Venerdì ho letto sul Fatto, a firma di Lorenzo Vendemiale, una
notizia sbalorditiva, che però è scivolata via come se nulla fosse. La
notizia è questa: la società bianconera ha deciso di vietare, per il
prossimo campionato, l’ingresso allo Stadium a tutti i tifosi, e anche
non tifosi, che, residenti a Torino o altrove, sono nati in
Campania. Ma come? Sono anni che ci rompono i coglioni con la
“discriminazione razziale” allo stadio mettendo sotto accusa striscioni
sostanzialmente innocui, perché ironici, come “Forza Vesuvio” se si è a
Verona o, a campi invertiti, “Giulietta era una zoccola” e adesso si
accetta tranquillamente un provvedimento che non si può definire
altrimenti che razzista?
La società bianconera ha dovuto poi fare marcia indietro, dopo che la
Questura di Torino si era giustamente dissociata da questo dissennato
provvedimento che configura un reato. La legge Mancino del ’93 punisce
con la reclusione fino a un anno e 6 mesi chi “istiga all’odio
razziale”. Personalmente sono sempre stato contrario a questa legge
perché, a parer mio, esiste un diritto all’odio, che è un sentimento
come la gelosia o l’ira, che può essere punito solo quando si
materializza in atti concreti (cioè se torco un solo capello alla
persona che odio allora sì devo andare in gattabuia). Ma visto che la
legge c’è va applicata al signor Andrea Agnelli, attuale presidente
della Juve.
Fra due settimane inizia il Campionato. E a me come a molti altri
della mia generazione sale una sorta di disgusto. Cosa singolare perché
la mia generazione, diciamo quelli che erano ragazzi negli anni
Cinquanta e nei primi Sessanta, aveva solo il calcio, il grande sport
nazional popolare insieme al ciclismo. Il tennis era roba da ricchi, lo
sci lo conoscevano solo quelli che abitavano in montagna, il basket
apparteneva, insieme al baseball, alla cultura americana e quel gioco,
non era ancora entrato nella nostra mentalità e nel nostro costume, a
differenza della pur mediocre letteratura yankee dell’epoca, introdotta
in Italia da Elio Vittorini con Americana (Steinbeck, Irwin Shaw e l’indigeribile Saroyan).
Il calcio lo abbiamo giocato tutti, ognuno al suo livello, nei
cortili, in strada, a Milano nei terrain vagues lasciatici graziosamente
in dono dai bombardamenti americani e poi, diventati un po’ più grandi,
nei campi regolari di qualche società minore.
Ma negli ultimi decenni economia e tecnologia (vale a dire la Tv)
hanno via via distrutto i motivi rituali, mitici, simbolici, identitari,
comunitari, che per un secolo e passa hanno fatto la fortuna di questo
gioco.
Oggi le squadre, non solo di A, ma di B e anche di C, sono zeppe di
stranieri e a volte in partite di cartello del nostro Campionato non
vedi in campo un solo giocatore italiano. I giocatori cambiano squadra
ogni anno e, grazie al calcio mercato di gennaio, anche all’interno
della stessa stagione con tanti saluti alla regolarità del Campionato.
Le maglie, per esigenze degli sponsor, vengono cambiate quando la
squadra gioca in trasferta. Come si fa a identificarsi? Con la politica
degli abbonamenti (denaro che entra in anticipo) è saltato anche
l’elemento comunitario e interclassista, la suburra va dietro le porte,
gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse Tribune. Un tempo il
piccolo imprenditore sedeva accanto al suo operaio, gli spettatori si
diluivano per estrazione sociale ed età nell’intero stadio, se si
cacciano tutti i ragazzotti dietro le porte e nelle curve come si può
poi pretendere che non facciano casino? Le pay tv e le pay per view
hanno introdotto un altro elemento di discriminazione sociale. Per
esigenze televisive si gioca ogni giorno e a ogni ora: venerdì c’è un
anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, a mezzogiorno di
domenica c’è una partita di cartello, alle tre del pomeriggio giocano le
squadre meno interessanti, alle 18.30 altra partita, la sera il match
più importante, il lunedì il posticipo di A, il martedì e il mercoledì
c’è la Champions, il giovedì quella competizione comica che è l’Europa
League e la danza infernale ricomincia.
Anche i più importanti campionati stranieri, Premier League, Liga
spagnola, Bundesliga, sempre per esigenze televisive sono tarati in modo
da non collidere fra di loro. A tutto questo si è aggiunto il Var. Una
squadra segna ma i giocatori e gli spettatori trattengono il fiato. C’è
il Var. Si crea una sorta di comica assemblea fra arbitro, tre ometti in
tenuta da gioco che stanno nelle catacombe dello stadio e fra poco, per
non essere influenzati, in un punto imprecisato dello spazio, i
guardalinee, il ‘quarto uomo’. Solo quando l’arbitro indica il cerchio
di centro campo o il punto da cui deve essere battuta la punizione per
un presunto fuori gioco si può esultare o piangere. Ma in quel momento
sul campo non sta succedendo nulla. Una situazione surreale.
Il calcio andrà a morire per overdose, come tutta la nostra società,
di cui “il più bel gioco del mondo” non è che uno degli specchi.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2019)
Concordo pienamente con l'autore dell'articolo, anzi è stato troppo"democratico" nel raccontare la realtà dei fatti che ha distrutto il calcio, se lo vedano loro....
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