sabato 16 novembre 2019

“La regola dell’equilibrio” un romanzo di Gianrico Carofiglio


Ho appena finito di leggere il libro dal titolo “La regola dell’equilibrio” di Gianrico Carofiglio. E’ uno di quei romanzi in cui il suo soggetto preferito come protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri, si districa in problematiche giudiziarie, evidenziando peculiarità di quel mondo complesso e spesso nebuloso.
Questo romanzo, anche a detta di molti critici e lettori, contiene in diverse parti dei tecnicismi specifici che non rendono facile la lettura per chi non è addetto ai lavori ma, isolando per un po’ questi aspetti o, per meglio dire, ridimensionando l’enucleazione di prassi/cavilli in uso nei procedimenti giudiziari, evidenzia l’enorme complessità che caratterizza quell’universo e l’italiano in particolare.
Le vicende narrate e le differenti angolature con le quali si può avviare qualunque procedimento in contenzioso, investigativo, di accusa, di difesa, giudicante, fanno emergere come sia alquanto complicata e variegata l’intera materia.
Il racconto, senza voler anticipare nulla sul finale, narra di un magistrato che diviene oggetto di un’indagine giudiziaria e che si affida per la sua difesa a quello che lui reputa il più integerrimo e valido legale presente nella piazza di Bari, che peraltro è anche stato suo collega nel corso di laurea in legge conseguita nel locale ateneo.
Quindi, il caso, per i tempi che corrono, si rivela abbastanza attuale e le dinamiche che via via si vanno a sviluppare non sono da meno.
Capita spesso che, nel leggere un romanzo, il lettore possa intravedere a distanza un percorso parallelo. Talvolta, cioè, quello che stai leggendo si accosta in maniera assai curiosa ad avvenimenti che hai tu stesso vissuto o che stai, magari con qualche debita variante, vivendo in quello stesso momento. Le considerazioni che possono nascere in questi casi risultano per chi legge, quindi, intriganti e molteplici.
Partirei col dire già che in vicende legali è sempre fondamentale saper scegliere un buon legale, anche se ciò non basta.
Il professionista prescelto oltre a dover essere di fiducia deve anche essere preparato, scaltro, duttile e propenso a capire a volo le tante variabili che possono in ogni momento imprevedibilmente mutare, cambiando di colpo la staticità originaria della problematica di base; in più - e non in ultimo - deve anche avere una buona capacità comunicativa verso l'assistito, coinvolgendolo opportunamente nel saperlo indirizzare a scegliere il meglio per ogni decisione.
Al di là dell’eventuale fase dibattimentale, un buon avvocato deve cioè saper approfondire – con l’aiuto del suo assistito e con la capacità di analisi asettica che il ruolo impone – la questione da gestire. In più, oltre a trovare il bandolo principale che gli possa consentire di svolgere la matassa, deve anche saper ben fotografare l’apparato difensivo messo in piedi dalla controparte.
Inoltre, escludendo possibili incompetenze o incomprensioni sul nocciolo della materia in esame, è compito di un buon legale quello di focalizzare con immediatezza gli aspetti centrali della vicenda e andare a valutare i possibili risvolti che eventuali azioni da intraprendere possano ulteriormente innescare.
A questo punto possono insorgere accadimenti come quelli narrati nel romanzo ovvero: chi ci assicura che il legale scelto tuteli veramente i tuoi interessi? Oppure, nel caso in cui il professionista valuti la questione inadeguata al suo livello, può capitare che la negligenza e la superficialità applicata possa determinare un “vulnus” che vada a pregiudicare possibili azioni future?
Nel caso di problematiche deontologiche, per esempio, avviare un’azione in cui si affermino presupposti che possano poi essere impugnate contro la stessa parte offesa, contro cioè chi intenta la causa, costituisce certamente un errore alquanto plateale, ma, anche in questi casi può sorgere il dubbio, ovverossia: quanto ciò può solo imputarsi al caso? Del resto, anche in ambito calcistico è una costante il fatto che tutti gli “autogol”, seppur involontari, restano dei tiri imparabili e spesso sono decisivi nell’esito del finale di una partita.
Esperienze passate mi hanno insegnato che quando si analizza una questione, qualunque essa sia e a prescindere della complessità della stessa, occorre avviare una disamina asettica e autonoma, senza che sussistano pregiudizi e procedere studiando il caso per l’unicità che esso rappresenta, a prescindere anche dagli eventuali punti di comunanza con casistiche similari. Ne deriva che per ogni questione è necessario un percorso originale e, comunque, a sè stante.
Il mondo della giustizia, come efficacemente racconta Carofiglio nel suo romanzo è affollato da una fauna promiscua e non sempre sono immediatamente distinguibili le specie e le "razze" che si districano nelle aule giudiziarie. 
In un precedente scritto in cui mettevo in luce le anomalie dei soggetti come i giudici Falcone e Borsellino, assurti a eroi post mortem, avevo già illustrato il panorama giurisdizionale palermitano e grossomodo, a tutt’oggi, sembra che non sia cambiato molto. E, in questo, non credo neanche che il fenomeno vada a costituire un caso isolato rispetto al panorama nazionale.
Del resto, quando si approccia a intentare una causa – e di qualunque genere – la prima cosa che ti dice qualsiasi legale è che, indipendentemente dalle frecce che si hanno in faretra, il risultato finale è sempre incerto. Dipende dall’abilità dei legali coinvolti, dalle “conoscenze”, dalla validità degli elementi di prova e non ultimo e forse principalmente da chi sarà il “giudice” chiamato a dirimere e giudicare il caso.
Discorso a parte meriterebbero poi fattispecie di corruttela, più o meno velata, più o meno grave, più o meno accertabile.
In conclusione appare quindi discutibile la dizione che recita “la legge è uguale per tutti” apposta nelle aule dei tribunali, forse, nel caso,  apparirebbe più realistico il titolo di un altro libro, scritto in questo caso dal siciliano Pif , ovvero “futti futti cà Dio perdona a tutti”.
Nella quarta di copertina del romanzo di Gianrico Carofiglio si legge: “Quando chiudemmo il verbale e l’udienza, lo spiacevole sentore della parola calunnia aleggiava sul procedimento. Tutti sapevamo che in qualche modo sarebbe rimasto lì, e tutti sapevamo che la procura avrebbe dovuto trovare qualcosa di molto solido, se non voleva che quel fascicolo finisse nella discarica delle archiviazioni o dei proscioglimenti”. 

© Essec


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