La
Giornata della Memoria, la Giornata del Ricordo, la Giornata della
Donna, la Giornata della Famiglia, la Giornata dell’Amicizia, la
Giornata dei Single, la Giornata dei Poveri, la Giornata del Malato, la
Giornata dei Disturbi alimentari, la Giornata del Sonno, la Festa della
Mamma, la Festa del Papà, la Festa dei Nonni, la Giornata dell’Orecchio.
Questi sono inesausti. Ma è mai possibile che non ci sia un solo giorno
dell’anno in cui si possa stare tranquilli, senza ricordare o
festeggiare qualcosa o qualcuno? Se non fosse una contraddizione in
termini, e ammesso che rimanga un qualche interstizio, istituirei una
‘Giornata del Nulla’ (in fondo anche Dio il settimo giorno si riposò) in
cui non pensare a nulla o magari riflettere su chi siamo o, come
singoli e società, dove stiamo andando.
Oggi, 20 marzo, ci tocca la Giornata internazionale della Felicità. Se c’è una celebrazione idiota è questa. Felicità
è una parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata. Sono
stati gli americani, col loro consueto e ottuso ottimismo, ad avere
l’ardire di inserire nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 “il
diritto alla ricerca della felicità”, che però è stato quasi
subito tradotto dall’edonismo straccione contemporaneo in un vero e
proprio ‘diritto alla felicità’. Diritti di questo genere non esistono.
“Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un
attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità. Non un suo
diritto” (Cyrano, se vi pare…). Come, forse, esiste l’amore
(che, a parer mio, è un disturbo psicosomatico che la Natura si è
intelligentemente inventato per favorire ciò che più le interessa:
l’accoppiamento fra due esseri di sesso diverso e quindi la
filiazione, ma lasciamo perdere questa tasto oggi particolarmente
dolente). Ma certamente non esiste un ‘diritto all’amore’. Sono
sentimenti e, come tali, non possono appartenere al giuridico. Del resto
nonostante generazioni di filosofi si siano estenuati nel cercare di
definire quale sia l’essenza della felicità o dell’amore o anche del
denaro non ne hanno cavato un ragno dal buco (l’accostamento al denaro
non paia azzardato perché si tratta in tutti e tre i casi di astrazioni,
anche se possono avere, e hanno, ricadute molto concrete).
Postulare
un ‘diritto alla felicità’ significa rendere l’uomo, per ciò stesso,
infelice. “Felice in tutto nessuno è mai” dice Orazio nelle Odi
(ma leggetevi, esimi colleghi, un po’ di classici, invece di ricavare
improbabili citazioni da internet fingendo di avere una cultura che non
possedete). E poiché quel che ci manca non ha limiti non si può essere
“felici mai”. Solo la Superintelligenza illuminista, dei Kant, degli
Hegel and company, poteva attingere a simili livelli di cretineria.
Naturalmente i think tank del World Happiness Report 2018 per valutare l’invalutabile, la felicità,
ricorrono a criteri quantitativi e sociologici. Davanti a tutti c’è
l’onnipresente Pil, seguito da speranza di vita, libertà, sostegno
sociale, assenza di corruzione. Al primo posto di queste classifiche ci
sono i Paesi nordici, Finlandia, Norvegia, Danimarca. Bisognerebbe che i
think tank del World Happiness Report ci
spiegassero come mai questi stessi Paesi, ben ordinati, regolati ‘dalla
culla alla tomba’, hanno il più alto tasso di suicidi, maggiore di Paesi
sgarrupati come il Venezuela, le Filippine, l’Honduras. Di questa
apparente aporia mi ero già accorto quando scrivevo La Ragione aveva Torto?
(1985) notando che in Italia i tassi di suicidio più alti appartenevano
alle regioni del Nord, benestanti e industrializzate. Dati confermati
da statistiche più recenti: Lombardia 5,0% di suicidi (per 100 mila
abitanti), Piemonte 5,3%, Veneto 6,5%, Emilia-Romagna 6,3%, Campania
2,4%, Puglia 2,9%, Calabria 4,5%. Se si vuole il dato più sconcertante è
quello dell’Emilia-Romagna che al tempo in cui scrivevo La Ragione, ottimamente governata dai comunisti, esprimeva il maggior benessere riscontrabile nel nostro Paese.
Naturalmente
il suicidio non è che la punta dell’iceberg di un malessere molto più
generale perché, per fortuna o purtroppo (dipende dai punti di vista,
l’elogio del suicidio lo faremo in altra occasione), solo una minima
parte di coloro che si sentono a disagio in una società si toglie la
vita. Che il benessere crei il malessere è confermato dai classici studi
di Durkheim (Il suicidio) il quale osserva che durante una
guerra crollano quasi a zero le depressioni, le nevrosi e quindi anche i
suicidi. Quando si lotta per la vita e per la morte non si ha il tempo
per sentirsi infelici. Si ha ben altro cui pensare (parlo naturalmente
delle guerre d’antan, non di quelle moderne, occidentali, in cui
predomina la tecnologia togliendo così alla guerra, oltre alla sua
epica, anche quei valori positivi, umani, che pur aveva).
Quando
ci si annoia in una vita cullata dal benessere è allora che si aprono
gli abissi degli enigmi esistenziali, irrisolvibili. E’ quindi il
disordine e non l’ordine a dare vitalità a quel personaggio complicato e
ambiguo che è l’essere umano.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2018)
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