giovedì 26 agosto 2021

Ernesto Bazan – Un fotografo asceta



Molti di noi possono raccontare di accadimenti nella vita che apparentemente non trovano una spiegazione logica, come premonitori di fatti o vere e proprie combinazioni irrazionali.
Sono spesso cose che lasciano interdetti e che portano a prefigurare disegni e destini ispirati a scopi che travalicano il nostro raziocinio.
Poi hai modo di incontrare personaggi che in qualche modo testimoniano quanto di trascendente e inspiegabile può succedere nel quotidiano, con strani intrecci che sembrano guidati da ciò che comunemente siamo portati a chiamare fato.
Tutto ciò porterebbe a dire che nella vita non tutto è frutto o è una lasciato al caso. Ciascuno di noi troverà proprie spiegazioni, anche se non sarà possibile comprovare le proprie tesi.
Ernesto Bazan racconta di come ha avuto modo di rientrare a Cuba attraverso un sogno premonitore della sua compagna Sissi.
Costretto nel 2006 ad abbandonare la sua casa a L’Avana, in quanto “persona non gradita”, una mattina a Brooklyn, nel 2015, Sissi profetizzò ad Ernesto d'aver sognato che era diventato possibile ritornare nell'isola caraibica. Comunicò la cosa vivendola come fosse vera e, per verificare la fattibilità della svolta, si recò subito all’ambasciata cubana, non solo per avere conferma del possibile rientro del marito, ma anche per accertare di poter tornare nella sua veste naturale di fotografo e, quindi, di aver riconosciuto come lecito quel ruolo professionale che in passato era stata causa dell’esilio.
Tutto corrispose alla premonizione sognata e gli accadimenti successivi determinarono per Ernesto anche un grandissimo successo culturale, che è stato ben documentato dai filmati che raccontano anche di una sua grande mostra fotografica realizzata in terra di Cuba.
Bazan, in un video postato su You Tube nel 2020 da “Promirrorless” (https://youtu.be/TELssDiDZ88) ha anche raccontato un’altra vicissitudine strana accadutagli.
Durante un’operazione di pulizia casalinga a Veracruz, nella sua nuova residenza messicana, un vecchio libro su temi di mecicina chirurgica scritto dal padre era stato oggetto di “sbarazzo”. In verità la donna che collaborava nelle pulizie generali, casualmente vide nel sacco di plastica che raccoglieva i rifiuti questo libro; lo recuperò per chiedere e verificare se era il caso di buttarlo veramente.
Per Ernesto fu una sorpresa doppia, sia perché non ricordava di aver ricevuto e conservato quest’unico volume sopravvissuto, sia per la dedica che il padre aveva fatto al piccolo nipote - allora più o meno adolescente - e a insaputa di tutti.
In qualche modo Pietro Bazan senior aveva annotato che il piccolo Pietro avrebbe intrapreso la professione di medico, perpetuando l’esercizio della professione di chirurgo del nonno; cosa che a distanza di tanti anni si è poi puntualmente realizzata.
Ascoltare queste storie dalla viva voce di Ernesto Bazan suscita anche una stana atmosfera. L’alone mistico che avvolge la sua figura fa peraltro apparire, quasi fosse naturale, ogni parvenza irrazionale delle sue vicende. Lui crede fermamente nel trascendente e che qualcosa di certo governa i nostri destini.
A conferma di ciò lega anche la sua scelta di vita, di diventare fotografo, anche a una premonizione che gli accadde in un sogno all'età di diciassette anni.
Queste convinzioni e i racconti delle sue esperienze di vita hanno fatto di Bazan quasi un asceta.
Assistere a una sua performance professionale, anche per la sua costante ricerca d’interazione, è coinvolgente; ma ancora di più ascoltare questi suoi tanti aneddoti, che intercala e narra come fossero delle vecchie storie; come delle normalità che la vita propone in modo variegato - e personalizzandole - a ciascun individuo, a prescindere che se ne possa avere piena coscienza.
Un altro interessante video su Ernesto Bazan, corredato da ricche immagini fotografiche tra quelle raccolte nell'ultimo suo libro "25 Noviembre", è consultabile pure su You Tube, proposto dal Museo Nazionale della Fotografia - CineFotoClub Brescia (https://youtu.be/QmB-3XcKEZg).
Un mix tra slide show e video, racconta la mostra del 2016 a Palermo, presso lo ZAC dei Cantieri Culturali alla Zisa, ed è accessibile tramite https://youtu.be/7NKn4cNMzfM

Buona luce a tutti!

