato Vallanzasca. Perché Vallanzasca non ha mai contestato il diritto dello Stato a punirlo per i suoi crimini, a differenza di Berlusconi e dei terroristi. Vallanzasca ha un’etica, sia pur malavitosa. Berlusconi è solo un malavitoso.

Vorremmo anche sapere che valori umani ha un personaggio che, approfittando delle condizioni di inferiorità della sua vittima, ha truffato una minorenne orfana, in circostanze drammatiche, di entrambi i genitori, come ha accertato la Corte di Appello di Roma che ha assolto Giovanni Ruggeri (Gli affari del Presidente-Avvoltoi sulla preda, Kaos Edizioni), L’Espresso e me che quella truffa avevamo pubblicamente denunciato (sentenza del 2.5.08). E che, in un’occasione più recente, mostrando un altrettale cinismo, ha gettato una minorenne nelle braccia di una puttana.
Berlusconi ha anche definito i Cinque Stelle “una setta”. E’ comico che un partito che prende più di otto milioni di voti sia definito “una setta” da un altro che, se va bene, ne prende la metà.
Purtroppo non c’è niente da ridere. A chi agisce con metodi criminali bisognerebbe rispondere con modi altrettanto e, se possibile, più criminali (“A brigante, brigante e mezzo” diceva Sandro Pertini, come richiamai, ormai tanti anni fa, al Palavobis). Svegliatevi ragazzi italiani, perché se costui riprende, in un modo o nell’altro, il Potere, vi troverete a vivere invece che in uno Stato sicuramente con gravi difetti ma ancora legale, in uno Stato criminale e, per sopravviverci, a farvi, a vostra volta, criminali.



mercoledì 24 gennaio 2018

Scrivere e leggere in fotografia




La Treccani definisce la scrittura come una “rappresentazione visiva, mediante segni grafici convenzionali, delle espressioni linguistiche” e cataloga i vari sistemi in relazione ai tempi ed alla tecnica utilizzata.
In ogni caso lo scrivere fissa sempre il frutto di nostre elaborazioni cerebrali, di pensieri e concettualizzazioni che rendiamo stabili redigendo frasi, appunti ed in genere scritti più o meno complessi.
Con il tempo la razza umana ha elaborato il proprio mondo tramandandosi esperienze e tecniche attraverso  linguaggi e forme d’arte convenzionali che hanno accomunato i diversi gruppi/comunità.
Civiltà si sono sempre più affinate e, attraverso evoluzioni ed involuzioni, i popoli hanno cristallizzato la cultura, tramandandola fra generazioni, attraverso metodologie comuni incentrate nella scrittura.
Anche la fotografia, come ogni altra forma d’arte, può tranquillamente annoverarsi fra le forme di scrittura: del resto noi tutti diciamo comunemente che una foto è il frutto di una lettura e fissazione di luce effettuata attraverso apparecchiature.
Quindi, in qualche modo, anche nel panorama fotografico abbiamo tante tecniche e forme espressive che, oltre a rispondere ai connotati classici riconosciuti e riconoscibili attraverso variabili logiche e sintassi specifiche, consentono di cogliere e comunicare realtà visive e sensazioni.
L’efficacia di una scrittura, sia essa vocale, letterale, artistica e quant’altro può essere più o meno comprensibile, durevole e riconosciuta opera d’arte in relazione ai tanti elementi che la compongono. La relatività, del resto, è l’essenza di ogni manifestazione umana.
Scuole di pensiero e tendenze aiutano a porre intanto delle pietre miliari che convenzioni riconoscono; valori accomunati consentono, quindi, interscambi fra gli esseri viventi, nel tempo e nello spazio.
Tutto si ricollega alle nostre conoscenze, alla capacità di comprensione ed elaborativa del nostro cervello e tutto quello che riguarda la tecnica costituisce un mezzo espressivo che, sapientemente usata, ne facilita gli scopi.
Questo prolisso panegirico, che tende a risultare noioso, in verità vorrebbe sostanzialmente accreditare le tante metafore che spesso usiamo anche in fotografia, per leggere e raccontare ciò che la nostra mente vede, secondo la nostra cultura e la capacità espressiva insita in ciascuno di noi, al dna personale che ci contraddistingue.
Nel ruolo che ricopriamo di direttivi, operatori o semplici utenti, ci muoviamo però tutti in contesti convenzionali, seguendo regole precostituite e riconosciute di norma da maggioranze in vario modo precostituite.
Da tutto questo deriverebbe che il bello assoluto non esiste, come la verità nella vita; perché riusciamo a vedere attraverso i nostri occhi che sono strutturati secondo madre natura e collegati ad un elaboratore corredato da una ram individualmente variabile ed un processore condizionato dalla cultura che deriva dallo studio di tante scuole di pensiero.
Giudici e giudizi ne sono pertanto una conseguenza e il frutto. Così come “prime donne” e “millantatori” costituiranno sempre i corollari che accompagnano i “fessi”.
Che dire ancora se non buona luce a tutti.

© Essec