domenica 13 ottobre 2019

“Bang-italiese”: un linguaggio non per tutti




Da ragazzino, quando andavo a scuola, i miei temi d’italiano iniziavano sempre con “fin dai tempi antichi” o qualcosa che avesse attinenza agli stessi. La verità è che non avevo quasi mai nulla da dire e men che meno da esternare al mio professore/ssa che ritenevo lontani anni luce dal mio mondo adolescenziale e il mio modo di essere.
La scuola o la si ama fin da subito o la si vive come una sofferenza, specie se si classifica come una costrizione, una realtà che non offre stimoli e in cui non riponi nessuna stima nell’insegnante di riferimento (nello specifico di italiano e storia).
Un famoso detto siciliano recita “a squagghiata ra nivi si virinu i pirtusa”, un detto che tradotto letteralmente asserisce che “quando si scioglie la neve affiorano le buche”.
Nel mio caso, in tempi scolastici, raggiungevo facilmente la sufficienza solo nelle nelle materie scientifiche, laddove non era fondamentale cioè studiare facendo i compiti assegnati per casa; nel caso era, infatti, sufficiente assistere alla lezione del professore e a qualche interrogazione dei compagni per assimilare concetti e regole. La matematica, al riguardo, costituiva il mio punto di forza.
Casualmente accadde però di scoprire la lettura, per scelta. Il primo romanzo che ebbi modo di leggere seriamente è stato “il ritratto di Dorian Gray”, il capolavoro di Oscar Wilde. Mi fu proposto mentre frequentavo gli ultimi anni della scuola  superiore e da allora rimasi per lungo tempo abbonato al neo costituito “Club degli editori”.
Come detto, la scelta affiorava dalla mia libertà di decidere, impegnandomi in un’attività culturale libera e voluta. La lettura, prima l’avevo vissuta come una sofferenza, collegata a costrizioni didattiche, a una decisione di altri, pertanto da parte mia non c’era mai stata alcuna applicazione a voler capire veramente le opere della letteratura italiana e le discipline ad essa collegate. Tali materie mi apparivano aride e noiose, essenzialmente, perché mi venivano imposte.
Ad ogni modo si arriva infine alla maturità (scolastica per intenderci) e, come dice il detto posto a cappello, affrontando il mondo del lavoro, affiorarono a poco a poco tutte le varie pecche.
Ma l’esperienza insegna che c’è sempre il tempo per cercare di recuperare, magari arrivando in ritardo e occludendo alla “meno peggio” le buche generate dal mancato apprendimento scolastico.
I variegati percorsi lavorativi diventano quindi momenti doppiamente formativi e impari a leggere e a scrivere con cognizione. Recuperi a grandi passi, affronti colline e montagne sempre più grandi, scoprendoti uno scalatore appassionato anche di cime innevate, di quelle vette dove l’aria è rarefatta e occorre dosare al meglio il poco ossigeno prezioso.
In questo, capita pure di imbattersi a dover scrivere secondo un linguaggio codificato, magari forbito e ricercato, ma che ben presto scopri, quasi sempre, ripetitivo (molto frequentemente basato su testi rituali o affastellati con frasi assemblate e quasi sempre estrapolate da dei “precedenti” che, religiosamente raccolti  in ricche copie, venivano da ciascuno custodite come un tesoro nel proprio cassetto; come fossero dei “manuali tipo”, con tracce da modellare secondo ciascuna esigenza).
Il mio ultimo mondo lavorativo è stato questo e le mie tante esperienze mi hanno consentito di focalizzare a pieno i pregi e le debolezze dello strumentario epistolare che avevo in dotazione.
Recentissime vicissitudini conflittuali, oggi, mi hanno portato a costatare quanto, col passare degli anni, si sia cristallizzato lo strumentario comunicativo e lo scritto di quell’ambiente che da tempo ho abbandonato.
Permane, infatti, ancora forbito il linguaggio epistolare, ma anche eccessivamente verboso e l’uso di terminologie periodali, poi, alimentano loop discorsivi, i quali spesso immobilizzano nel cammino verso la faticosa ricerca di una efficace conclusione, restano in pratica solo fini a se stessi.
Il “bang-italiese” del mio tempo ora mi appare inadeguato e attempato e dimostra come si avvii a divenire pretestuoso e sempre più inconcludente. Basato su frasi ambivalenti, alimentano spesso ambiguità che rendono difficoltolo poter capire, per chi legge, la sintesi della eventuale missiva.
Un uso prolifico di frasi e affermazioni - che si basano su ovvietà o riferimenti non sempre esaustivi o appropriati - non riescono più a esprimere alcuna certezza o chiarezza nei concetti espressi, bensì evidenziano quell’autoreferenzialità persistente che è rimasta insita nei modelli standardizzati, consolidati da un immobilismo “barocco”.
Il venir meno dell’efficacia di fondamentali ruoli istituzionali hanno, forse, anche influito nell’accelerare il fenomeno della "fuga di cervelli", di certo il mancato ricambio, il depauperamento delle menti critiche o l’emarginazione e la messa in ombra delle poche ancora esistenti/resistenti nella struttura, che avrebbero forse potuto aiutare in una possibile inversione di tendenza, ha fatto il resto.
Nell’assistere di recente a un dibattimento giudiziario cui sono coinvolto ho avuto nel merito un’ulteriore conferma. 
In una discussione avuta qualche tempo fa, con qualcuno che è più esperto in materie comunicative, mi è stato fatto osservare che "il problema del linguaggio è importante, è da inserire in un contesto in cui emerge la necessità di una nuova strategia comunicativa in un mondo che anche da questo punto di vista è radicalmente cambiato."
In verità, nel mio caso, sarebbe stata sufficiente l’evanescenza rilevata nella lettura di quanto risultava depositato negli esorbitanti documenti prodotti a difesa, ma il dibattimento preliminare, se ce ne fosse stato pure bisogno, ha dato una conferma del quadro di decadenza qualitativa, sia delle strutture interne di base che del funzionario chiamato fisicamente a intervenire all'udienza, che continuava a operare ancor oggi seguendo vecchi schemi operativi per quella che è stata una "istituzione di alto prestigio".
E' acclarato non solo, quindi, che il “bang-italiese” resiste, ma che ormai domina e prospera senza confini, in un’autoreferenzialità quasi patetica, incomprensibile, infinita, decadente.

 © Essec


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