© ESSEC

venerdì 20 agosto 2021

Giovanna Calvenzi: “Le cinque vite di Lisetta Carmi”



Una regola che permane costante nella letteratura e non solo è quella che più si legge e più si allargano conoscenze; l’acculturamento attraverso nuovi scritti e scoperte di personaggi aggiungono sempre qualcosa al bagaglio conoscitivo che ingloba ogni cosa.
Sinapsi nuove permettono pertanto l’accumulazione catalogata d’informazioni che, elaborando nuovi input al preesistente, producono variazioni che elaborano continuamente i pensieri o, in alcuni casi, inducono perfino a rivedere e a ripensare punti di vista che apparivano quasi definiti.
Lo studio e l’applicazione presuppongono pertanto una rivisitazione continua del nostro modo di essere, atteso che a sua volta, quest’ultimo, deriva anche da concezioni generazionali preesistenti strutturate nel DNA tramandatoci nel tempo.
E torniamo sempre alla solita questione. Quella che porta a chiederci cosa c’è di veramente originale e nuovo nell’evoluzione continua del pensiero umano.
In questo dilemma si accomuna anche la fotografia, laddove si suole dire che l’esercizio fotografico ci porta a congelare in un click ciò che la nostra cultura sa riconoscere. Quindi corrisponde al vero il fatto che molte sono le realtà presenti nel quotidiano e che, fino ad un certo punto, risultano sconosciute, anche per le differenti evoluzioni umane.
In questo, le scoperte sono costatazioni di fatto, frutto di prolungate osservazioni o, più semplicemente, d’occasionali accadimenti colti da delle menti studiose e attente.
Mentre però negli ultimi millenni e anche per la deriva dei continenti, si sono mantenute evoluzioni culturali differenziate a causa delle diverse enclavi in cui si è diversificata la razza umana, oggi, nell’era della globalizzazione, il pensiero unico è più che mai corrente. Ne deriva che le comunicazioni, frutto di un’evoluzione tecnologica sempre più efficiente, consente cognizioni diffuse di tutte quante le scoperte, scientifiche o di ogni qualsivoglia mutazione culturale delle diverse razze che coabitano il pianeta. Ma, come spesso capita, ogni medaglia ha pure un suo rovescio.
Coniugare le positività che possono derivare da un progresso che beneficia di comunicazioni pressoché universali d’ogni evento è anche un aspetto che si scontra con l’indole negativa conosciuta e connaturata alle debolezze della natura umana. Non bastano quindi sistemi politici e religioni definite aperte, quando anche l’istinto dell’uomo più evoluto ha a che fare con i suoi aspetti primordiali reconditi, legati ancora al tempo dell’istinto per la sopravvivenza. Anche se oggi questi caratteri sono principalmente rivolti all’affermazione dell’ego, inteso non solo in senso di singolo, ma anche di clan, gruppi etnici e appartenenze organizzate in ambiti socio-culturali e riconosciuti unilateralmente a modelli.
Sono quelle false verità che inducono talvolta a crederci superiori, per razza, fede, assetto politico e quant’altro, fino a illudere di poter esportare ad altre culture quella che definiamo fideisticamente come nostra democrazia. Le tante visioni poco illuminate degli assetti socio-politici che si riciclano periodicamente, affollando il pianeta, e che ci accompagnano nel tempo, rappresentano una delle basi su cui si continuano a mantenere e ad alimentare le molte conflittualità ideologiche e le correlate inevitabili guerre (dichiarate o sottese ha poca importanza).
Se poi pensiamo alla breve invenzione della scrittura e che molta dell’avventura umana si era sempre basata sulla trasmissione orale delle storie, tenuto anche in conto che ogni vincitore ha teso sempre a trasmettere come storia veritiera il proprio punto di vista, sono stati pure certamente tanti i personaggi “atipici” offuscati o cancellati nel e dal tempo.
Quest’ampia premessa mi è stata suscitata dall'attualità politica, associata in parte alla lettura dei contenuti del libro “Le cinque vite di Lisetta Carmi.
Un volumetto con il quale Giovanna Calvenzi racconta e raccoglie testimonianze su un'affermata fotografa un pò bizzarra del nostro tempo che, all’apparenza, ha dell’inverosimile, ma che se poi l’accosti ad altri personaggi e alle relative storie, ti accorgi che non costituiscono anomalie ma delle sorprendenti eccezioni che si elevano nel panorama umano che ci accompagna.
Il tema messo in campo è alquanto ampio e difficile da sviluppare in un breve scritto. Ognuno, in ogni caso, avrà avuto già modo di riflettere sopra molti degli aspetti accennati e sicuramente saranno tante le riflessioni che hanno portato a differenti convincimenti.
