domenica 1 novembre 2020

"Ricordi? … c’era la festa dei morti" di Gaetano Martorana

Oggi Gaetano ha pubblicato su Il Siciliano dei ricordi della sua infanzia che, ai tempi di Halloween, possono forse apparire poco comprensibili ai più giovani, specie se lontani ad usi e tradizioni siciliane.

Per rendere comprensibile a tutti occorre, quindi, precisare che la tradizione che si tramandava era e rimane nelle realtà popolari quella che per la festa dei morti, i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti.

Un tempo era, infatti, d’obbligo comprare ai bambini anche la “Pupaccena” o “Pupa ri zuccaro“, una statuetta di zucchero colorato rappresentante solitamente ballerine, contadine con tamburelli, per le bambine e cavalli con rispettivo cavaliere o paladini per i maschietti, ora sostituite con personaggi di cartoni animati molto più appetibili per i nostri piccoli. Un’antica leggenda racconta che un nobile arabo invitò a cena alcuni ospiti e il suo cuoco, visto le ristrettezze economiche del suo padrone, creò, con lo zucchero, una  statuetta, che fu tanto apprezzata dai commensali,  da qui il nome  “Pupaccena” o “Pupi a Cena”.

La pupaccena trionfava al centro di un cesto pieno di mandorle, noci, melograni, castagne e fichi secchi, biscotti detti “Ossa ri muortu“, Tetù, Reginelle, Taralli dolci e la tipica Frutta Martorana fatta con pasta di mandorle dipinta, che le mamme o le nonne preparavano per i propri bambini.

Segue ora il bel racconto di Gaetano, che associa la tradizione popolare al destino di uno zio morto in guerra che non ha mai conosciuto, se non attraverso il racconto fattogli dai suoi familiari.

© Essec


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Ricordi? … c’era la festa dei morti di Gaetano Martorana

 


Quando ero piccolo accompagnavo mia madre al Cimitero a fare visita ai nostri morti, che poi non erano tanti. Seppellito nel suo paese c’era solo suo padre, ma lei aveva un altro morto caro, suo fratello, dichiarato disperso nella seconda guerra mondiale, si seppe che era deceduto. Mia madre conservava in una cassetta di legno, chiusa con un lucchetto, degli effetti personali che le avevano mandato dal fronte: delle piastrine identificative e delle carte nelle quali non so cosa vi fosse scritto. La mia curiosità di bambino si fermava nell’osservare quelle piastrine di alluminio, tenute insieme da un filo di spago scuro. Questo povero zio morto in guerra, era nato nel 1924.

Qualche anno fa, mia cugina, fece una serie di richieste al Ministero della Difesa ed ebbe questa risposta: «Il Soldato, che era effettivo al 55° Reggimento Fanteria, è deceduto in prigionia per bombardamento aereo il 10 maggio 1945 a Pirna, nei dintorni di Dresda, (ex Germania Est) e ivi fu sepolto nel cimitero comunale. La informo, inoltre, che nel 1991, una Delegazione di questo Commissariato Generale si recò nel citato Cimitero per esumare i Resti mortali dei Militari italiani colà sepolti, ma, a causa della mancanza dei segni tombali, non riuscì a localizzarne le sepolture. Nella certezza di fare cosa gradita, le invio in allegato, copia di una foto dell’area cimiteriale dove sono sepolti Militari di varie nazionalità».

Ironia della sorte, mio zio è deceduto il 10 maggio 1945, in un conflitto finito già da tanto tempo, l’armistizio era stato firmato da Badoglio a Cassibile l’8 settembre 1943.

Alla povera nonna non dissero mai che suo figlio Nino fosse morto in Germania. Un soldato superstite, al ritorno da quell’inferno della prigionia lo fece sapere, per pietà umana, a mio nonno in forma ufficiosa della sorte che era toccata al figlio; quel nonno che andavo a trovare al cimitero con mia madre e che era morto con nel cuore con quel terribile segreto. Oggi mi auguro che non abbia mai sospettato che il suo figliolo, quello che chiamava u “picciriddu” fosse finito in una fredda fossa comune; dell’ospedale dove era stato ricoverato e deceduto.

Io da bambino, gioivo nel trovare anche il regalino che mi portava lo zio Nino, si! Regalino perché lo zio Nino era morto giovane, infatti i regali dei morti avevano una particolarità: i nonni, morti più anziani, portavano regali più importanti, le persone che morivano più giovani regalavano giocattoli meno costosi; in tutto questo tra me e mia madre c’era un segreto, la nonna non doveva sapere che c’era per me il regalino di zio Nino.

Tutti i morti erano “o monnu a virità”, cosi ci raccontavano e particolarmente mia nonna diceva così, perché i morti godono della visione di Dio e quindi sono pieni di verità, avendo lasciato la vanità a noi poveri mortali ospiti di questo mondo pieno di contraddizioni e falsità.

Quando diventai più grande ero io ad accompagnare i miei genitori per scegliere i regali che ricevevo dai “morti”, che intanto erano diventati più numerosi.

Uno dei ricordi più belli che ho, è l’avere trovato un cavallo a dondolo di cartapesta colorato molto bello. Dopo una serie di cavalcate-dondolate un giorno feci un capitombolo e mi spaccai un sopracciglio, provai un dolore che ancora oggi è vivo nel mio ricordo.

Oltre ai giocattoli era d’obbligo un cesto di dolci tipici, quali la frutta di Martorana e biscottini vari e la melagrana, frutto ben augurante di stagione, ma il pezzo più atteso era il classico “Pupu i zuccaru”, io chiedevo sempre che i morti mi portassero il paladino Orlando a cavallo perché nell’opera dei pupi era quello più coraggioso di tutti e difendeva i più deboli, e poi perché essendo a cavallo c’era più zucchero da sgranocchiare in inverno.

Un altro mio zio, il più piccolo dei fratelli di mia madre e poco più grande di me mi insegnò un trucchetto che mi piacque molto. Mi spiegò che avrei dovuto mangiare per prima la parte posteriore della statua che, essendo una colata di zucchero, era fatta con due stampi e poi saldata, la parte anteriore era quella più visivamente interessante perché dipinta nei vari colori che formavano il personaggio; la parte posteriore invece, era bianca e liscia. Allora si doveva iniziare dalla parte posteriore, rompendone piccoli pezzetti finché reggesse la base, poi quando cominciava a sbilanciarsi verso la parte posteriore si metteva per sostegno un cucchiaio di legno, in questo modo essendo la facciata in piedi sembrava che “Il pupo” fosse intatto.

Il trucchetto veniva svelato a Natale quando qualcuno dopo il pranzo diceva: “Allura ni l’amu a manciari u pupu?”. Mia madre prendeva il pupo, e facendo finta di stupirsi diceva guardandomi, tra il divertito e un finto severo, la classica battuta: “U succiteddu si manciò tuttu u rarrieri”, a quel punto una risata concludeva il finto stupore.

Oggi queste piccole cose non succedono più e restano solo nella memoria di che ha una certa età.

Mi piaceva quel tempo perché eravamo pieni d’amore per le tradizioni e il rispetto per la morte ci faceva festeggiare anche qualcosa che gli altri giorni dell’anno ci trasmettono solo tristezza.

31ottobre 2020 - ©  Gaetano Martorana


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