venerdì 9 febbraio 2018

"Il terremoto nel Belice raccontato su L’Ora" di Nino Giaramidaro




I falò si vedevano uscendo dall’ultima curva della Castelvetrano-Santa Ninfa. Lassù, sulla collinetta delle case Genco. Vecchi col fasciacollo sulle orecchie, sotto la coppola, bambini imprigionati nei plaid a quadri, nelle coperte e in qualsiasi altra lana. Uomini e donne con pacchi e “trusce” tutt’intorno alla fiamma. Fuochi sempre più pallidi. Ed era appena domenica sera.
Al bivio di Salemi della 119 c’era gente per strada. Passando sotto Santa Ninfa, verso Gibellina, bisognava rallentare: letti addossati ai muri a secco, sotto i fichidindia, masserizie sin sulla carreggiata, gente che andava a zonzo col peso delle cose che aveva tolto da casa e dello spavento.
Ogni tanto fermavo la 500 grigio topo, scribacchiavo qualcosa, tentavo qualche foto alla luce dei fari dell’auto. Ero partito nel tardissimo pomeriggio da Mazara, dopo aver saputo che il comizio del deputato regionale del Pci, Salvatore Giubilato, a Santa Ninfa era stato annullato a causa di una scossa di terremoto.
Ore 11 abbondanti, il via vai si calmava. I bambini si erano assopiti nell’addiaccio degli sgoccioli del 14 gennaio. Bisognava non far spegnere i fuochi. Temporeggiavo fra le curve dello stradone, poi me ne tornai alle case Genco.
Alle tre di notte, guidavo sotto Salemi. D’improvviso la macchina sbandò. A lungo. Ero solo sulla  statale. Riuscii a non uscire di strada. E arrivai a Palermo.
Al giornale L’Ora c’erano Sergio Buonadonna e la famiglia De Mauro. Non si trovava nessuno. Nemmeno i fotografi. Poi arrivò trafelato il direttore Vittorio Nisticò. Consegnai il rullino e, di fretta, salii su un taxi coraggioso, con Mauro De Mauro sdraiato sul sedile posteriore.
Tra buio e chiarore di una giornata che si annunciava brutta, De Mauro bisticciava con un capitano dei carabinieri che non voleva farci avvicinare al bordo strada, panoramico su Gibellina. Vinse lui, l’abile giornalista. E sarebbe stato meglio che avesse perso. Rovine a perdita d’occhio, non un tetto all’impiedi, militari in divisa e in borghese che scendevano verso il margine della distruzione. Sbattevi gli occhi per cancellare quell’orribile miraggio, ma rimaneva lì. Col suo silenzio scalfito dal rotolare di qualche tufo che aveva perso l’ultimo equilibrio. Un poliziotto-fotografo mi diede un rullino Ferrania, e scattai le foto. De Mauro guardava, si girava, dava una tirata alla sigaretta e tornava a guardare, io ero preoccupato perché vedevo che non prendeva appunti. Bisognava che ricordassi tutto a memoria, pietra per pietra.
Un ritorno silenzioso e circospetto, sulla strada inzaccherata con oasi di gente morta di freddo e sgomenta ai margini delle curve in quel residuo di alba, brumosa e carica di amari presagi, ogni tanto qualche coperta sorretta da canne fingeva un riparo. La 1100 D zoppicava fra pozze d’acqua, rughe d’asfalto e squarci profondi. A Borgetto erano le dieci passate. A destra dello stradone De Mauro vide l’insegna di un bar. Era aperto. Ci rifugiammo dentro per un caffè. De Mauro prese un whisky lungo e si avvicinò al telefono. Chiamò il giornale e cominciò a dettare, con le virgole, i punti, gli accapo, senza fermarsi a riprendere fiato.
Giungemmo in piazzetta Napoli intorno alle undici, e scendemmo nella tipografia: c’era il signor Manfrè, l’abilissimo proto, con il bozzone bagnato della prima pagina andava di corsa dal direttore; la rotativa girava di già per guadagnare un’oretta sulla stampa del giornale. Non scrissi una sola riga di tutte quelle che mi arruffavano la testa, corrette, concatenate con un bell’incipit e un nobile finale.