Tornerei quindi all’argomento fotografia e di come l’azione della Carmi si correlazioni in qualche modo ad esso.
Le diverse fasi di una vita del personaggio in questione, quasi divisa in parentesi temporali di un calcolo algebrico, costituiscono esempio di come molto talvolta le esistenze di alcuni soggetti si compongono di tanti blocchi; che si alimentano e integrano col solo intento di compenetrarsi in contaminazioni che tendono a completare cicli più complessi, che ambiscono a proporsi via via in significative composite sintesi.
Le cinque vite della Carmi narrate dalla Calvenzi, arricchite anche da apporti scritti da altri personaggi che sono stati testimoni diretti delle diverse fasi esistenziali raccontate, consentono di cogliere l’essenza di una personalità che persegue costantemente per prima cosa una ricerca su se stessa. Attraversando esperienze diverse che rimangono legate e che comunque si arricchiscono durante lo scorrere del tempo lungo la vita.
La complessità dell’individuo Carmi potrebbe quasi paragonarsi all’esperienza parallela e accomunata di cinque personaggi che potrebbero anche essere state delle persone diverse che costituiscono un clan, con una filosofia esistenziale consociata, ricca di interscambi, indirizzata a un unico intento.
Rientrando nel solo tema fotografia, la citazione attribuita alla Carmi, riportata in quarta di copertina nel libro, con la quale la stessa afferma che “una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, mi emoziono con ciò che c’è”, potrebbe indurre ad aprire un altro ampio discorso sulle tante progettualità ostentate e portate avanti da molti fotografi.
Risulterà in ogni caso utile soffermarsi sulla verità affermata, che enfatizza la sensibilità individuale che guida il fotografo che opera in campo, su cui tanto e da sempre si dibatte.
Nel corpo del volume, e specificatamente in quattro pagine del libro (pagg. 62-65) la Calvenzi riporta uno stralcio di una tesi di laurea di Patrizia Pentassuglia (Una vita alla ricerca della verità. L’esperienza fotografica di Lisetta Carmi), che allarga ulteriormente il pensiero della Carmi riguardo alla fotografia più in generale e non soltanto.
Brevi domande circostanziate poste dalla laureanda e le corrispondenti risposte precise e esaustive della Carmi, forniscono una visione lucida e semplice di quello che per lei è stata sia la fotografia che le sue visioni di vita correlate. Nelle diverse fasi, nelle componenti e nelle regole, comprendendo in ciò anche la funzione dei mezzi impiegati e il relativo utilizzo attuato per documentare, raccontare, interpretare l’insieme che è ha determinato le sue produzioni fotografiche. Poco importa se per l’ottenimento una singola fotografia o per la raccolta di un gruppo d’immagini.
Si parte dall’importanza della didascalia per una foto e a considerazioni che si richiamano a punti di vista di autori come Arbus, Weston, Sontag. Per dare una chiara visione del punto di vista della Carmi sui fotografi di ogni tempo, può risultare utile parte della riscposta in cui afferma che “Ci sono fotografie che restano come modelli di perfezione. Volendo fare dei nomi: Robert Capa, Werner Bischof, Ansel Adams, Henri Cartier Bresson; le loro immagini resteranno nel nostro inconscio come una ricchezza che non ci lascerà mai più”. Una chiave di verità che tutti noi conosciamo e che, più o meno, ciascuno spesso mette in campo nel momento in cui si accinge a leggere una scena e a comporre la propria fotografia.
I vincoli di copyright non consentono di riportare più ampiamente i testi a cui si fa cenno, occorrerà nel caso attivarsi per prendere visione di una copia della tesi della Pentassuglia o del piccolo volume di meno di 200 pagine della Calvenzi che, corredato anche da parecchie immagini in bianco e nero, è proposto dalla casa editrice Bruno Mondadori (edito nel febbraio del 2013).
In conclusione occorre anche ricordare che le tante vite che compongono il vissuto artistico o esistenziale di ogni individuo, costituisce spesso una normalità. Fra i fotografi famosi spicca Henri Cartier Bresson che, frequentando molti intellettuali del suo tempo, nasce pittore e che dopo essersi affermato in fotografia, ritorna alla sua passione di un tempo. Per quanto possa tornare utile, nel blog che ho creato nel momento dell’apertura del mio tempo di quiescenza ebbi, ad esempio, a scrivere a proposito di blocchi esistenziali: "Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Buona luce a tutti!

