martedì 4 maggio 2021
“Buttare l’acqua sporca con il bambino”
Giancarlo Caselli in un suo editoriale, riguardante il groviglio di problemi scatenato dal dossier con copie dei documenti riferibili a cinque interrogatori dell’avvocato d’affari Amara chiude così: “Ecco perché, nonostante tutto, è ancora una fortuna che l’inchiesta sia svolta da magistrati indipendenti.” Nel suo intervento scritto diceva pure: “Ma per quanto riguarda Piercamillo Davigo una cosa almeno mi sembra di poter dire fin d’ora: non ha agito per qualche interesse personale o per uno scopo ictu oculi classificabile come riprovevole o riconducibile a una qualche architettura intenzionale. Se ha commesso un peccato, si è trattato di un peccato che si potrebbe definire di generosità. Nel senso che Davigo ha deciso autonomamente (a quanto pare “sul tamburo”, altro indizio di generosa disponibilità) di caricarsi addosso un fardello spinoso per non esporre più di tanto, lasciandolo solo, un collega che si sentiva in difficoltà.”
Durante dibattiti televisivi, autorevoli altri magistrati intrattenuti al riguardo hanno puntato l’attenzione soffermandosi principalmente su aspetti formali e prassi procedurali, mettendo quasi in secondo piano o nemmeno entrando minimamente nel merito della questione, sui fatti e i contenuti documentali, pur se - in ogni caso - da accertare circa l’attendibilità. Il tutto come se una prassi difforme da codicilli e norme avesse un aspetto superiore rispetto a dichiarazioni rese in fase inquisitoria che, forse e comunque a mio parere, avrebbero richiesto tempestività già per la gravità apparente.
Nel mio piccolo, nel lontano febbraio del 1990, era in corso nella mia istituzione un’ispezione interna, di quelle che tendono a verificare il rispetto delle normative. Accadeva mentre parallelamente ero stato, a mio parere, penalizzato dalla dirigenza presente nel luogo in cui operavo per un giudizio annuale (denominato “bollettino”) che mi precludeva ogni possibilità di avanzamento in grado nello scrutinio susseguente.
Ricordo che con un ricorso redatto di getto, chiesi udienza ai componenti del gruppo ispettivo per denunciare quel che ritenevo essere stati i torti subiti e le irregolarità procedurali attuate per addivenire a un giudizio per me penalizzante.
Così come citato per la vicenda Davigo, gli ispettori di quel tempo opposero resistenza a prendere in esame il mio documento. Sostenevano anche loro che la prassi imponeva un certo iter gerarchico e che loro non erano abilitati a sconvolgere le regole.
Obiettai dicendo che in quel momento loro rappresentavano l’istituto a tutto tondo e quindi non potevano, specie per la peculiarità dei compiti ispettivi assegnati, rifiutarsi di prendere in considerazione il mio documento.
Quella volta io fui fortunato, perché, dopo un lungo e vivace confronto, gli ispettori e il Capo del gruppo sostanzialmente, acconsentirono che io lasciassi il ricorso approntato solo per una consultazione.
Prima che la giornata finisse fui nuovamente convocato da loro, invitato a ritirare il documento per formularne uno nuovo, coinvolgendo nella stesura membri della dirigenza per due scopi. Il primo era quello di far rientrare nella prassi gerarchica (normalizzare) la mia istanza, il secondo (coinvolgendo pienamente, anche se in modo informale, la direzione del tempo) per creare i presupposti affinchè si agevolasse – anche con i giusti toni, smussando polemiche e accuse – una revisione del giudizio che era stato assegnato.
Una decisione salomonica, che trovai subito utile accettare, si era dimostrata di fatto la più intelligente delle risposte che avesse potuto adottare un gruppo ispettivo aperto, seppur operante in una istituzione rigida e ingessata.
Con questo mio aneddoto voglio palesare quanto sono molto più importanti i personaggi coinvolti in ogni questione burocratica, rispetto alle regole rigide che impongono aprioristicamente un unico e insostituibile protocollo.
Per i fatti che mi riguardarono, la revisione del giudizio comportò un aumento di tre punti nel “bollettino annuale”, la corresponsione di un premio che per il punteggio prima attribuito non mi era stato assegnato e la promozione al grado superiore avvenuta nell’anno successivo (così come mi era stato informalmente preannunciato da uno degli ispettori che aveva preso particolarmente a cuore la mia questione). Il Direttore coinvolto ebbe modo di ricredersi e capire certe mie ragioni inespresse; mi spostò, peraltro, subito d’ufficio e mi agevolò poi – essendo stato trasferito - nel raggiungimento professionale di quello era solo un sogno: quello che per me rappresentava un “Gotha” inarrivabile, ovvero l’ispettorato, non quello formale interno ma l’altro, quello ben più interessante che sorvegliava l’intero sistema nazionale di vigilanza.
Per quanto ovvio ed evidente, se non avessi agito fuori dagli schemi, in modo anomalo, tutto sarebbe rientrato nella routine ordinaria che – specie in realtà autoreferenziali, come in quella in cui ho lungamente operato – non avrebbe generato risultati così stravolgenti e a me favorevoli.
Altre vicende successive, accadute sempre nella stessa istituzione e per molti aspetti ben più gravi, non ebbero mai più esiti per me positivi. A dimostrazione che alla base di ogni questione occorre che vi siano, nell’interlocuzione e nell’inevitabile contraddittorio che si genera, almeno persone dotate di onestà interiore propria o abbiano in uso o per lo meno conoscenza di quello strano esercizio di giudizio che presuppone onestà intellettuale.
Tornando ai fatti di Piercamillo Davigo, ora sono tutti lì a sparare al bersaglio, nemici e amici conformisti forse un po’ talebani che, strumentalmente o in buona fede ha poca importanza, rischiano ancora una volta di “buttare l’acqua sporca con il bambino”.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
No no su Davigo non si puo'
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