Il futuro non è davanti ma dietro di noi.
L’economia
nella forma del libero mercato, insieme a tutti i suoi infiniti
addentellati, domina interamente la nostra società e la discussione
pubblica (lo stesso tema cogente dell’immigrazione vi è strettamente
legato).
Il
libero mercato è basato sull’iniziativa privata e ha al suo centro la
figura dell’imprenditore, tanto più apprezzato se particolarmente abile.
A questo proposito va sottolineato un elemento cui si da, ci pare,
pochissima attenzione: l’iniziativa privata non è la stessa cosa della
proprietà privata. La proprietà privata sta all’iniziativa privata come
la forza fisica sta alla possibilità di farne uso. In nessun tempo si è
mai negato a qualcuno il diritto di possedere una forza fisica superiore
che dovesse essere in qualche modo ridotta per uguagliarla a quella
degli altri. La forza fisica è un dono di natura e chi ce l’ha se la
tiene. Ma il problema di mettere dei limiti all’uso indiscriminato di
questa forza si è posto fin dall’inizio, appena l’uomo ha cominciato a
vivere in comunità sufficientemente organizzate. In origine il diritto
nasce proprio per impedire che individui fisicamente superiori possano
usare la loro forza per danneggiare gli altri o per sottometterli. Non
si capisce perché lo stesso criterio non debba valere per un altro dono
di natura qual è l’abilità economica. Nella società preindustriale,
preliberale, predemocratica la proprietà privata non era messa in alcun
modo in discussione, era invece messa in discussione la possibilità che
l’individuo potesse usare illimitatamente della propria superiore
abilità e capacità in campo economico per danneggiare il prossimo o per
soggiogarlo. Tutto lo sforzo della Scolastica, con la lotta al profitto e
all’interesse (il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può essere
perciò monetizzato, Duns Scoto), l’elaborazione dei concetti di
“giustizia commutativa e distributiva” e dei princìpi cui dovevano
essere sottoposti gli atti di scambio “perché fossero conformi a un
criterio di giustizia” e non permettessero sopraffazioni illimitate, fu
un tentativo, generoso e per molti secoli riuscito, di evitare che alla
violenza della forza fisica si sostituisse quella dell’abilità
economica, dell’iniziativa privata dispiegata senza limiti ai danni dei
più sprovveduti, dei meno capaci o anche dei meno interessati.
La
democrazia liberale e liberista, insieme a tutta una serie di altri
fattori, precedenti, concomitanti e successivi, fra cui determinanti
sono la rivoluzione scientifica, la Riforma e, soprattutto, la
Rivoluzione industriale, abbatte questi limiti e contribuisce a porre le
premesse dell’attuale modello di sviluppo occidentale, dove al centro
c’è l’economia (insieme alla sua ancella, la Tecnologia) e l’uomo è
semplicemente una variabile dipendente.
Se la liberaldemocrazia ha avuto molti e insidiosi nemici, l’attuale modello di sviluppo, inteso nella sua essenza, come Modernità,
non ne ha nessuno, né a destra né a sinistra. Il presupposto,
inamovibile e irrevocabile, comune ai liberali ma anche al marxismo (che
all’origine si pone anch’esso come una forma di democrazia: la
democrazia comunista), è infatti che il mondo moderno, pur con tutte le
sue contraddizioni e lacerazioni, è infinitamente più vivibile di quello
di ieri, descritto come un mondo di fame, di miseria, di prepotenze, di
illiberalità, di sangue e di morte. La convergenza di destra e di
sinistra, di liberali e marxisti, su questo punto fondante, che
legittima l’intera Modernità, insieme alle sue dottrine politiche, è del
tutto coerente e comprensibile. Figli entrambi della Rivoluzione
industriale liberalismo e marxismo, nelle loro varie declinazioni, sono
in realtà due facce della stessa medaglia. Sono entrambi modernisti,
illuministi, progressisti, ottimisti, razionalisti, materialisti e, su
tutto, economicisti, entrambi hanno il mito del lavoro, sono entrambi
industrialismi che pensano che l’industria e la tecnica produrranno una
tale cornucopia di beni da rendere liberi tutti gli uomini (Marx) o, più
realisticamente per i liberal-liberisti, il maggior numero possibile.
Questa utopia bifronte è fallita. Prima sul versante marxista che si è
rivelato un industrialismo inefficiente e perciò perdente. L’unica
faccia della medaglia della Modernità spendibile era quindi rimasta
quella liberale, liberista, “democratica” che soprattutto attraverso i
processi di globalizzazione che hanno esasperato tutti i vizi del
capitalismo si è rivelata a sua volta fallimentare. Ma né i
liberal-liberisti, né i marxisti fin che sono esistiti, possono mettere
in discussione la Modernità perché significherebbe recidere le proprie
radici dato che dalla modernità sono nate e nella modernità si sono
affermate. E’ questo il “pensiero unico” di cui si sente tanto parlare
senza peraltro sapere bene, spesso, di che cosa si tratti.
I
pochi che osano mettersi di traverso a questo pensiero sono bollati
come inguaribili e ridicoli passatisti. In un saggio di qualche tempo
fa, una specie di epitome del pensiero e della sicumera modernista, lo
storico francese Pierre Milza (ma lo prendiamo solo come esempio degli
infiniti ‘laudatores’ della modernità) scriveva: “E’ nostro dovere
spiegare che il pericolo di morte per le civiltà esiste solo quando
queste si irrigidiscono nella sterile contemplazione del proprio
passato”. E’ curioso come gli idolatri della Modernità, liberali o
marxisti che siano, di destra o di sinistra, maniaci del cambiamento,
perché da un cambiamento, anzi da una rivoluzione, sono nati, non si
rendano conto che “irrigiditi nella contemplazione del passato” sono
proprio loro, loro i veri passatisti perché sono seduti su categorie di
pensiero ottocentesche, vecchie di due secoli, che han fatto il loro
tempo e non sono più in grado di capire appieno la realtà e soprattutto
le esigenze più profonde dell’uomo occidentale contemporaneo che al di
là di ogni apparenza non sono economiche ma esistenziali. Non è il sonno
ma il sogno della Ragione che ha partorito mostri.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2018)
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