Luigi
Di Maio ha riportato all’onor del mondo la secolare questione del
‘conflitto di interessi’. Berlusconi ha subito gridato all’”esproprio
proletario”. In realtà la questione del conflitto di interessi ne
sottintende un’altra che la precede e la innesca: per anni si è
tollerato che un unico imprenditore possedesse l’intero comparto
televisivo privato nazionale in contrapposizione alla Rai pubblica (o,
per meglio dire, partitica: negli anni Ottanta la Dc controllava la
prima Rete, i socialisti, ad esser più precisi, i craxiani, la seconda,
il Pci la terza). Una situazione sostanzialmente illegittima perché in
una democrazia liberale l’oligopolio impedisce quella libera concorrenza
che è il sacro mantra, almeno a parole, di questo sistema. Ci pensò
Bettino Craxi a mettere al riparo Berlusconi da una sentenza della
Suprema Corte che dichiarava l’incostituzionalità dell’intero sistema
televisivo, attraverso una legge, la legge Mammì, che consentiva a
Berlusconi di mantenere, con tre Reti (Canale 5, Italia Uno, Rete 4) la
sua posizione dominante. Craxi fu ricompensato da Berlusconi con un
finanziamento illecito di 21 miliardi di vecchie lire al Psi.
La
legge Mammì, perché la cosa non apparisse così sporca com’era, imponeva
a Berlusconi un solo obbligo: sbarazzarsi del suo quotidiano, Il Giornale.
E l’allora Cavaliere lo vendette a suo fratello, Paolo. Il che dice,
prima che saltassero fuori tutte le sue responsabilità penali, in qual
conto questo soggetto tenesse le regole e le leggi.
Il
problema del ‘conflitto di interessi’ si affaccia quando Berlusconi,
pur rimanendo tenutario di un oligopolio televisivo condiviso con la
Rai, diventa un uomo politico. La sua vittoria nelle elezioni del 1994 è
dovuta in buona parte al possesso in solitaria delle tv private, non
tanto al momento del confronto elettorale ma nei lunghi anni che l’hanno
preceduto durante i quali Berlusconi aveva potuto educare gli italiani
alla propria cultura o piuttosto subcultura. L’italiano nasceva naturaliter
berlusconiano. Era stato Umberto Bossi, in combinazione con le
inchieste giudiziarie di Mani Pulite, a scuotere l’albero della Prima
Repubblica, facendone cadere le mele più marce, ma fu Berlusconi, che
non aveva mosso un dito, a coglierne i frutti.
Furono
innalzate alcune cortine fumogene per mascherare il fatto inaudito per
una democrazia liberale che un premier potesse possedere, e in misura
così rilevante, organi di informazione determinanti (né Merkel, né
Macron, né Trump, solo per citare gli esempi più significativi, hanno tv
o giornali). Inoltre poté mettere le mani – ma questo lo avevano fatto
anche, prima di lui, tutti gli altri leader e sottoleader politici - su
ampie porzioni della Rai pubblica, che dovrebbe appartenere ai cittadini
e in cui invece scorrazzano a loro piacere, a seconda dei rapporti di
forza, quelle associazioni di diritto privato, quelle bocciofile,
chiamate partiti. Le cortine fumogene erano il blind trust,
il ‘consiglio dei tre Saggi’, tutte cose di cui naturalmente si sono
perse le tracce. E così il ‘conflitto di interessi’ è rimasto un tumore
della nostra democrazia.
Berlusconi
sostiene che la questione non esiste, perché è da tempo che si
disinteressa delle sue televisioni e comunque “tutti sanno che sono
l’editore più liberale che esista”. Simili cose turche le può dire solo
un soggetto paranoide che crede sinceramente – io la penso così- alle
sue menzogne. E in ogni caso anche se ciò che dice fosse vero non è che
cose del genere possono dipendere dalla ‘bontà’ di un imprenditore. E’
come se un industriale dichiarasse che con lui i diritti sindacali sono
inutili perché è solito trattar bene i suoi lavoratori.
Comunque
Berlusconi si tranquillizzi. Nessuno, nemmeno Di Maio, credo, vuole
espropriarlo delle sue aziende. Sono realtà imprenditoriali divenute
troppo importanti, anche dal punto di vista occupazionale, per toglierle
a chi le ha fondate e costruite con una capacità che nessuno può
mettere in discussione.
Se
però, come dice di continuo, vuol bene a quello che chiama “il mio
Paese” (per la verità sarebbe anche il nostro, ma lasciamo perdere)
dovrebbe ritirarsi dalla politica. Invece resta lì, come un macigno.
Impedendo con la sua presenza, nelle temperie attuali, un’alleanza con
le destre di Salvini e Meloni.
Dall’altra
parte c’è un macigno più piccolo: Matteo Renzi. Che, sempre in nome del
‘bene del Paese’, ma in realtà per “un ego smisurato” come lo ha
definito Di Maio, non dissimile da quello di Berlusconi, si oppone a
qualsiasi accordo con i grillini. Non solo non pensa al ‘bene del
Paese’, ma nemmeno a quello del suo partito. Après moi le déluge!
E
così noi italiani, sudditi senza diritti, a cominciare da quello di
scegliersi il proprio destino, ostaggio di uomini politici, alcuni
delinquenti, altri irresponsabili, “continuiamo a remare, barche contro
corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2018)
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