I cavalli e le mule correvano nei pantani di Montevago fra mute di randagi, e si imbizzarrivano davanti ai camion carichi di sterro, mobilio sconquassato, ferraglia. Gli autisti col fazzoletto sulla bocca, come nei film di Tom Mix e di Randolph Scott, per difendersi dai temuti contagi in quell’aria oramai fetida di roba andata a male, carogne di cani, asini, galline, topi. E di morti senza tomba. I volontari dai capelli lunghi, soldati, vigili del fuoco, parenti scavavano. Anche con le mani.  Dovevano trovare circa trecento vittime. Dovevano salvare Cudduredda dalle macerie mentre la televisione riprendeva e scattavano i flash dei fotografi. Troppo tempo perso. La bambina morì in braccio a un vigile del fuoco che piangeva.
C’è sempre lentezza nei soccorsi, c’è sempre un margine di vita e di morte fra le mani familiari sanguinanti e l’arrivo di tecnici sapienti ed estranei. Quello che accadeva in quei 14 ex paesi con i tetti di canne e gesso è difficile dirlo a parole. Bisogna immaginarlo, immaginare anche che vi erano sciacalli in mezzo a quelle povere pietre. Immaginare con che cuore i protagonisti della campagna elettorale del maggio futuro andassero a promettere mentre la gente salvava dalle ruspe in arrivo un cuscino, il bacile, un capezzale di carta, le scarpe screpolate del bambino.
Tutta L’Ora in uno stanzone rettangolare con scrivanie di ferro, verdi e sormontate dalle Diaspron quasi nuove, intorno alle pareti. A nord la cronaca, ad est la piccola postazione delle pagine regionali con Gianni Lo Monaco e il suo cane, a sud la grande scrivania di Aldo Costa, capo redattore e grande sforbiciatore di foto, ad ovest Kris Mancuso e i suoi incalzanti Interni ed Esteri, con il “biondino” Camillo Pantaleone sovrastato dai rotoli delle telescriventi. Nei primi del ’70 Aldo Costa mi chiamò all’hotel Capri, albergaccio di via Maqueda. Al giornale sedevo ai margini di una scrivania di cronaca o del regionale, a seconda del bisogno. Scrivevo a mano in attesa che si liberasse una Olivetti. Mi chiedevano “ma tu chi sei?” e io dicevo nome cognome e paese d’origine. Eravamo così pochi che non avevamo diritto alla settimana corta, e ci fu una gran festa quando Giuseppe Sottile diventò professionista: aveva fatto conquistare il giorno di riposo settimanale.
Un gruppetto di amici, uniti più dall’affetto e dalle convinzioni politiche che non dal mestiere. Ognuno diverso dall’altro, divisi soltanto dall’anagrafe e, di conseguenza, dalla scrittura: dal “tant’è” dei corsivi di Mario Farinella alle concitate cronache di Mario Genco, alle colte traduzioni dal gergo dei quartieri di Salvo Licata. Il plotoncino di ultimi arrivati – come me – venivano detti “biondini” da un copyright di Roberto Ciuni, cronista di seconda generazione poi passato al Giornale di Sicilia in uno dei primi esodi.
Italia-Germania 4-3, è quasi sera, la piazza Politeama è gremita di tifosi escandescenti, scatto alcune foto con una Fed, telemetro russa primordiale. L’indomani Nicola Scafidi mi portò le piccole stampe al giornale: si formò un gruppetto a guardarle, ritraevano una novità socio-sportiva. Passò Aldo Costa e volle vederle pure lui. Ne prese una e andò a sedersi alla sua scrivania. Vidi balenare le lunghe forbici. La foto apparve su cinque colonne in prima pagina a corredo di un articolo sulla festa azzurra al Politeama, durata tutta la notte.
Pioveva sulle tendopoli. E il freddo era da proverbio. Sul terriccio c’erano sporche tracce di neve. Sotto i teli si tossiva, e su ogni tenda c’era appollaiata la paura della meningite, del colera, delle polmoniti e delle altre malattie che accorrono sui luoghi dei disastri, come iene invisibili.
Le medicine, i vaccini, l’acqua, i viveri si impantanavano con i camion nelle fanghiglie. Ogni mezzo che arrivava a tiro, veniva assediato da denutriti, gente squassata dal catarro, volti provati pure nelle rughe della campagna. Si distribuiva pane, coperte, vitto militare. Roba che non bastava per i settantamila, forse novantamila, con le scarpe nel fango e sulla testa il sottile telo grigioverde delle tende. Qualche centinaio era ricoverato nei vagoni dei binari morti. Nei paesi rimasti in piedi, gli sfollati stipavano le scuole.
L’esercito passava il rancio delle sue cucine da campo, c’erano tende ospedale di lingua straniera, tende chiesa, tende scuola, tende barbiere. Distesa di tende congelate dalla pioggia e dalla gara fra  maestrale e tramontana. Impressionante, mai viste prima così tante.
