sabato 13 marzo 2021
Il mondo del teatro durante la pandemia da Covid-19 visto dal regista Gaetano Martorana e scritto sotto forma di dialogo.
«Ciao, come stai?».
«Bene, considerando che non posso darti neanche la mano, maledetta pandemia».
Oggi è cominciato cosi il discorso, mentre in fila aspetto per comprare il pane, perché per comprare il pane si vive un’avventura; incontri persone che non riconosci per via della mascherina, poi altri che pensi di conoscere e invece non sono quelli che pensavi fossero.
Il dialogo, tra me e il mio vecchio amico, continua, e la domanda quasi banale è quella che non ti aspetti da parte di uno che non ha mai guardato il festival, magari perché era in teatro o anche in prova per uno spettacolo.
«Allora – continua non guardandomi negli occhi – che ne pensi di questo Festival di Sanremo?». E ora che gli dico a questo, che da un anno non lavora, e meno male che sua moglie è impiegata e ha lavorato da casa in smart working, almeno possono fare la spesa? Non mi sarei aspettato di vederlo con il carrello in coda al supermercato in periodo di lockdown, dove ci incontravamo qualche volta, perché anch’io non sopportando di stare chiuso in casa, andavo a fare la spesa.
Lo guardo e mi sento uno stupido, rispondendo alla sua domanda con un’altra domanda:«E tu che ne pensi?».
Lui, come se aspirasse una sigaretta, si ferma un momento a guardarmi e poi comincia con il suo sfogatoio di attore in crisi d’astinenza da palcoscenico, il dolore per la mancanza delle tavole, delle luci penzolanti dalle americane, il cigolio del sipario che si apre… si legge tutto nei suoi occhi e nelle vibrazioni della sua voce: «Perché questo lo permettono e quell’altro no?» e altre citazioni di cose secondo lui pericolose, certamente condivisibili. Sono rammaricato perché purtroppo non ho risposte plausibili. Anch’io, sono arrabbiato, ho sospeso uno spettacolo che ha fatto la sua prima all’aperto, ma in seguito non potendo entrare nei teatri è rimasto lì negletto senza corpo avendo solo un’anima sofferente con il cuore sanguinante.
Mi sento sollevato quando mi dice: «E’ il mio turno, prendo il pane, vado mia moglie aspetta a casa».
Mi lascia solo, il suo dolore (che è pure il mio) non si attenua.
Viene il mio turno, prendo il pane, mentre la ragazza al banco mi allunga il pacco mi prude il naso. Che fare? Sposto la mascherina? Oppure soffro anche per questo in silenzio! Penso:«Tanto, arrivato in macchina me la tolgo».
Esco e vedo uno che ha la mascherina che gli copre solo la bocca, con un grande naso dantesco, somiglia molto a quello di Amadeus, e lo mette in bellavista, come un trofeo. Mi viene da ridere, penso un cartello che ho visto sui social che diceva: «Siete invitati ad indossare la mascherina, il naso va dentro altrimenti è come portare le mutande con il pisello di fuori». Sono tentato di dirglielo, ma lo supero ignorandolo e mi siedo in macchina, tolgo la mascherina e ripenso a Sanremo. Sono contento che all’Ariston quest’anno non c’è stato pubblico, ma non per gli artisti che si sono esibiti, ma per quelli che quest’anno, come diceva Fiorello non avrebbero fatto respirare le poltrone con il loro sedere, anzi come ha convinto ad Amadeus a dire: «culo».
Si, perché in effetti i «culi» che occupano quelle poltrone di velluto rosso, sono quelli delle persone che se lo possono permettere economicamente, non certo quelli che magari avrebbero il desiderio di stare in quel teatro almeno una volta nella vita. Ma come si fa a comprare il biglietto se poi si deve andare in due e soggiornare per cinque o sei giorni in albergo? Ci dorrebbe fare un mutuo. Meglio comprare la macchina a rate anziché soddisfare un piccolo desiderio che sarebbe solo un vanto da raccontare agli amici del bar o del circolo dove si va a passare il tempo.
Sono contento che finalmente quest’anno Gaetano e Maria Chiara Castelli hanno potuto realizzare una magnifica scenografia, piena di luci e colori e realizzare finalmente un progetto luci fantasmagorico. Io, per quel principio sopraesposto, lascerei il palcoscenico così grande, bello da vedere e comodo nelle scale che hanno aumentato di poco la pedata dei gradini, «Accussi chiddi chi scinninu un rischiano di stuccarisi u cuoddu – come avrebbe detto mia nonna». («Così, quelli che scendono rischiano di rompersi l’osso del collo, ndr»). E poi è più umano per i professori d’orchestra che restano inchiodati al loro posto per un tempo impossibile. Cinque, sei, sette ore…? Si persi u cuntu. («Si è perso il conto, ndr»).
Intanto, hanno provato la gioia dopo un anno, di tornare a lavorare, suonare e divertirsi per farci divertire; magari non tutti si sono divertiti perché c’è sempre chi resta insoddisfatto.
Intanto molti dicono di non averlo guardato, ma mediamente lo hanno visto 13/14 milioni di italiani, per alcuni sono solo ignoranti.
Intanto io spero che il Comitato tecnico-scientifico accetti la proposta del ministro Franceschini che ha chiesto che il 27 marzo, giornata mondiale del Teatro, si possa riaprire in sicurezza teatri e cinema, sempre con la mascherina, minimo chirurgica, e nelle regioni in zona gialla anche se c’è il vincolati dal coprifuoco alle 22. Certamente questo non è l’ideale ma è meglio di niente, cominciamo cosi sperando in un futuro di normalità; fermo restando il fatto che le due settimane prima si abbia una situazione epidemiologica favorevole. Ma la situazione favorevole dipende da noi, dobbiamo essere rispettosi delle regole e coerenti con la volontà di uscire da questa maledetta pandemia, e magari non andare in giro con il naso di fuori (pensando alle mutande). Spero soltanto che oltre ad aprire i teatri e i cinema, il governo preveda un aiuto economico per il sostegno alla cultura che consenta di poter ricominciare a lavorare, perché pensare di aprire teatri e cinema senza il minimo di utile su cui contare è come pensare di avviare un’automobile senza fornire il carburante.
© Gaetano Martorana
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