mercoledì 24 giugno 2020

Qualcuno, diffidente, chiese intanto se eravamo per caso quelli dell’acqua



Ogni tanto capita che di punto in bianco l’amico Raffaele mi chiama per informarmi che sta andando a fare una sua supervisione perlustrativa a un luogo cittadino che regolarmente a me appare sconosciuto.
Architetto atipico, Raffaele è un appassionato di storia dell’arte, e in genere gli bastano pochi indizi per individuare un sito antico che, quasi sempre, oggi risulta inglobato in un miscuglio di edificazioni succedutesi nel tempo, lasciando intravedere però substrati e tracce che a lui risultano chiare.
Questa volta l’indizio era costituito da un muro situato nel centro storico e che in piccoli dettagli evidenziavano una manifattura databile intorno al millecento: periodo arabo-normanno, per intenderci.
La settimana prima, in compagnia di un suo amico, lui era già andato in avanscoperta e due signore del luogo che lo avevano ben accolto gli avevano fissato un appuntamento per oggi alle 10,30 per poter accedere al giardino retrostante di proprietà della Regione Siciliana. 
Con noi c’era il comune amico Ruggero e io partecipavo alla spedizione per fare delle fotografie al manufatto e cogliere, sotto le indicazioni dell’esperto architetto, i particolari necessari per poter procedere agli approfondimenti bibliografici del caso.
All’ora stabilita, con nostra sorpresa, però nessuno era presente in quel piccolo baglio che costituiva luogo d’appuntamento. 
Come si usa dire dalle nostre parti, finestre e porte erano “attangate” e non lasciavano trapelare presenze umane all’interno delle casupole. 
Noi, esperti del territorio, eravamo anche certi che qualcuno ci stesse ascoltando e controllasse pure ogni nostra mossa.
Non succedeva proprio nulla, nell'apparenza deserto assoluto, se non che un soggetto passasse noncurante ogni tanto in lontananza, lungo la strada principale, e lanciasse delle furtive viste a noi da lontano. Dopo qualche minuto i soggetti erano diventati due e discutevano apparentemente per questioni loro. Decidemmo di avvicinarli.
Dopo aver accennato su chi eravamo e parlato dell’appuntamento mancato, i due – assoluti conoscitori del territorio – indicarono con il rispettivo nome le due signore, il gruppetto quindi cominciò ad allargarsi e spuntarono infine pure le signore in questione. 
Dal nulla una diecina di indigeni cominciarono a disquisire sulla gestione urbanistica del posto e a chiederci lumi sulla nostra richiesta di fotografare un muro. Qualcuno, diffidente, chiese intanto se eravamo per caso quelli dell’acqua (ndr. funzionari dell’acquedotto cittadino), altri precisarono che i vari catenacci apposti erano a tutela degli abitanti, per evitare che estranei si potessero facilmente occultare negli ampi spazi liberi retrostanti.
In breve scoprimmo che l’accesso ai luoghi che ci interessavano erano completamente liberi e, come per incanto, lucchetti e catene che prima impedivano il passaggio erano ora scomparsi.
In una mezz’ora completammo il nostro sopralluogo, fotografammo tutti i particolari di cui avevamo bisogno e accertammo che effettivamente da alcuni scatti effettuati - secondo prospettive prima inaccessibili - davano prova di indizi certi sulle supposizioni pensate dell’amico Raffaele.
Contenti e soddisfatti ci allontanammo dal posto. 
Io, per come si erano svolti i fatti, andai però con il pensiero a quelle scene del film di “Amici miei”, in cui i protagonisti si spacciandosi per ingegneri, tecnici e quant’altro prospettavano abbattimenti e spropri e ristrutturazione dei luoghi.
Il sospetto che gli abitanti intervenuti non fossero rimasti pienamente convinti delle nostre buone intenzioni, basate su ricerche scientifiche per recuperare memorie di edifici di un tempo, ritengo che rimase.

 © Essec

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