Il giro dei pronto soccorso – Bandita, piazza Marmi, Villa Sofia, Politeama, Civico e diversi altri – mattino pomeriggio e sera, si ascoltava la radio della polizia, come un sottofondo che accompagnava le giornate in redazione. E si andava sempre di corsa a vedere cosa fosse accaduto. Il morto ammazzato dalla gelosia, l’omicidio di mafia, spesso plurimo, coltellate attorno a un bicchiere di vino, occupazione di case allo Zen, grande sciopero dei Cantieri Navali. Mezza redazione sul posto, anche coloro che non dovevano scrivere, pure Walter Buzzoli, capocronista prestato da Paese Sera, nemico degli attacchi e dei “pistolotti finali”; e i fotografi, Nicola e Franco Scafidi, Gigi Petix, Letizia Battaglia e Santi Caleca.
La vita di redazione si svolgeva più sulle strade che nello stanzone, dove c’era Etrio Fidora, giorno e notte, sempre con qualche gatta da pelare, amante della scrittura esplicativa, dettagliata più che delle frasi brevissime che evocavano immagini. L’asburgico, non solo perché era nato a Trieste. Baffetti alla Errol Flynn, alla ussara secondo noi, sorridente e ironico malgrado le decine di querele che lo assediavano in qualità di direttore responsabile. Tutte per diffamazione, responsabilità oggettiva delle dolorose verità che i giornalisti avevano descritto.
Ogni tanto qualcuno si assentava per settimane – Marcello Cimino, Salvo Licata, Dante Angelini, Giuliana Saladino alias Giulia Sala, Mario Genco, Orazio Barrese. – Scrivevano inchieste dedicate ai fascisti, alla mafia, alla Democrazia cristiana, agli ospedali, al Comune. Tutta roba che procacciava le querele a Fidora. E qualche bomba fascista, come quella del ’72 che rovinò un pezzo di redazione.
Scrivo a memoria, spezzoni di ricordi di amici e di un lavoro fatto non solo per vivere. Amici quasi tutti scomparsi, andati lasciando ferite di nostalgia che ogni tanto indolenzisce i Martini dry di uno sparuto gruppetto di superstiti, ognuno con i propri aneddoti di un passato che, a raccontarlo, appare surreale, inventato, onirico.
Le parole, le risate, le ire, le affettuosità, i rumori rimbalzavano tra i fogli di faesite, e si propagavano come un’onda impudica per tre quattro cinque baracche. A Rampinzeri, nel “villaggio” della Madonna delle Grazie e in tutti gli altri con i nomi oramai rifugiati nella memoria labile, che appare e disappare. A distesa nei terreni dove il “grado Babo” era stato schiaffeggiato da quello Mercalli. Montevago impressionante. Salaparuta, Poggioreale, Santa Margherita, sino a Salemi e Castelvetrano. Baraccopoli e case-hangar di lamiera col freddo e il caldo sbagliati, sole e pioggia che lavoravano all’infiacchimento. Dieci anni, venti anni. Gente che è morta chiedendo ancora quattro mura, ragazzini cresciuti senza immaginare che cos’è una casa.
Nel ’73, baracca numero 12. Un lettino, tre coperte, la portatile Olympia, la macchina fotografica Topcon. Il “Diario dalla baracca”, lunghi reportage che raccontavano quella vita dalla dignità trattenuta con le unghie. La baracca “ferramenta”, il bar baracca, le baracche scuole con le stufette elettriche dalla gittata di trenta centimetri, la baracca parrocchia di don Antonio Riboldi, e quella municipio di Vito Bellafiore. E Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Ludovico Corrao schierati contro i “sopralluoghi conoscitivi” di coloro i quali volevano ancora qualcosa da quella gente che non aveva più nulla.
Le proteste per l’acqua, i biglietti gratis a chi voleva emigrare, i viaggi a Roma con i vagoni alla stazione di Palermo pieni di coppole e scialli, e bambini che issavano cartelli più grandi di loro.
Era un mercoledì senza nessuna importanza quel 16 settembre del ’70, il cielo stentava a rabbuiarsi. D’improvviso qualcosa cominciò a mescolarsi al fumo delle sigarette. Abbassammo la radio clandestina, tutti i giovani rimasti in redazione con le orecchie tese per carpire qualche segnale dalla stanza di Nisticò nella quale, trafelati, si infilavano gli anziani del Giornale. Qualcosa che riguardava De Mauro, il quale non doveva essere molto contento del suo trasferimento a capo della redazione sportiva. Nella tardissima sera si capì che era qualcosa di più grave dello scontento: Mauro era stato prelevato sotto casa da alcuni sconosciuti.
