sabato 23 giugno 2018

Lo stadio non serve quindi si deve fare


Cominciamo col fatto più semplice, quello che ha dato inizio a una sorta di ‘Mafia Capitale 2’: lo stadio della Roma. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai nella Capitale la Roma dovrebbe costruirsi un nuovo stadio quando uno stadio già c’è, efficiente e sufficiente. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai si dovrebbe fare questo nuovo stadio quando negli stessi uffici amministrativi della Capitale, nel 2017, si riteneva che sarebbe stato “una schifezza”. Così lo definiva Carlo Notarmuzi, titolare dell’ufficio per la concertazione amministrativa. Una schifezza, ma necessaria secondo lo stesso Notarmuzi. Perché necessaria? Elementare Watson. Lo spiega quanto è avvenuto, nel 1990, per lo stadio di San Siro. Secondo i preventivi doveva costare 35 miliardi di lire e invece arrivò a 170, rovinando oltretutto “la Scala del calcio”, il miglior stadio d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. Necessario quindi perché si sapeva che il nuovo stadio avrebbe scatenato gli appetiti illegali di costruttori, amministratori, politici e partiti. La nuova giunta di Virginia Raggi inizialmente si oppose anche perché il nuovo stadio avrebbe distrutto un altro tempio dello sport, l’ippodromo di Tor di Valle. Ma per non fare la parte del nuovo Molotov, il diplomatico sovietico famoso perché diceva niet a tutto, la Raggi, che aveva già dato il suo no alle Olimpiadi, si accontentò di un ragionevole compromesso: il dimezzamento delle cubature in cemento. Ma la sostanza non è cambiata. Gli appetiti si sono ugualmente scatenati dando origine al cosiddetto ‘caso Parnasi’, il costruttore romano che, come a suo tempo Ligresti, ha le mani dappertutto e su tutto. Ma rispetto alla già grave vicenda Ligresti ci sono due differenze. Parnasi non ha solo “le mani sulla città”, per usare il titolo di un film di Rosi, cioè su Roma, ma anche su Milano e altri centri nevralgici del Paese. La seconda differenza è che qui sono coinvolti tutti, ma proprio tutti, gli strati sociali: partiti, politici, amministratori di ogni rango, palazzinari, imprenditori, brasseur d’affaires, avvocati di grido, docenti universitari, l’Opus Dei. Che Roma sia corrotta e parassitaria lo si sa dai tempi dell’Impero. Ma adesso questa corruzione, discendendo giù per li rami, ha creato metastasi in tutto il Paese.
Lo spartiacque sono state le inchieste di Mani Pulite del 1992-94 quando i magistrati di Milano chiamarono anche ‘lorsignori’ a rispondere a quelle leggi che tutti noi siamo tenuti a rispettare. Per un momento sembrò che questa fosse l’occasione per la nostra classe dirigente per emendarsi di atavici vizi che avevano già fatto capolino fin dai primi anni Sessanta e che poi si erano estesi a tutti i partiti e a buona parte degli imprenditori. Il pool di Milano acquisì una risonanza non solo nazionale ma anche internazionale e l’Italia venne indicata come “Paese esemplare” che sapeva rimediare ai propri atavici difetti. Antonio Di Pietro divenne un eroe nazionale omaggiato e corteggiato da tutti (le famose “dieci domande a Tonino” di un editoriale di Paolo Mieli sul Corriere; il nuovo premier Berlusconi voleva fare di lui il proprio ministro degli Interni). Fu solo un lampo. Bastarono due anni per capovolgere, in un drammatico gioco delle tre tavolette, l’orientamento non solo della classe politica ma anche, attraverso i media berlusconiani e non solo, della popolazione: i magistrati divennero i veri colpevoli, i ladri le vittime e Di Pietro l’uomo più attaccato d’Italia.
Da allora, nel totale disgregamento etico degli italiani, non è venuta a mancare di fatto solo la sanzione penale, ma anche quella, forse ancor più importante, sociale, che pur nei primi anni ‘90 esisteva ancora. Emblematico è il caso di Luigi Bisignani. Piduista, condannato a due anni e sei mesi di reclusione per reati contro la PA e radiato dall’Ordine dei giornalisti. Si penserebbe che un simile soggetto non avrebbe più potuto metter piede nemmeno nel più marginale degli uffici pubblici. Invece lo ritroviamo coinvolto come consigliere dell’amministratore delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci nella cosiddetta ‘Tangentopoli due’. Diventa poi consigliere di Scaroni presidente dell’Eni, per i suoi rapporti privilegiati con la Libia. Coinvolto poi ancora nella vicenda 'P4' lo troviamo oggi indagato per lo scandalo dello stadio della Roma. Nel frattempo è diventato editorialista e un ambito ospite dei talk show televisivi.
Adesso nel malcostume generale sono stati coinvolti anche dei rappresentanti dei 5Stelle, i vessilliferi della legalità. Credo che rimontare una situazione del genere che perdura da quasi quarant’anni sia impossibile anche per chi abbia le migliori intenzioni. Come scrissi in un articolo sul Fatto di qualche tempo fa: in Italia ci sarebbero così tante cose da fare, che ormai non c’è più nulla da fare.



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