domenica 24 maggio 2020

Semplificare ad esempio con due soli termini: “non funziona”, senza soluzioni d'uscita, non può costituire un valore aggiunto.


Verrebbe da dire che gli esami non finiscono mai, come scrisse in una sua famosa commedia Eduardo De Filippo ed è vero.  Di certo però non voleva riferirsi alla figura fantozziana di chi, quasi a voler godere nel ruolo di succube insicuro, come autolesionista, si sottopone a esami frequenti, per subire l’ebrezza appunto dell’esame. In verità le prove di verifica sono in continuo divenire per tutti e ogni giorno, non ultimo anche per testare il collegamento col mondo. 
Supposti discenti e docenti vivono in un perenne stato di verifica. I primi per controllare oltre alla preparazione se un modo di mettere in pratica ed esporre le proprie tesi, talvolta anche irrituali, possa percorrere un filo logico, anche innovativo, i secondi per cercare di trasmettere dei principi che, in ogni caso, non saranno mai per nessuno dei veri e propri dogmi. 
Anche perché i docenti non devono mai perdere di vista i presupposti principali e che sono insiti in un maestro. Quell'umiltà del sapere sempre ascoltare e, con mente aperta, tutte le teorie proposte, fossero anche sbagliate. L'umiltà del resto deve viaggiare sempre in un binario a doppio senso fra esaminato e esaminante e in tutti i casi che prevedono un leale incontro.
Si nasconde sempre nelle piccole differenze il valore aggiunto che costituisce il risultato utile di ogni confronto. 
Del resto le regole d’ingaggio, in questo gioco tra "allievo" e "professore", sono abbastanza semplici perché, in ogni contraddittorio o esame, l’uno - che definiamo discente - espone una sua versione, l’altro la accetta nell'ascolto e eventualmente la controbatte dopo una verifica, argomentando a sua volta con le sue impressioni.
In un incontro dialettico non ci sono mai, ne devono alla fine uscire dei vincitori e vinti. Nel triste caso sarebbe una reiterazione infinita dell’ormai saturo dramma del personaggio mitico di Villaggio. Inoltre, un rapporto squilibrato di questo tipo avrebbe delle caratteristiche che si accosterebbero solo al patologico. 
In ogni caso discenti e docenti si affollano in un panorama variegato. E si distinguono anche per le diverse personalità, peculiarità, sensibilità e indole caratteriali.
Senza voler esagerare nel voler stressare l'argomento e conscio che il troppo in certi casi stroppia, può capitare che un apparente errore, la distonia, un’eventuale stecca, possa non rappresentare sempre un elemento dislettico, che veramente vada ad inficiare il senso di un discorso. 
Il grammelot di Dario Fo (gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è in grado di trasmettere, con l'apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto) potrebbe al riguardo rappresentare un buon esempio. Nel caso, infatti, non avrebbe senso giudicare i termini grammaticali di un testo che è inesistente, in un pronunciamento che vuole solo indurre a significati senza l’uso di vere parole.
Per rendere ancora più pratico con un altro esempio il concetto, questa volta anedottico, ricordo che un insegnante a scuola, quando notava che durante la spiegazione la classe era distratta, come fosse un folle e senza alcun preavviso, alzava il tono della voce, con un urlo baritonale come se fossimo al Teatro della Scala. Era un metodo infallibile per richiamare tutti all’attenzione, come fosse uno schiaffo metaforico e univoco che arrivava immediato agli allievi distratti.
Tutti questi panegirici vorrebbero solo dire che le metodologie seriali che sanno di ripetitivo, a lungo andare, possono anche risultare dei rituali insipidi e monotoni. Scritture, musiche, modi di essere sempre ordinati e conformi sono state le routine predilette, ma è pure stato dimostrato che delle violazioni alla regola possono anche coesistere nei passaggi articolati e più complessi. 
Cacofonie che in genere apparentemente stridono, alle volte creano musicalità diverse o un qualche cosa che sa d'innovativo, che magari potrà risultare anche ilare, ma può immettere salubri ricambi nell'aria. 
Tutto in fondo dipende da qual’è l’intento che si vuol raggiungere. Nelle chiese la messa cantata si è accostata sempre a un rituale tipico e pomposo, poi con l’avvento del rock fu tutta un’altra storia.
Veniamo ora alla questione. 
La raccolta di foto indicata in copertina costituisce lo spunto della disquisizione accademica fin qui esposta ed è anche un portfolio recentemente presentato in una lettura in rete. 
Per quanto ovvio, ciò che si vuol dire non intende essere un argomentare inconcludente, mirato a voler esporre teorie inutili, come si fa spesso arzigogolando, nel disperato tentativo di avvitarsi per poter sempre cadere in piedi. A mio modo di vedere, invece, potrebbe anche alimentare possibili dibattiti costruttivi, per discutere sui diversi termini - complessi e spesso aleatori - che rendono particolare e difficile la pratica fotografica in questione (sia per l'aspetto compositivo riguardante il fotografo proponente che per la didattica valutativa del lettore di turno). Il tutto, per quanto ovvio, nell’ambito ampio e sempre personale delle opinioni che caratterizzano ogni lettura di portfolio fotografico che, come noto, rimane sempre differente in funzione delle specificità dei due protagonisti direttamente interessati.
Senza portarla troppo per le lunghe vado alla sostanza e indico ad esempio gli elementi critici rilevati in questo portfolio, per focalizzare aspetti frequenti che potrebbero indurre a meglio disciplinare e indirizzare, uniformandolo il più possibile, l'iter formale delle letture.