Ognuno aveva elaborato una sua teoria sulla scomparsa, ma tutti credevamo che sarebbe tornato con una grande storia da raccontare, da scrivere su tutte le nove colonne della prima pagina. Ma i giorni si avvicendavano in un’attesa aggrappata alla speranza. Cominciarono ad arrivare gli inviati, ricordo l’addolorato Guido Nozzoli, inviato estero de Il Giorno, ex partigiano, uomo sbrigativo, abituato al rischio. Roberto Baudo, redattore della Giudiziaria, Mario Genco, il giovane Nino Sofia e altri con i nomi dispersi, facevano lunghe relazioni quotidiane a Nisticò sui progressi delle indagini, sulla biforcazione fra Carabinieri e Polizia.
Nel gennaio successivo fui inviato a Catania. Il giornale apriva redazioni nella città etnea e a Messina, dove fu mandato Giovanni Rizzuto. Un incarico difficile, modi di fare giornalismo diversi fra me e i collaboratori catanesi, fra i quali Agostino Sangiorgio, Ada Mollica, Placido Ventura, Guglielmo Troina. Non andavano sui luoghi dei fattacci. Telefonavano in Questura. Scrivevano “sulla parola”, senza sapere altro. Andavo io a vedere cos’era accaduto.
Ma arrivarono anche Felice Chilanti, afono per un’operazione alla trachea, con la moglie che traduceva i soffi del grande giornalista, Salvatore Costanza, che scriveva mirabili corsivi, Orazio Barrese, con la sua Alfa Romeo col “trucco” per non farsela rubare. Un anno sulla corda, a scrivere quello che gli altri giornali trascuravano: l’autostrada che non progrediva, i giovani e la droga, il lavoro senza protezione (quattro morti folgorati in un cantiere), un nugolo di morti ammazzati e la politica con i neofascisti che non disdegnavano di fare telefonate minacciose in redazione, la mafia a Catania.
Alla fine di novembre me ne tornai a Palermo da Giornalista Praticante (la lettera di assunzione mi era arrivata in luglio), sostituito da Antonio Calabrò. Alle pagine regionali con Salvo Licata. Venivo inviato dovunque non andasse l’inviato vero: nel Belice terremotato, a Licata per l’alluvione, fra i pescatori di Mazara che raccontavano le loro avventure, a cercare un sindaco di Acquaviva Platani, a constatare le orme degli ufo “atterrati” in una campagna del nord-est Trapanese dove trovai le transenne piantonate dai vigili urbani. Ma il cielo sulla piazzetta Napoli era ormai blu scuro.
Venne Cervetti, Gianni Cervetti della commissione per i bilanci del Pci. Il succo del suo discorso all’assemblea de L’Ora era che il partito non aveva più bisogno di giornali “collaterali” ma di giornalisti dentro grandi e piccole testate. Reagirono male ma inutilmente Giuliana Saladino e Mario Genco. Finiti i soldi, forse anche quelli sovietici. Scomparso l’editore Amerigo Terenzi che quando giungeva in redazione creava folate da spostamento d’aria al suo passaggio, e anche l’indomito Vittorio Nisticò era agitato da qualcosa che somigliava al timore. L’avventura de L’Ora entrava in un’altra dimensione già indirizzata verso la fine. Quel gruppetto di giornalisti fu imprigionato nella diaspora che sempre colpisce quando l’intelligenza non serve più.
Scandalo del Belice, malgoverno, spreco, intrallazzi e mafia. Parole, entità e categorie che si addicono alla lunga vicenda dei terremotati della Valle del Belice. Anche calcolato disinteresse. Nei primi giorni dopo la tragedia, un inviato chic con gessato e scarpe inglesi, in un albergo di Mazara del Vallo, chiedeva agli inviati infangati che cosa fosse successo. Poca cosa, fu la sua sintesi, qualche morto e casupole cadute: nessun danno serio all’economia.
«Un morto è una tragedia, un milione di morti una statistica», disse Iosif  Vissarionovich  Dzhugashvili, cioè Stalin. Le trecento o quattrocento vittime sotto le macerie e i 90 mila senza tetto (numeri incerti) sembra siano stati considerati come una pre-statistica, un elenco senza urgenza.
Alla fine degli anni ’70, incominciarono ad essere abitate le “new town”, innalzate su piani urbanistici definiti danesi, con circonlocuzioni architettoniche senza alcuna parentela con le “gost town” che le erbe di vento tentano di coprire. Con una verde, autoctona e ramificata trama di oblìo.


 

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