© ESSEC

martedì 17 agosto 2021

Per come vanno le cose ....



Nel suo editoriale di oggi, incentrato sulle tristi vicende afgane, Marco Travaglio conclude citando, tra l’altro, una lucida lettura espressa dal compianto Gino Strada, in merito all’attendibilità della stampa assoggettata ai padroni.
Il periodo che conclude lo scritto recita: “L’attacco alle Twin Towers fu un puro pretesto. Non c’era un solo afghano fra gli attentatori né nelle cellule di Al Qaeda. Solo sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, marocchini, yemeniti. Non afghani o iracheni. Infatti furono attaccati Afghanistan e Irak (nel 2003, con la scusa delle armi di distruzione di massa, mai viste, e di un inesistente patto fra Saddam Hussein e Bin Laden, che si erano condannati a morte a vicenda: poi Osama fu ucciso in Pakistan, che nessuno si sognò d’invadere). A Kabul la guerra al terrorismo, costata 3mila miliardi $ solo agli Usa, ha riabilitato i Talebani. A Baghdad ha prodotto l’Isis. Nel febbraio 2003 Gino Strada predisse come sarebbe finita e fu accusato di filo-terrorismo. Francesco Merlo, non ancora passato a deliziare i lettori di Rep, lo additò sul Corriere come un “Signor Né Né”. Gino rispose così: “Signor Merlo, ho l’impressione che il partito della guerra del petrolio non passi un gran momento… Gli amici dell’‘amico George’ imbavagliano l’informazione in modo da renderla indistinguibile dalla propaganda – ne sa qualcosa, Signor Merlo? – eppure la gente non li ascolta. Rendono i telegiornali molto simili al Carosello, eppure le persone continuano a pensare, a porsi domande… Ho la sensazione che non filerà via liscia, che i cittadini si siano stancati di fare da telespettatori, che i padroni delle testate debbano rassegnarsi a non essere anche padroni delle teste…”. Oggi l’Afghanistan torna a vent’anni fa. Invece la stampa italiana non s’è mai mossa.”
Primo obiettivo nel fare giornalismo dovrebbe essere quello di assolvere al dovere di cronaca.
Un buon editore dovrebbe dare un adeguato spazio all’informazione e, a prescindere dalla pagina d’inserimento e al numero di righe dedicate agli avvenimenti raccontati, fornire ai lettori le notizie in quanto tali; possibilmente astenendosi dal preconfezionare opinioni indirizzate pregiudizialmente, evitando possibilmente di riportare parti estrapolate dall’intero contesto per indubbie convenienze.
Per come vanno le cose, appare però deprimente dover ascoltare o leggere i tanti pseudogiornalisti impegnati a far conoscere le loro opinioni su ogni cosa, imponendole, come se fosse necessario dover aiutare il "povero lettore" a capire le evidenze che, gioco forza e guarda caso, collimino solo con il loro punto di vista.
I primi piani dedicati dalle regie, si soffermano lungamente sull'inquadrare i soggetti e confondere chi s’imbatte all’ascolto. Chiome fluenti della giornalista femmina, atteggiamenti emblematici dei colleghi maschi.
Assistere ai telegiornali o leggere i quotidiani non risulta pertanto facile per acquisire gli elementi necessari a capire la verità dei fatti, ancor meno qualora non si abbia una propria visione delle cose indipendente; se non si è preparati perché non dotati di uno minimo spirito critico, che si alimenta solo con conoscenze di pareri dissimili o anche contrapposti.
Ormai i media non pubblicano notizie per informare la gente ma espongono o adombrano gli accadimenti agendo più da influenzer, non secondo l’importanza degli accadimenti oggetto d’informazione ma orientando il pubblico in relazione all’indirizzo editoriale imposto da interessi di parte.
Sostanzialmente, quindi, oggi non si salva quasi più nessuno. Solo rare eccezioni assicurano la copertura dell'informazione sui fatti di cronaca. Ma attenzione, non è solo colpa del mondo mediatico, molto dipende anche dalla pigrizia di un popolo distratto e incanalato a ricercare ciò che è utile ad assecondare propri bisogni; se veri o fittizi, spontanei o indotti, ha poi poca importanza.
Trovo utile, per dare maggior rilievo a questo pezzo, chiudere con le parole che Vauro dedica all’amico scomparso in questi giorni e per il quale Moni Ovadia dice: “Ora non si merita la retorica melensa, per rendergli onore l'Italia deve sostenere le sue iniziative”.
Vauro scrive, a sua volta, basandosi su esperienze comuni e dirette: “Gino Strada se n’è andato. Capitava. Ci capitava, in Afghanistan come in Iraq, come in tanti luoghi di guerra, di restare senza parole davanti all’orrore ed alla sofferenza. A volte insieme le cercavamo per denunciare il crimine che è la guerra. Dovevamo trovarle e le trovavamo. Io invece oggi non ne trovo per dire il dolore che la scomparsa di Gino mi provoca dentro. Non le trovo perché non possiamo più cercarle insieme. Addio caro Gino.”

