martedì 25 giugno 2019

Quella dimenticanza "morale" di Berlinguer


Sull’onda della corruzione della Magistratura –perfino della Magistratura- è tornata all’onor del giorno la “questione morale” e si dice e si scrive che Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, fu il primo a porla, legandola allo strapotere assunto dai partiti, nella famosa intervista del luglio 1981 a Scalfari. Per la verità Berlinguer non fu il primo. Già nel 1960, cioè vent’anni prima di Berlinguer, Cesare Merzagora in un vibrante discorso al Senato, di cui era presidente, aveva denunciato che la democrazia stava trasformandosi in partitocrazia, con annessa e inevitabile corruzione, e lo stesso aveva fatto nel medesimo anno il grande giurista Giuseppe Maranini. Cosa diceva Berlinguer in quell’intervista a Scalfari? “I partiti… sono macchine di potere e di clientela…Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi…sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’…i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo”. E ancora: ”Hanno occupato gli enti locali, gli enti previdenziali, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali”. E concludeva: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande”. Un discorso ineccepibile. All’apparenza. 
Nel 1983 in una “Lettera aperta a Claudio Martelli”, allora il più importante leader socialista dopo Bettino Craxi, scrivevo sul Giorno, che non poteva certamente essere accusato di ostilità nei confronti dei partiti di governo, Dc e Psi in testa: “Non c’è angolo della nostra vita pubblica e privata che non sia occupato dai partiti i quali, debordando dalla loro sede naturale, il Parlamento, hanno lottizzato, oltre al governo, alla presidenza della Repubblica, alle Regioni, alle Province, ai Comuni, anche l’industria pubblica, il parastato, la burocrazia, le forze armate, la magistratura, le banche, gli ospedali, l’università, le grandi compagnie di assicurazione, le camere di commercio, gli appalti, la Rai Tv, i giornali, le aziende municipalizzate, le Spa comunali, gli enti culturali, gli Iacp, i porti, le terme, le mostre, le aziende di soggiorno, gli acquedotti, i teatri, i conservatori, le casse mutue, le unità sanitarie locali, i tranvieri, i vigili urbani, gli spazzini, gli urbanisti, gli architetti, gli ingegneri e, infine, anche i corpi di ballo, le soliste e i primi ballerini”. Uno scritto che sembra pantografato sulle parole di Berlinguer. Ma fra i due discorsi, a parte l’importanza dei personaggi in campo, corre una differenza. Sostanziale. Quale? Berlinguer dimenticava disinvoltamente, molto disinvoltamente, di essere segretario di un partito, il Pci, che era parte integrante di quella partitocrazia di cui denunciava il clientelismo e la corruzione, a cui partecipava come tutte le altre formazioni politiche, ma le riferiva solo alla Dc, al Psi, alle frattaglie repubblicane e liberali (“occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi”). Insomma si tirava fuori, sorvolando tra l’altro che il Pci riceveva cospicui finanziamenti dall’Unione Sovietica (la Dc e il Psdi dagli americani) uno Stato apertamente nemico delle democrazie occidentali e che ricevere quattrini dall’Urss poteva essere considerato “alto tradimento”. Il buon Zingaretti è quindi figlio di quel Pci, partitocratico e clientelare come tutti gli altri, e non può perciò essere accusato di proseguirne, sia pur con qualche resistenza, se non la politica certamente la stessa immorale moralità.  

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2019)

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