Ogni
tanto capita che di punto in bianco l’amico Raffaele mi chiama per informarmi
che sta andando a fare una sua supervisione perlustrativa a un luogo cittadino che
regolarmente a me appare sconosciuto.
Architetto
atipico, Raffaele è un appassionato di storia dell’arte, e in genere gli
bastano pochi indizi per individuare un sito antico che, quasi sempre, oggi risulta
inglobato in un miscuglio di edificazioni succedutesi nel tempo, lasciando
intravedere però substrati e tracce che a lui risultano chiare.
Questa
volta l’indizio era costituito da un muro situato nel centro storico e che in
piccoli dettagli evidenziavano una manifattura databile intorno al millecento:
periodo arabo-normanno, per intenderci.
La
settimana prima, in compagnia di un suo amico, lui era già andato in avanscoperta e due signore del luogo che lo avevano ben accolto gli
avevano fissato un appuntamento per oggi alle 10,30 per poter accedere al
giardino retrostante di proprietà della Regione Siciliana.
Con noi c’era il
comune amico Ruggero e io partecipavo alla spedizione per fare delle fotografie al manufatto e
cogliere, sotto le indicazioni dell’esperto architetto, i particolari necessari per
poter procedere agli approfondimenti bibliografici del caso.
All’ora
stabilita, con nostra sorpresa, però nessuno era presente in quel piccolo baglio
che costituiva luogo d’appuntamento.
Come si usa dire dalle nostre parti,
finestre e porte erano “attangate” e non lasciavano trapelare presenze umane
all’interno delle casupole.
Noi, esperti del territorio, eravamo anche certi
che qualcuno ci stesse ascoltando e controllasse pure ogni nostra mossa.
Non
succedeva proprio nulla, nell'apparenza deserto assoluto, se non che un soggetto passasse noncurante ogni tanto in lontananza, lungo la strada
principale, e lanciasse delle furtive viste a noi da lontano. Dopo qualche minuto i
soggetti erano diventati due e discutevano apparentemente per questioni loro. Decidemmo di avvicinarli.
Dopo
aver accennato su chi eravamo e parlato dell’appuntamento mancato, i due – assoluti conoscitori del territorio –
indicarono con il rispettivo nome le due signore, il gruppetto quindi cominciò ad allargarsi e
spuntarono infine pure le signore in questione.
Dal nulla una diecina di indigeni
cominciarono a disquisire sulla gestione urbanistica del posto e a chiederci lumi sulla nostra richiesta di
fotografare un muro. Qualcuno, diffidente, chiese intanto se eravamo per caso
quelli dell’acqua (ndr. funzionari dell’acquedotto cittadino), altri
precisarono che i vari catenacci apposti erano a tutela degli abitanti, per evitare
che estranei si potessero facilmente occultare negli ampi spazi liberi retrostanti.
In
breve scoprimmo che l’accesso ai luoghi che ci interessavano
erano completamente liberi e, come per incanto, lucchetti e catene che prima
impedivano il passaggio erano ora scomparsi.
In una
mezz’ora completammo il nostro sopralluogo, fotografammo tutti i particolari di cui avevamo bisogno e
accertammo che effettivamente da alcuni scatti effettuati - secondo prospettive prima inaccessibili
- davano prova di indizi certi sulle supposizioni pensate dell’amico Raffaele.
Contenti
e soddisfatti ci allontanammo dal posto.
Io, per come si erano svolti i fatti,
andai però con il pensiero a quelle scene del film di “Amici miei”, in cui i
protagonisti si spacciandosi per ingegneri, tecnici e quant’altro prospettavano
abbattimenti e spropri e ristrutturazione dei luoghi.
Il
sospetto che gli abitanti intervenuti non fossero rimasti pienamente convinti delle nostre buone
intenzioni, basate su ricerche scientifiche per recuperare memorie di edifici di un tempo, ritengo che rimase.
© Essec
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