Non chiedetemi come hanno fatto, certo è che ci sono riusciti. L’idea
dei ricercatori di Boston era assolutamente lungimirante e l’obiettivo
davvero ambizioso: capire cos’è che ci consente di vivere bene e a
lungo. Così gli studiosi dell’Università di Harvard hanno preso nota di
tutto quello che succedeva ai quasi 300 studenti ammessi al College
tra il 1938 e il 1944: stato di salute — fisica e mentale — lavoro,
famiglia, amici e tanto d’altro (lo studio va avanti da 80 anni e non si
fermerà, pare, tanto presto).
E cosa hanno scoperto? Quello che avevano già capito i Beatles: «Love,
love, love», insomma, è l’amore a farti vivere bene. Non solo ma
l’educazione è più importante dei soldi e dello stato sociale, mentre la
solitudine uccide, proprio come l’alcol e il fumo. «Non basta essere
brillanti per invecchiare bene — ha scritto George Vaillant, uno di
coloro che si sono avvicendati a capo di questa avventura — devi essere
innamorato, o comunque avere relazioni affettive forti, in famiglia
(padre e madre naturalmente, ma anche fratelli, sorelle, zii, cugini e
tutti quelli che ci vengono in mente) e fuori, e poi tanti amici». «Ma
non dovevano essere i livelli di colesterolo e la pressione alta a far
male?» direte voi. Sì certo, ma l’uno e l’altra a detta degli studiosi
di Harvard contano meno della famiglia o dell’avere un legame affettivo
stabile per esempio. Insomma è come se a tutti i consigli, comunque
preziosissimi, di tanti bravi medici per invecchiare bene «non fumate,
bevete poco alcol, e poi frutta, verdura e pesce, e attività fisica» ne
mancasse uno che è forse il più importante: «Dedicate tempo ed energie
ai vostri rapporti con gli altri». Sul lavoro? Certo, ma anche fuori se
volete, non importa.
Imparare a farlo avvantaggia specialmente il cervello e gli scienziati
l’hanno documentato con test di performance intellettuale e con tanti
altri esami incluso l’elettroencefalogramma (che hanno ripetuto
periodicamente per 80 anni!). Anche i rapporti sociali dei più piccoli
sono importanti — con gli altri bambini o con gli adulti non importa,
l’importante è che ne abbiano — più fanno esperienze diverse e più
giocano, meglio è. Nessuno studio è perfetto e non lo è nemmeno lo
studio «Grant» non fosse altro perché quanto abbiamo scritto finora
potrebbe valere solo per i maschi in quanto al College a quei tempi ci
andavano solo gli uomini — tutti fra l’altro bianchi — gente altolocata
di solito (uno dei primi a prendere parte allo studio fu un certo John
Fitzgerald Kennedy, sì, proprio lui, il futuro Presidente degli Stati
Uniti e poi Ben Bradlee per moltissimi anni direttore del Washington Post).
E gli altri? Ci sono stati grandi imprenditori, avvocati di grido e
medici famosi, ma c’era anche gente normale e persino certi che poi
ebbero una vita miserevole: alcolizzati per esempio o drogati o
schizofrenici.
Col passare degli anni lo studio si è arricchito di molte altre persone,
anche donne e di un’attività parallela «Glueck» cui hanno preso parte
soprattutto ragazzi, questi però vivevano nei sobborghi di Boston e,
come potete immaginare, il confronto fra loro e quelli del College ha
fornito indicazioni preziose. Vi chiederete dove gli studiosi abbiano
trovato i fondi per fare tutto questo e per poter andare avanti per così
tanti anni. Dal governo federale in parte e poi dai National Institutes
of Health e dalle tasse dei cittadini; anche se adesso c’è chi comincia
a criticare questa scelta a cominciare dal presidente Trump: «Cosa
continuiamo a spendere soldi per questo studio quando dovremmo invece
preoccuparci di trovare nuove terapie per il cancro o per l’Alzheimer?».
Se lo chiedete a Robert Waldinger, che ha seguito «Grant» per più di 30
anni, vi dirà che proprio grazie ai dati che sono stati raccolti in
tutto questo tempo è stato possibile stabilire che chi è omosessuale non
ha scelto di esserlo per esempio o che l’alcolismo non è una colpa ma
una malattia e tante altre cose ancora.
Non solo ma se oggi siamo capaci di interpretare almeno un po’ certe
scelte di vita della gente dipende proprio dal fatto che qualcuno si è
preso la briga di seguire queste persone dalla giovinezza alla
vecchiaia. Il bello è che Waldinger non ha alcuna intenzione di
fermarsi, adesso sta studiando i figli degli studenti del College del
’38 e persino i figli dei figli: «È entusiasmante — dice — presto avremo
tantissime informazioni e sapremo rispondere a domande a cui nessuno ha
mai saputo rispondere fino ad ora». E chissà che un giorno questi dati
non possano persino portare un contributo allo sforzo che si sta facendo
un po’ dappertutto per prevenire certe malattie — cardiovascolari e
diabete per esempio — ma anche i disturbi del sistema nervoso, o per
rallentare l’invecchiamento. Se fosse così avremmo un mondo migliore e i
sistemi sanitari di tutto il mondo risparmierebbero tantissimi soldi.
Giuseppe Remuzzi (Corriere della Sera - 17 marzo 2018)
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