Nel quadro riassuntivo delle foto, quindi, la scelta della seconda immagine intendeva costituire volutamente una rottura rispetto al prosieguo di un racconto che si sviluppava in una facile lettura. 
Nell’introduzione del lavoro, con la prima foto, si voleva significare lo stordimento del mattino, frutto della costrizione e di un sonno instabile, mentre con la seconda foto si intendeva rappresentare lo specchio della sola realtà accessibile. Tutte le restanti immagini andavano a documentare, poi, le inibizioni e le panoramiche visive accessibili, uniche e fatte di luoghi tutti privi peraltro di presenze umane. 
Una sintesi di un vivere soli con se stessi e con la compagnia virtuale di una televisione accesa quasi h 24, come l'unica alternativa reale protrattasi per oltre due mesi. 
L'appunto che in verità fu sollevato da entrambi i lettori scelti, riguardo alla seconda foto - che apertamente stonava nel flusso narrativo - avrebbe dovuto innescare la domanda, come in un caso è successo, quella cioè di chiedere semplicemente il perché. 
Al lettore andava poi il compito di ascoltare la risposta fornita, che sarebbe dovuta servire a valutare la tesi addotta per giustificare quel punto d'intoppo o il motivo dell'evidente distonia creata. Verificata, infine, la possibile coerenza col complesso dell'intero progetto, si poteva anche bocciare l’operazione (e del resto ci sarebbe stato anche il rifiuto della giustificazione addotta, perché questo fa parte delle regole del gioco e in ogni caso l'errore/i eventualmente riscontrato/i, restano sempre da segnalare e da correggere nel corso di ogni incontro). 
Nell'utilità del processo di una lettura di portfolio la prassi anzidetta costituisce o dovrebbe essere l'unica strada formalmente percorribile. Sempre nel rispetto dei ruoli e secondo l'intento ludico-culturale che il tutto alimenta.
Semplificare ad esempio con due soli termini: “non funziona”, senza soluzioni d'uscita, non può mai costituire un valore aggiunto in un'operazione del genere. Nel caso si passa avanti, eliminando dalla lettura l'elemento che stona o suggerendo un rivoluzionamento completo dell'intero schema. Ci sta anche che ciascuno, pur prendendo atto delle legittime osservazioni, possa rimanere nelle proprie idee, convinto delle sue opinioni, ma non crollerà mai il mondo, perchè il mondo è bello e rimane tale perché è vario, con annessi e connessi. 
In occasione delle recenti letture di portfolio, Silvano Bicocchi, responsabile del Dipartimento FIAF - Cultura, ha anche attenzionato sul fatto cheleggere il portfolio non è giudicare. Questa è la prima cosa che dico, perché nell’immaginario collettivo soprattutto nel nostro ambiente si teme sempre il giudizio". Inoltre, "noi quando parliamo di lettura parliamo di andare a comprendere qual'è il significato dell’opera che ogni autore ha voluto rappresentare.” Infine, "quando hai realizzato un’opera e che ti è piaciuta, devi porti il problema: è comprensibile, è efficace nella comunicazione, cosa posso fare per renderla più fruibile?”. Tutte queste considerazioni, riassumono in pochi punti quello che è in fondo il nocciolo di tutte le questioni.
Per chiudere, per i curiosi, vengo a spiegare anche ciò che s'intendeva dire con la seconda fotografia, quella che interrompeva il flusso discorsivo, che racchiudeva in sè - nelle intenzioni almeno - il senso di voler figurare il desiderio di fuggire dalla clausura indotta. Il fiore esagerato in primo piano voleva esprimere questo - magari in un modo forse troppo eclatante - il forte desiderio cioè di libertà, che poi non avrebbe trovato possibilità di sfogo. 
Come spesso succede in fotografia e non solo in quest'ambito, l'autore vuole dire un qualcosa con la sua scrittura. Chi osserva, come lettore, non lo vede e va a leggere a modo proprio, con un suo lessico, magari addivenendo a un risultato differente. 
In tutte le letture di portfolio il rapporto è di uno a uno, ma per ogni specifico incontro, perchè diversamente da chi genera un'opera - che rimane sempre lo stesso in ciascun confronto - sono tanti i lettori che si alternano nell'esprimere interpretazioni personali, spesso pure differenti. 
Finisce allora che, anche se la dottrina è unica, le verità narrate dai tanti osservatori saranno pure tante. Il che rievoca l'opera di Pirandello che, in "Così è se vi pare", sostanzialmente ci dice che la realtà viene percepita da ciascuno in modo diverso, generando così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità. Ogni persona ha un proprio modo di vedere la realtà, non esiste un’unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono le persone che credono di possederla e dunque ognuno ha una propria “verità”. E questo è!
Nel portfolio fotografico la grammatica, la sintassi e quant'altro ancora, sono gli strumenti scelti per la narrazione e in ogni caso riguardano un'altro campo.

Buona luce a tutti!

 © Essec


2 commenti:

  1. "La verità è un uccello che non canta"dice il poeta greco K. Athanasulis; l'arte della fotografia, specie quella in bianco e nero , è quella che , a mio avviso, può significare e rendere al meglio il messaggio ambiguo, ma inequivocabile di questi versi. Buon Pomeriggio Jolanda

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    1. Può anche darsi, ma di certo ed è risaputo che la verità non sarà mai a nostra portata!

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