Due mesi di fiera delle vanità o di
mercato delle illusioni. Colpisce la sottovalutazione dei rischi
connessi a un avvitarsi della crisi. La convinzione di vivere in
una bolla separata dal resto del mondo. In un tempo sospeso. Questo
passaggio inedito e drammatico della storia della Repubblica ci consente
di riflettere su un dettato apparentemente secondario della nostra
Costituzione. Secondo l’articolo 49 «tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale». Può sembrare un dettaglio con tutti
i problemi che abbiamo. Ma non lo è. Una norma, quella dell’articolo
49, che non andava cambiata, come quelle sottoposte a referendum il 4
dicembre del 2016, ma semplicemente applicata. Si è tentato di farlo,
per la verità, nella passata legislatura con il disegno di legge
Richetti, approvato alla Camera ma poi arenatosi al Senato. Accantonato
senza tanti dispiaceri, vittima di altre priorità. Il testo, che aveva
come primo firmatario l’esponente pd, era il risultato dell’assemblaggio
di varie proposte. Ottenne un largo consenso, astenuti Forza Italia e
Cinque Stelle. Non mancavano dubbi e incertezze. E soprattutto qualche
malcelata voglia di metterlo da parte per non avere troppi problemi di
gestione in campagna elettorale. La
proposta Richetti prevedeva una serie di disposizioni in fatto di
trasparenza nei finanziamenti, funzionamento degli organi interni,
selezione dei candidati. Insomma, la realizzazione, pur con tutte le
imperfezioni, di quel «metodo democratico» nella vita dei partiti di cui
parla la Costituzione.
La formulazione dell’articolo 49 fu il frutto in particolare della proposta alla Costituente di Lelio Basso, il
quale avrebbe voluto fare di più sul piano della personalità giuridica e
delle attribuzioni costituzionali dei partiti. Si trattava di garantire
un difficile equilibrio fra libertà d’associazione, rispetto delle idee
personali, diritti delle minoranze. Il timore di un occhio indiscreto o
di una invasione di poteri dello Stato, della magistratura per esempio,
produsse una formulazione spuria, reticente. L’opposizione comunista
risultò decisiva. E l’articolo 49 rimase sospeso, indefinito, come il
fondamentale concetto di «metodo democratico». Un destino analogo ha
riguardato l’articolo 39 che stabilisce la registrazione degli statuti
«a base democratica» dei sindacati. Nella lunga stagione della
partitocrazia e dell’occupazione delle istituzioni, il dettato
costituzionale apparve solo come il frutto illuminato ma appassito dei
costituenti. Un soprammobile. Ma non lo è affatto nell’era della leadership
personale o presunta tale, del rapporto diretto tra capo e popolo,
soprattutto nella sua dimensione impalpabile sulla Rete. «È assai
curioso che nell’epoca dell’iper regolazione – dice il costituzionalista
Alfonso Celotto, docente all’Università Roma Tre – il processo
attraverso il quale si formano le decisioni cruciali per un Paese sfugga
a qualsiasi regola procedurale precostituita. Come se il voto, da
rispettare, fosse una sostanziale delega in bianco personale al leader».
Oggi ci domandiamo, nel pieno di una crisi post elettorale, se una buona attuazione dell’articolo 49 non ci avrebbe aiutato.
Non solo nel garantire una maggiore trasparenza dei partiti ma anche
nello svelenire e incanalare gli animi nelle lotte di potere. Nel
rendere più consapevoli, di conseguenza, le scelte dei cittadini. Ma,
soprattutto, nel far maturare, nelle procedure interne ai partiti di
sicuro «metodo democratico», scelte più meditate, dibattute, non legate
soltanto alla personalità dei capi, quando non ai loro caratteri
personali. Ha scritto Sabino Cassese ne La democrazia e i suoi limiti (Mondadori)
che l’indebolimento dei corpi politici «produce anche un vuoto di
educazione civica e di selezione della classe dirigente». Oggi il primo
partito è di fatto controllato da una società a responsabilità limitata.
Impone ai suoi parlamentari un contratto (valido?) che fa a pugni con
la disposizione dell’articolo 67 della Costituzione contrario al vincolo
di mandato. Non si può dire che la piattaforma Rousseau sia
l’applicazione digitale di quel «metodo democratico» di cui parla la
Costituzione. E nemmeno che le vicende del Pd siano l’espressione di una
moderna governance della
politica. Con la finzione di un segretario dimissionario nella
precarietà dei suoi organi statutari. Relativamente oscure sono anche le
fasi di formazione delle decisioni nella galassia del centrodestra.
Berlusconi inventò il partito personale, oggi un po’ appesantito dagli
anni. Non è stata un’eccezione. Ha fatto scuola.
In questo quadro, i leader dei partiti –
soprattutto quelli che pensano di aver vinto il 4 marzo – sono chiamati
a fare scelte di straordinaria importanza per il Paese. In
assenza di procedure, regole, discussioni negli organi statutari, pesi e
contrappesi – quelli che ogni giorno presiedono alle scelte assai meno
importanti di società e istituzioni – ci affidiamo al buon senso dei
protagonisti, sperando che gli umori, i rancori e i calcoli di parte non
prevalgano su una serena valutazione del bene comune e dell’interesse
nazionale.
Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera, 6 maggio 2018)
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