domenica 13 giugno 2021

“In memoria di un amico morto con un secchio in mano” di Gaetano Martorana.



Ieri, 12 giugno, costituiva uno strano anniversario, di un fatto di cronaca nera accaduto tanti anni fa. Gaetano ha tirato fuori quell'accadimento dal sacco dove custodisce tanti ricordi di un'adolescenza comune, una triste storia questa volta. Mi ha, quindi, proposto di pubblicare questo pezzo che porta indietro le lancette del tempo e, che in qualche modo, rinverdisce la memoria di un amico comune che, per noi giovani, allora virgulti pischelli, era anche uno dei personaggi positivi a cui fare riferimento e che in una notte di cinquanta anni fa non ebbe fortuna.
© ESSEC

"DEDICATO AD UN AMICO CHE MI E’ RIMASTO NEL CUORE E CON IL QUALE PRENDEREI ANCORA IL CAFFÉ NEI MOMENTI LIBERI, COME AI VECCHI TEMPI"

“In memoria di un amico morto con un secchio in mano” di Gaetano Martorana.

Il 13 Giugno del 1971 si sarebbe votato per il rinnovo del Parlamento siciliano e alle forti tensioni e le contrapposizioni, che erano state feroci, tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, si aggiungevano nuovi soggetti che cercavano spazi e proponevano novità.
Il panorama politico, che vedeva affacciarsi altri partiti all’orizzonte siciliano, faceva sì che gli attori contrapposti in queste elezioni non erano i soliti due, come era stato nei suffragi precedenti e fin dal 1947.
Per la borgata di Acqua dei Corsari la vigilia elettorale fu un giorno nefasto. Di fronte alla scuola elementare Ignazio Castrogiovanni di Acqua dei Corsari – nella notte del venerdì, tra le 24,00 e le 0,15 – venne a consumarsi una tragedia inaspettata.
Michele Guaresi trovò la morte in modo assurdo per mano di un poliziotto. Due colpi in sequenza misero fine alla vita di un padre di quattro figli piccoli e di un quinto ancora in grembo della moglie. Per l’imprevedibilità del destino, il nuovo nacque orfano e il rapporto con il padre fu tramite una sua fotografia e il racconto di amici suoi e della mamma.
La beretta che esplose i colpi, freddò oltre che un padre di famiglia, un attivista del PRI che, in quella calda estate di 50 anni fa, aveva finito di attaccare l’ultimo manifesto.
La guerra degli attivisti, in quegli anni, era spietata per conquistare l’ultimo spazio per attaccare l’ultimo manifesto. A chi faceva campagna elettorale questo gesto dava l’ingenua impressione che nelle tre sezioni della scuola di via Ammiraglio Cristodulo, si potessero vincere le elezioni così. E per questo la guerra tra gli attivi galoppini delle varie fazioni era senza esclusioni di colpi.
Per attaccare i loro manifesti si organizzavano con secchi, pennelli e colla, confezionata all’ultimo minuto con la farina e alle 23,30 e si partiva, secchio in una mano e manifesti sottobraccio. In quel tempo ancora non esistevano regole articolate per attaccare i manifesti elettorali, se non la distanza di duecento metri dai seggi.
Spesso succedeva, specialmente l’ultima notte, che si attaccavano i manifesti sulla colla di chi li aveva appesi prima, attaccandoli con le mani e con un solo colpo di pennello ed era già bello e attaccato, cosi facendo si impiegava metà tempo e si risparmiava la colla. Poi a mezzanotte scadeva il tempo utile e tutti lì davanti al bar a commentare e sfottersi; e quando finiva lo sfottimento si scioglieva il gruppo e si andava a tutti dormire.
Allora i partiti erano un’altra cosa e gli schieramenti avevano confini ideologici più marcati, ma il venerdì sera era una gara d’abilità. Chi avrebbe attaccato l’ultimo manifesto sarebbe stato il vintore della sua parte del torneo, che avrebbe avuto l’epilogo il lunedì pomeriggio. Quelli che erano stati armati di colla e pennello, erano pure gli stessi che si riarmavano di carta e penna per prendere i risultati dello scrutinio, per comunicali dall’unico telefono a gettoni presente nell’ingresso della scuola, ai rispettivi comitati elettorali.
In quel periodo in quella periferia, feudo incontrastato della Democrazia Cristiana, lontana dal centro della città, senza servizi, dove l’unico lusso che avevano i “Corsaloti” erano la scuola elementare e la chiesa: a quel tempo tutto era più difficile!
In questa piccola comunità agricola, alla fine degli anni sessanta si era però creato un nuovo fermento, gli operai avevano preso coscienza della durezza del loro lavoro e così ora desideravano che i loro figli, dopo la quinta elementare, continuassero ad andare a scuola. Si, perché la scuola media per i nati nel dopoguerra era stata una conquista, un riscatto un modo per evolversi, per cambiare vita uscendo dallo stato sociale in cui erano relegati la maggior parte degli abitanti di questa estrema periferia sud fastidiosa della città, piena di braccia da sfruttare, che non aveva una scuola media.
Molti di quei ragazzi che, si erano portati in città per frequentare la scuola media, timidamente dopo, si sarebbero anche proiettati verso la scuola superiore sperando di diventare ragionieri o geometri. Queste frequenze di scuole superiori avevano anche fatto nascere nei giovani del luogo le prime convinzioni politiche autodeterminate, che si discostavano da quelle che i poveri galoppini, quasi con bonario consiglio segnalavano alle famiglie più povere di borgata. Senza spiegare ne perché o per come avrebbero dovuto votate il Tizio o il Caio che veniva amorevolmente “imposto” dicendo: “Io u canusciu è un bravu cristianu, e si avemu bisognu ri qualchi cosa nnu truvamu”.