Buona luce a tutti!

© ESSEC

lunedì 2 agosto 2021

Gesuiti. Uso e abuso politico di Todo Modo



Fabrizio D’Esposito, in un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano oggi e intitolato “Gesuiti. Uso e abuso politico di Todo Modo: gli esercizi di sant’Ignazio nella lotta della vita”, ha scritto: “Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina”. “Ogni mezzo per cercare e trovare la volontà di Dio”. Todo modo: dal romanzo di Leonardo Sciascia al film di Elio Petri e per finire alle analogie presunte con il “Whatever it takes”, “A ogni costo”, del premier onnisciente e “gesuita” SuperMario Draghi. Una citazione che ciclicamente torna in auge ma che a pronunciarla spesso rischia di diventare fine a se stessa, in senso sia politico sia onomatopeico, giusto per il suono riprodotto in qualche salotto tv.
Al di là d’ogni considerazione specifica, questa premessa all’articolo coglie un punto importante riguardante la dottrina filosofica che orienta i tanti uomini di formazione gesuita i quali, in vari campi, occupano spesso ruoli rilevanti nel panorama contemporaneo e non solo nazionale.
Una più attenta rilettura della storia dovrebbe portare a riconsiderare alcuni aspetti degli insegnamenti dell’ex soldato spagnolo Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, convertitosi al cattolicesimo nel maggio 1521.
Vero è che l’insegnamento lasciato ai posteri da sant’Ignazio, come evidenzia D’Esposito, rappresenta una svolta per essere una visione meno statica della dottrina cattolica manifestatasi fino a quei tempi, per “un divenire continuo per ogni esercitante”, ma sono anche inconfutabili i risultati pratici, spesso negativi, che sono stati espressione della scuola gesuita attuata nel tempo.
A ogni buon conto, comunque, più che affidarsi ciecamente a pseudo illuminati (supportati da facili slogan) in questi deserti d’idealismi contemporanei, il pragmatismo moderno dovrebbe indurre più alla perseverante pratica del produttivo confronto politico e sociale, per mitigare anche le tante intransigenze e ogni forma estrema che facilita il proliferare di tanti miopi proselitismi.
In conclusione, l’articolo di D’Esposito, rapportato all’esperienza politica dei giorni nostri, dovrebbe indurre tutti quanti noi a privilegiare una certa prudenza e applicare nelle nostre analisi sempre maggiori attenzioni.

Buona luce a tutti!

© ESSEC