Mentre il premier Giuseppe Conte
ottiene il primo successo internazionale, incassando dalla Merkel la
retromarcia di Berlino e Parigi sulla bozza d’accordo Ue che ancora una
volta penalizzava l’Italia sui migranti, il vicepremier Matteo S.
s’incarica puntualmente di oscurarlo con la sua sparata quotidiana a
costo zero e a danno mille (per l’Italia e alla lunga anche per lui).
Stavolta ce l’ha con Roberto Saviano,
che si è permesso di criticarlo: “Saranno le istituzioni competenti a
valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto
tempo all’estero. Valuteranno come si spendono i soldi degli italiani.
Gli mando un bacione”.
La tentazione ormai è quella di ignorare tutto ciò che esce dalla bocca del cosiddetto ministro dell’Interno,
che muore dalla voglia di dominare ogni santo giorno le aperture di tg e
giornali. E di concentrarci sui fatti e gli atti concreti, finora
pochini (almeno da parte sua). Presto inaugureremo la rubrichetta “Il Cazzaro Verde”,
per riportare le sue quotidiane scemenze e incontinenze alle dimensioni
che meritano: 10 righe. Il che non vuol dire mettergli il silenziatore
sulle questioni di sostanza. Per esempio, l’annunciato e poi ritirato censimento etnico sui Rom:
è vero che non porterebbe ad alcun risultato pratico neppure se si
facesse (i Rom sono un po’ italiani, un po’ romeni, un po’ slavi, dunque
comunitari, ergo nemmeno uno – anche volendo – può essere espulso), ma
solo a evocarlo già produce nuovo razzismo a buon mercato nella nostra
società avvelenata.
Queste sono le critiche da muovere a Salvini: non
gridare ogni giorno al fascismo, magari senza riconoscere i risultati
ottenuti dal governo (come lo storico precedente di un posto non
italiano, ma spagnolo, che accoglie migranti dalla nave di un’Ong). Idem
per la polemica sulla scorta di Saviano, che non è la solita flatulenza uscita dal buco sbagliato: è una questione di sostanza che ci portiamo dietro dai tempi di Giovanni Falcone, quando alcuni signorini molto perbenino del suo quartiere nel centro di Palermo
si misero a strillare perché, signora mia, tutte quelle sirene li
innervosivano. Qualche tempo dopo, forse per non disturbare altri
sensibilissimi cittadini, forse per ragioni più inconfessabili, il
prefetto e il questore pensarono bene di non vietare i parcheggi in via
D’Amelio, dove abitava l’anziana madre di Paolo Borsellino.
Col risultato di agevolare il lavoro dei killer mafiosi, che poterono
posteggiarvi indisturbati la Fiat 126 imbottita di tritolo e farla
esplodere al suo arrivo il 19 luglio 1992. Sulle scorte non si scherza.
Saviano non è l’oracolo di Delfi (nessuno lo è) e si può
tranquillamente dissentire da lui, come ogni tanto amichevolmente
facciamo anche noi. Sui migranti criticò la linea dura di Minniti e ora critica la linea durissima di S.: tutto gli si può dire, tranne che non sia coerente o agisca per conto terzi. Ai tempi del governo Renzi, criticò i silenzi del presunto rottamatore sulle mafie e chiese le dimissioni della Boschi per i conflitti d’interessi su Etruria,
beccandosi gli insulti dei rottweiler pidini (Rondolino lo paragonò
sull’Unità a un “mafiosetto di quartiere” nel silenzio di tutti,
compreso il suo giornale, ma non del Fatto).
Ora S. vuole rispondergli nel merito, opponendogli le sue ragioni (vere o presunte)? Lo faccia. Ma la smetta di
tirare in ballo la sua scorta (non è la prima volta che lo fa). Perché
Roberto non se l’è data da solo. Perché chiunque ce l’abbia fa una vita
di merda. E perché non si può minacciare di levarla a chi dissente.
Altrimenti è un ricatto, minaccioso e pericoloso: se mi elogi ti proteggo, se mi critichi ti lascio ammazzare.
E nessun uomo delle istituzioni – parrà strano, ma anche S. da 21
giorni lo è – può permettersi questi messaggi mafiosetti: lo Stato non è
roba sua, e nemmeno le forze dell’ordine o le scorte.
Che vanno assegnate a chi è in pericolo, per i più svariati motivi, a
prescindere da chi è e come la pensa. A questo proposito, ieri il pm
antimafia Nino Di Matteo ha rivelato a un convegno che il suo ex collega Antonio Ingroia è senza scorta da maggio. Guardacaso gliel’hanno tolta 15 giorni dopo le condanne degli imputati all’ultimo processo istruito da lui: quello sulla trattativa Stato-mafia. Stiamo parlando di un ex pm molto noto e riconoscibile che per 35 anni
ha dato la caccia ai mafiosi e anche ai loro complici nelle
istituzioni, nei servizi segreti, nella politica, nell’economia (facendo
condannare in via definitiva, fra gli altri, Bruno Contrada e Marcello
Dell’Utri).
Che molti mafiosi (e non solo mafiosi) lo vogliano morto, non è un
mistero per nessuno. Chi ha deciso, ai tempi supplementari del governo Gentiloni
e del ministro Minniti, di lasciare Ingroia senz’alcuna protezione?
Sappiamo benissimo che il pensionamento o le dimissioni di un magistrato
non bastano a metterlo al sicuro: le condanne a morte delle mafie
durano in eterno, qualunque cosa facciano i condannati (Falcone fu
ucciso quand’era fuori servizio, prestato al ministero della Giustizia).
Quindi il nuovo governo, nella persona di S., provveda subito, senza
neppure porsi il problema delle idee di Ingroia, che
sono affar suo. E, se tiene alla poltrona, provi a ricordare quel che
accadde a un suo predecessore: il ministro dell’Interno Claudio Scajola, che nel 2002 dovette dimettersi per aver definito “rompicoglioni” il professor Marco Biagi,
consulente del suo governo, appena ammazzato come un cane mentre
tornava a casa in bicicletta sotto i portici di Bologna, dopo aver
ripetutamente segnalato al Viminale le minacce subìte e chiesto invano
protezione. Anche Ingroia e Saviano sono “rompicoglioni”. E a noi, per solidarietà di categoria, i rompicoglioni piacciono un sacco. Li preferiamo vivi.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2018)
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