All’inizio c’è la paura. Chi ha giocato e visto un po’ di calcio conosce perfettamente la sensazione. In novanta minuti e oltre non basta la fiducia in se stessi, non basta aver preparato la partita. Sono troppe le variabili da controllare. In altri sport possono capitare eccezioni, ma nel calcio la normalità è l’eccezione. È uno sport di situazione, mi diceva un vecchio allenatore. Dipende dalla situazione.
Prima della partita della vita (e fino alla prossima), per descrivere
davvero questa sensazione devo tornare sugli spalti dello stadio della
mia città. Lo stadio Nereo Rocco è grande quanto la storia di Trieste, e
della sua squadra, la Triestina. Ma il presente è spesso una fatica.
Siamo entrati nell’anno 2000 e la Triestina è in C2. La domenica si va
allo stadio. In curva i sedili sono verdi, le maglie rossoalabardate.
Per vedere meglio, mi dico allora, sto quasi in piedi, appoggiato
soltanto, i piedi puntati a terra. Riconoscerò più tardi che è la paura,
sto quasi tremando. Dura fino al ventesimo del primo tempo,
solitamente, fino a quando in campo abbiamo preso il ritmo, abbiamo
rotto il fiato, e fare un passaggio in orizzontale non è più un incubo.
Poi siamo in gioco, e tutto può succedere.
La Triestina è un amore geografico, biografico, ereditario, anche se
ovviamente corrisposto. L’Inter è una scelta, ma non cambia quella paura
iniziale. A inizio campionato, nelle settimane atroci e da acquolina in
bocca del calciomercato, la prima cosa che guardo è il centrocampo.
Avremo paura di giocare la palla anche quest’anno? Così andiamo avanti
veloce, arriviamo a un mercoledì sera dell’aprile 2010, c’è la luna
piena, tutto è cambiato e nulla può davvero cambiare. Siamo ancora qui a
trattenere il respiro.
All’andata abbiamo vinto 3 a 1, ma loro sono la squadra più forte del
mondo. Nella mia storia non sono mai stato così vicino a una finale di
Champions League. Certo, ho letto di Helenio Herrera, però oggi è
diverso. Al Camp Nou uno striscione alimenta il presagio: “Remuntada”.
Aspetto e penso che l’unica è vincere, contro il Barcellona l’Inter non
può limitare i danni. Vincere o perdere, dentro o fuori.
Sto seduto in punta di divano ed è perfino passato il ventesimo minuto,
sempre zero a zero, così provo a razionalizzare. Funziona per otto
minuti, poi Thiago Motta carezza con la mano il volto di Sergio Busquets
che si dimena come tarantolato. Le telecamere lo inquadrano mentre si
guarda attorno, interrompendo la sceneggiata - forse si salverà! - e noi
lo vediamo, ma l’arbitro no, il Var non esiste, esiste l’Inter e un
flusso di immagini vergognose, categoria Iuliano-Ronaldo-Ceccarelli
(regista Luciano Moggi): non possiamo che temere il peggio. In dieci, ma
si combatte. È appena una mezz’ora, rientriamo subito in apnea. La
magia, l’eccezione, è che funziona. Persino quando prendiamo il gol, e
manca poco, sembriamo sapere esattamente cosa facciamo. Così, la finale è
letteralmente una passeggiata, perché l’impresa è già stata vinta. Con
la paura si cresce. Senza paura, si fa la storia.
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