lunedì 17 settembre 2018

I ripetenti di B. attaccano la Magistratura e Mattarella


Nel corso di una cerimonia in onore di Oscar Luigi Scalfaro a cent’anni dalla sua nascita il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha pronunciato un discorso che è l’ultima linea di difesa dei cittadini dall’arroganza degli uomini politici, siano essi di destra, di sinistra, di centro o di qualsiasi altra parte. Ha detto il presidente della Repubblica: “Nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi. I magistrati traggono legittimazione e autorevolezza dal ruolo che loro affida la Costituzione. Non sono chiamati a seguire gli orientamenti elettorali, ma devono applicare la legge e le sue regole. Nessun cittadino è al di sopra delle leggi”. Un discorso tanto ovvio quanto ineccepibile in risposta a Matteo Salvini che aveva tirato fuori un antico refrain berlusconiano secondo il quale l’uomo politico poiché è stato eletto dal popolo o da una parte di esso, ha cioè un consenso, non può essere sottoposto alla legge allo stesso modo degli altri cittadini. Aveva detto il leader della Lega: “Io sono un organo dello Stato eletto dal popolo, non come i magistrati”. Il discorso di Mattarella riporta le cose al loro posto. Mi ricordo che all’epoca in cui Silvio Berlusconi tirò fuori dal suo cilindro lo strabiliante concetto che il consenso garantiva all’uomo politico la legittima possibilità di commettere reati, Marco Travaglio ed io ci divertivamo a scherzare, in privato e sui giornali, su quale dovesse essere l’entità di questo consenso per garantire l’impunità: bastavano due milioni, ce ne volevano quattro o forse otto?
Per contestare in qualche modo questo discorso ineccepibile Alessandro Sallusti deve arrampicarsi sugli specchi, come fa ormai da anni, da decenni, cioè da quando è entrato nel giro berlusconiano, mentre in precedenza era stato un ottimo professionista. Innanzitutto liquida il discorso di Mattarella in risposta all’inaudita pretesa di Salvini come “un gioco delle parti”. Questo è il classico modo berlusconiano, e non solo berlusconiano, di considerare le Istituzioni. Le Istituzioni non fanno, non possono fare, non devono fare alcun politico “gioco delle parti”, ma semplicemente rispettare e rendere effettivo il ruolo per cui esistono: il presidente della Repubblica è il supremo garante della Costituzione, l’Esecutivo governa, il Parlamento approva le leggi, la Magistratura controlla che queste leggi non siano violate e punisce, con tutte le garanzie previste dall’ordinamento, chi queste leggi invece le infrange.
Ma l’affanno di Alessandro Sallusti è ancora più evidente quando si aggrappa all’occasione in cui Mattarella ha fatto il suo discorso cioè la celebrazione di Scalfaro. Il direttore del Giornale definisce Oscar Luigi Scalfaro “il peggior presidente nella storia della Repubblica”. E lo credo bene. Scalfaro rifiutò di firmare il decreto-legge Conso che voleva depenalizzare il “finanziamento illecito dei partiti” e salvare così nel pieno delle inchieste di Mani Pulite (siamo nel marzo del 1993) i politici e i partiti che avevano ricevuto per anni quei soldi, depredando di fatto il cittadino italiano. In precedenza, nel giugno del 1992, Scalfaro aveva rimandato al mittente la pretesa di Bettino Craxi, sulle soglie di essere indagato per quella corruzione che gli costerà dieci anni di galera mai scontata ma vissuta in Tunisia sotto la protezione del dittatore Ben Ali, di fare ugualmente il presidente del Consiglio. E Craxi era il grande protettore di Silvio Berlusconi, e viceversa, cui consentì attraverso la famigerata legge Mammì di essere per anni il padrone assoluto di tutto il comparto televisivo privato italiano. Sallusti insinua poi che Scalfaro avrebbe tramato per far fuori Berlusconi attraverso pressioni sui magistrati di Mani Pulite perché gli inviassero il famoso avviso a comparire mentre presiedeva a Napoli una conferenza internazionale sulla criminalità. A parte che, viste le cose con gli occhi di oggi, è abbastanza curioso che un uomo che sarebbe stato poi definito dai Tribunali della Repubblica un “delinquente naturale” presiedesse un convegno sulla criminalità, nella mente bacata di Sallusti non ci può proprio stare che la magistratura agisca per tutelare il rispetto delle leggi, come richiamava l’altro giorno Mattarella, e non per motivi politici. Il governo Berlusconi non cadde per le supposte trame di Scalfaro, fu Umberto Bossi a farlo cadere con quello che rimane il suo miglior discorso, anche dal punto di vista stilistico, in Parlamento (“Oggi finisce qui la Prima Repubblica”. Si illudeva, il buon Umberto).
Sallusti tira fuori poi il suo asso nella manica: il “non ci sto” pronunciato da Scalfaro in televisione quando fu accusato di aver percepito in modo irregolare i 100 milioni al mese destinati al ministro degli Interni quando lo stesso Scalfaro aveva ricoperto quel dicastero. Peccato che nel 1999 Oliviero Diliberto, in quel momento ministro della Giustizia, abbia ricordato che la Procura di Roma aveva comunicato il 3 marzo 1994 che “nei confronti dell’onorevole Scalfaro non sussiste alcun elemento di fatto dal quale emerga un uso non istituzionale dei fondi”.
Alessandro Sallusti deve rendersi conto che il ventennio berlusconiano della guerra senza esclusione di colpi alla Magistratura è definitivamente tramontato. E deve smetterla di fare come uno scadente illusionista il gioco delle tre tavolette contando sulla smemoratezza degli italiani. Perché alcuni testimoni di quel tempo, quorum ego, sono per buona o mala sorte ancora vivi. E anche che il progetto di legge, di matrice Cinque Stelle, secondo il quale le amministrazioni dello Stato non devono fornire la pubblicità ai giornali non è diretto al suo Giornale come scrive, facendo la vittima, nell’editoriale del 12 settembre, ma a tutti i giornali perché non c’è nessuna ragione per la quale lo Stato, cioè noi cittadini si sia chiamati a pagare pubblicazioni private. I giornali si mantengano da soli, se ce la fanno. Ma visto come sono fatti e la malafede di cui sono intrisi, di cui il Giornale di Sallusti può essere considerato il vessillifero, dubito molto che ce la facciano.



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