Il mettere insieme il falso plurale nell’utilizzo del “noi” accendeva, nella fantasia dei buoni. In pochi erano mai usciti dalla borgata, e solo i maschi, magari solo per andare fuori per il servizio militare a servire la patria. Molti erano portati a pensare alla possibilità che “criscennu me figghiu macari ci po’ pinzari chistiu chi staiu vutannu”, allora per amore, speranza o timore applicano la regola del: “calati juncu ca passa la china”, tanto dobbiamo andare a votare lo stesso e per questo un candidato vale l’altro.
Al povero Michele questo non piaceva e come i giovani guardava ad un futuro per i suoi figli migliore di quello che aveva vissuto lui.
Michele era un grande lavoratore, sempre in giro a ricercare modi onesti di guadagno per fare il bene della sua famiglia. Non gli piaceva però la sudditanza politica e l’occasione gliela avevano procurata i suoi amici più giovani, quelli che incontrava spesso al bar, quelle volte che restava in zona non costretto dal lavoro in trasferta.
Era stato contaminato dal fermento che serpeggiava tra i ragazzi e assieme ai giovani studenti sperava nel cambiamento, ad un’equità sociale maggiore.
Per questo s’impegnava e sperava. Per lui, i suoi amici e pure i suoi figli, che pur erano ancora piccoli, sperava una vita migliore della sua, affinché tutti potessero avere quello che lui non aveva potuto avere.
La campagna elettorale del 1971 alle regionali, come aveva già fatto l’anno prima per le comunali, lo aveva visto impegnato fino allo sfinimento.
Quella maledetta notte, con grande generosità aveva faticato in modo instancabile e aveva mandato via tutti dicendo che gli ultimi manifesti li avrebbe affissi lui. Avevano già quasi finito e si stavano dirigendo tutti verso casa, quando il lampeggiante della gazzella lo mise in allarme, e d’istinto era scappato. Il giovane poliziotto, da poco non più allievo e sprovveduto, era intanto sceso dalla macchina con l’arma in pugno per inseguire lui ed altri fuggitivi diventati presto ombre in un buio pesto.
Il milite si aggirò d’intorno fino a cogliere il povero Michele rannicchiato in mezzo all’erba alta di una timpa di terra più alta della strada. La paura colse entrambi impreparati all’emozione e la tragedia diventò, si scatenò in un attimo. Dopo quei due colpi di pistola che ruppero il silenzio della notte. E in quel preciso momento la storia di cinque bambini e una donna cambiò radicalmente. Il futuro di un intero nucleo familiare fu decapitato, il capofamiglia reciso e una tempesta si abbatté su quelle piccole persone innocenti e ignare, figli di un padre che sognava un futuro migliore, bello, che si era fermato sul nascere. In un attimo la storia della sua famiglia fu malamente riscritta.
Oggi a cinquanta anni dall’evento luttuoso, sempre di più sembra che in quella notte il suo sacrificio fu assurdo, legato al caso e inutile.
Se quel giovane poliziotto avesse mantenuto l’emozione e lo avesse identificato, invece di sparargli per paura, gli avrebbe potuto appioppare una infrazione amministrativa e forse una multa di cinquantamila lire, che magari non avrebbe neanche pagato il povero Michele ma qualcun altro per lui, il partito dei suoi manifesti probabilmente.
Oggi comunque potrebbe essere un piccolo riconoscimento a monito, mettere una lapide in ricordo del luttuoso e nefasto evento, che arrecò la morte a Michele e cambiò irreversibilmente anche la vita di tante persone.
Noi auspichiamo che ciò possa avvenire e che una testimonianza materiale possa essere apposta in quel famigerato luogo periferico di borgata, dimenticato nei ricordi.
Palermo 12 06 2021"
© Gaetano Martorana

3 commenti:

  1. L'amico Pietro Calabrese mi ha trasmesso in privato questo bel commento che, previo suo assenso, mi piace riportare a corredo del racconto.
    "Storia triste scritta con il sangue di un poveraccio che aveva accettato qualche centinaia di lire per portare a casa qualcosa da mangiare. Così pure l'altro poveraccio aveva rinunciato a impugnare la zappa e aveva accettato la pistola come strumento del suo lavoro senza magari capire quale danno poteva provocare usando l'arma."
    Era tipico di quei tempi che in una famiglia alcuni uomini continuassero a fare i contadini e altri si arruolavano nell'Arma dei Carabinieri, nella Polizia di Stato o nella Guardia di Finanza.
    Virtualmente i due poveracci sono due fratelli."

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  2. Ricordo bene quella serata e la notte nefasta! Eravamo al bigliardo, vicini, quando arrivò la notizia dell'evento tragico, imprevedibile, inutile che ha distrutto una famiglia e tante amicizie!

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  3. Avevo 13 anni ma il ricordo è indelebile. Michele era una persona vicina ai ragazzi ed era solito nonostante la differenza d'età soffermarsi a scambiare due parole con lui. R.i.p. Michele

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