domenica 16 settembre 2018

I giovani: una classe politica mancata


Quando ero al liceo agli inizi del 2000 sentivo dire che quando si è giovani si è di sinistra e poi, da adulti, ci si sposta verso posizione più conservatrici perché si raggiunge uno status quo e si tende a difenderlo. Le sfiorite ideologie del Novecento indicavano un orizzonte verso cui le società volevano tendere, dei modelli di società migliore. Il miglioramento delle condizioni di vita era di solito possibile attraverso un fisiologico scontro generazionale, una stimolante e sana competizione tra padri e figli che innescandosi nell’adolescenza permetteva la crescita dei giovani educandoli all’indipendenza. Il cambiamento in politica era portato avanti da chi era nuovo, dai giovani, secondo una dialettica che tendeva a portare avanti le istanze di nuove classi o di nuovi gruppi sociali.
Eppure come diceva Mentana in un recente evento organizzato da Gino Strada, nelle aziende trilionarie della Silicon Valley oggi l’età media è di 30 anni, mentre in Italia alle riunioni di Confindustria l’età media è di quelli della piscina di Cocoon, senza gli effetti della piscina. In pratica in Italia questo conflitto generazionale non si è completamente verificato. I giovani infatti sono stati (e si sono?) completamente esclusi da tutto.
Nelle famiglie più fortunate un patto implicito infatti ha legato il padre e il figlio secondo cui, il primo paga al secondo una formazione sempre più lunga e dispendiosa, mentre il secondo, mantenuto dalla famiglia restando sotto il tetto familiare, impegnandosi nello studio, ambisce a posizioni lavorative sempre più rare in un contesto di allargamento della classe media.
Questo patto scellerato ha creato una “classe disagiata”, la cui teoria è stata elaborata da Raffaele Alberto Ventura, che dovendo accettare spesso il declassamento della propria posizione sociale, poiché esclusa dalla competizione ai sempre più rari posti di lavoro, nasconde il proprio disagio con pratiche ostentatorie di un tenore di vita che non può permettersi.
Noi giovani siamo stati quindi esclusi dal mondo del lavoro, principale elemento di affermazione personale e sociale. Con una retorica volutamente paternalista, facendo affidamento nel ricatto dell’ ”esercito di lavoratori a gratis di riserva”, i datori di lavoro possono ottenere la massima produttività con una paga prossima allo zero, giustificandola con la logica del “devi imparare il mestiere”. Dopo anni e anni di esami, i giovani escono dall’università e gli si dice che non sanno lavorare, che quella fatta finora era teoria, la pratica è altro.
Complici di questo paternalismo lavorativo sono paradossalmente i genitori stessi. Coscienti di aver contribuito ad un mondo più ingiusto e chissà alla crisi economica, mossi da un senso di colpa di inadeguatezza, si comportano contemporaneamente in due modi. Da un lato ci accolgono sotto il loro tetto, mantenendoci, lasciandoci come unica responsabilità economica, quella di decidere come spendere il sabato sera la paghetta o i 500 euro gentilmente concessi dallo sfruttatore di lavoro. Dall’altro lato talvolta ci screditano poiché nel periodo del boom economico sono riusciti a fare quello che noi non saremo capaci di fare.
Secondo questa logica familiaristica che ha fondato le politiche giovanili fino ad oggi, si è sempre sperato che garantendo un sistema fiscale per i genitori e i nonni, si potesse per effetto cascata, costruire un welfare familiare che aiutasse i giovani, senza capire che tale sistema li rende ancora più dipendenti delle morbose braccia familiari. Da qui l’idea dell'”italiano mammone”.
Il fisiologico conflitto generazionale che porta cambiamento è stato pacificato dall’emergenza della crisi ed ha quindi fatto venir meno una classe politica di giovani.
Escludendo coloro che restano in uno stato di disoccupazione e sotto il tetto familiare, non rimangono che tutti coloro che hanno voluto o dovuto tentare la via dell’emigrazione e quei sempre meno fortunati che sono riusciti a trovare un lavoro in Italia, spesso ripiegando rispetto alle iniziali ambizioni, e che sono riusciti a fondare una famiglia, non si sa se per meritocrazia o per conoscenze personali.
Se una parte dei disoccupati sono pacificati dal paternalismo familiare e lavorativo, e se l’altra parte si imbatte nel calvario dell’emigrazione, vera valvola di sfogo sociale e politica delle conflittualità generazionali, portando via con sé rivendicazioni ed entusiasmo, chi si fa avanti per un cambiamento politico?
Chi deve portare avanti le politiche giovanili che mirano all’indipendenza economica ed abitativa se non i giovani stessi? Di sicuro non saranno i “vecchi” contenti di averci ancora sotto il loro tetto, elargitori di una paga che non si sa quando diventerà produttiva e quindi bruciando nel frattempo importanti risorse economiche.
Di certo nessuno delle vecchie generazioni si farà da parte e nessuno delle nuove leve abbozza una qualche forma di riscatto generazionale.
Condannati al presentismo della cultura del consumo e dei social, disillusi dalle delusioni politiche dei nostri genitori, non crediamo nel cambiamento perché non crediamo, purtroppo, che la politica possa contribuirvi, sia perché non l’abbiamo mai sperimentata, sia perché a scuola ci hanno sempre scoraggiato a trattarne, sia ancora perché non abbiamo fiducia nel prossimo così come non abbiamo fiducia in noi stessi. Il prossimo non è visto come un compagno di lotta ma come un possibile concorrente di un posto di lavoro che ci garantirebbe l’obiettivo di costruirci una vita.
Increduli ad un cambiamento che non abbiamo mai vissuto, incapaci di organizzazione e destinati a sopravvivere in maniera individualista, dobbiamo per la sopravvivenza stessa della società e di noi stessi, riprendere in mano il nostro destino attraverso la partecipazione politica personale. 

Tobia Savoca (Pressenza - 15 settembre 2018)


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