Collocabile tra gli estremi rappresentati dal Ritorno
a casa Gori e quello dei morti viventi, tra il dialettale e
l’orrido, la molto annunciata e non particolarmente attesa rentrée di Matteo Renzi, –
ospite del talk show liofilizzato di Fabio Fazio –
induceva nello spettatore una qualche punta di tristezza. Un po’ come
l’ennesima partita d’addio del celebre calciatore, in cui l’appannamento degli
scatti e la silhouette appesantita del festeggiato fanno subito capire
che forse sarebbe stato meglio anticipare tale ritiro da un
bel pezzo.
Del resto, il primo segnale che il tempo è ormai
irrimediabilmente passato lo forniva il barometro impersonificato
dall’espressione del conduttore, freddina e sulle sue; quando
in altri tempi – fedele al cliché dell’animatore da villaggio vacanze
– Fazio avrebbe emesso soddisfazione di poter accogliere un tipo che sino al
dicembre 2016 campeggiava quale indiscusso protagonista della scena
politica nazionale. Ma che da allora ha perso tocco e smalto; per poi
proseguire nel declino, fino ad arrivare all’estrema batosta del marzo 2018,
che lo ha declassato al rango di fastidioso “rieccolo”. Un po’ come quei
cantanti toscani di cui si sono perse le tracce (che ne so, Nada,
Don Backy, Pupo), il cui improvviso riapparire
procura solamente imbarazzo.
Per di più il ritorno del Renzi risultava preparato
davvero male, in quanto l’intera sceneggiatura che avrebbe sciorinato a Che
tempo che fa era stata maldestramente anticipata, tra stecche e stonature,
dal gruppo di spalla (detto anche “apri concerto”) composto da due antipatici
naturali quali Matteo Orfini e Andrea Marcucci;
ultime raffiche del renzismo e vocalist a disco rotto: “chi ha
vinto faccia vedere se è capace a governare”, “i programmi sono incompatibili”
e via andando. Una serie di solenni baggianate, visto che – come ormai avevano
fatto notare numerosi critici politico-musicali – in un sistema proporzionale
quale il Rosatellum non si ragiona più secondo la logica
maggioritaria, bensì in quella combinatoria; l’alibi
programmatico fa ridere, visto l’uso esclusivamente cerimoniale della retorica
contenutistica in un sistema politico fondato sulla presa per i fondelli dell’elettorato,
quale il nostro. Specie in bocca a chi nel recente passato ha fatto governi con
cronici menefreghisti tematici quali Silvio Berlusconi e Denis
Verdini.
Dunque uno spartito prevedibile e sostanzialmente
risaputo. Di certo incapace di apportare un qualche contributo al dibattito
pubblico e favorire il superamento dell’attuale stallo. Ma, a
differenza delle “vecchie glorie” della musica e dello sport, c’è un aspetto
che tiene ancora in gioco l’avvizzito quarantenne di Rignano sull’Arno:
la rendita di posizione derivante dall’aver avvelenato i pozzi del dibattito
interno al Partito democratico, operazione realizzata intasando
di yes-man/woman gli organigrammi del partito. A quale scopo? Di fatto
l’incontinenza verbale renziana ha fatto trapelare la
risposta, non adeguatamente individuata e sceverata da un conduttore a
circolazione sanguigna basata sul rosolio: Renzi vuole proseguire nell’opera
devastatrice minando il quadro politico esterno; osteggiando le ipotesi che
potrebbero determinare un minimo di governabilità nel nostro
sistema politico, a fronte di un vero e proprio deragliamento in atto
dell’intero quadro economico e sociale.
Disegno da pervicace egocentrico: dopo “l’après moi le déluge!” del pasticcione
che si credeva Luigi XV, ora siamo al
fumetto hollywoodiano “Rambo Due, la vendetta”.
Questo l’inquietante messaggio tra le righe: la
frenesia permanente di voler ritornare in pista. Inquietante soprattutto per
quanto riguarda il buon senso politico di chi lo lancia e
persegue. Non ancora resosi conto che gli italiani sono stufi di un invecchiato
ragazzotto; intenzionato da sempre a prenderli in giro, puntando tutto su un
blairismo che solo dalle sue parti qualcuno ritiene ancora una ricetta
vincente.
Pierfranco Pellizzetti (Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2018)
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