In una recente sentenza la Suprema Corte riconosce il diritto alla retribuzione per il lavoro straordinario svolto in assenza di autorizzazioni formali, in linea con l’articolo 36 della Costituzione.
Il pronunciamento della Corte di Cassazione si fonda su principi giuridici chiari e ben consolidati.
La Suprema Corte, fra gli altri, ha fatto riferimento all’art. 2126 del Codice civile, il quale stabilisce che il lavoro prestato con il consenso del datore di lavoro deve essere retribuito. Questo principio si applica anche quando il consenso non è formalmente espresso, ma è implicito nel comportamento del datore di lavoro.
Per chi volesse leggere per intero il testo completo della sentenza in questione, si rimanda al documento. (https://www.lentepubblica.it/wp-content/uploads/2024/07/4_6051023528906461538.pdf).
Di regola, ogni emanazione della Corte di Cassazione costituisce un precedente giuridico che, approfondendo specificità e interpretazioni, fa – come usa dirsi - scuola e andrà a condizionare i futuri giudizi inerenti alla materia.
Mi riferisco, ad esempio, a una casistica tranquillamente associabile nel merito a quella collegata alla citata sentenza di cassazione del 6 giugno 2024; pure affrontata nel libro di Celestino Quinto, intitolato “Pesi e Contrappesi”, pubblicato lo scorso anno.
Per rendere maggiormente comprensibile le articolate questioni si riportano di seguito stralci testuali di alcune pagine che, come intuibile, si basano su fatti realmente accaduti.
Inizio citazione:
“In tutto questo appariva peraltro curioso – pur in concomitanza dei tempi e anche l’aperto riconoscimento di cui godeva - il contrastante modo di operare attuato nel Credito Centrale. Un operare che veniva platealmente a dare legittimità anche ad aspetti fiscali anomali, derivanti dal mancato riconoscimento economico al personale in servizio, nel caso di prestazioni straordinarie.
Omero per il ruolo, seppur marginale, in una OOSS operante nel suo Istituto, aveva la possibilità di poter attingere a materiale sindacale probante che coinvolgeva anche realtà diverse dalla sua.
In un altro intervento quasi contemporaneo, apparso nel giornale Dirigenza Nuova del Sindacato direttivo della citata ........, aveva avuto modo di riscontrare che - senza mezzi termini - si denunciavano irregolarità per operatività attuate come prassi consueta in certi contesti; disattendendo con ciò apertamente quell’omogeneità comportamentale che norme interne prescrivevano alle varie dipendenze e per ogni attività.
Passi significativi dell’anzidetto articolo affermavano:
“Sulla base di argomentazioni a mio avviso fantasiose, il riconoscimento ai colleghi delle prestazioni straordinarie non avviene in maniera univoca sul territorio nazionale (con differenza, talvolta, anche fra Filiali limitrofe).”
In un successivo periodo si aggiungeva: “Ora, a mio avviso i diversi rappresentanti dell’Istituto non si rendono conto della pericolosità delle loro libere interpretazioni in mancanza di indicazioni regolamentari o di comunicazioni scritte della Banca e, pertanto, sono necessarie interpretazioni autentiche sulla materia. Infatti, il presupposto è che le segnalazioni riguardanti l’orario di lavoro dei dipendenti debbano corrispondere esattamente alle ore effettivamente prestate. Ciò, innanzi tutto, per le conseguenze di carattere legale e per le responsabilità personali e penali che ne conseguono.”
Nel corpo del suo documento quel sindacalista sosteneva ancora: “ritengo inconcepibile che a fronte di prestazioni similari i colleghi della Filiale X siano retribuiti in modo difforme da quelli della Filiale Y. Tra l’altro questa pratica provoca la diffusione di mentalità e modalità gestionali eccessivamente personalistiche rispetto ai canoni della Banca; costumi in base ai quali, estremizzando, si potrebbe arrivare a chiedere altre tipologie di asservimenti.”
Nel suo Credito Centrale, allo scopo di voler fornire una giustificazione che desse valenza giuridica a un illegale comportamento, per le questioni sollevate, il Direttore dell’epoca nell’accompagnare l’istanza di Omero volta al riconoscimento economico di prestazioni straordinarie, era andato candidamente a scrivere e ufficialmente agli organi superiori (nota conforme poi acquisita in seguito all’accesso agli atti) quanto segue:
“Al riguardo, corre l’obbligo di far presente che non risulta se vi sia stata un’autorizzazione della Direzione dell’epoca allo svolgimento di prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro, in un contesto caratterizzato da una prassi – consolidata da tempo – in cui non sono mai stati riconosciuti compensi della specie.”
Nell’azzardata affermazione si sommavano due errori e cioè l’ammissione di una “prassi consolidata da tempo” di non corrispondere la remunerazione per prestazioni straordinarie e anche il fatto che tali prestazioni – qualora rese in sede ispettiva – esulavano da possibili competenze/autorizzazioni delle direzioni locali, atteso che incarichi del genere rispondevano a sfere gerarchiche ben superiori, facenti capo direttamente a uffici centrali (quindi non assoggettabili ad alcuna autorizzazione periferica, che, nel caso era solo obbligata a fare da tramite nel registrare le segnalazioni eventualmente trasmesse dal capo del gruppo ispettivo, per poi procedere alla quantifica- zione e all’annesso pagamento in busta paga).
A questa già avventata affermazione del suo Direttore faceva da contraltare la kafkiana comunicazione dell’Organo superiore che, con nota (anche questa acquisita in copia in seguito all’accesso agli atti), invece di acclarare l’assurdità scritta dall’alto dirigente locale (in ogni caso gerarchicamente subalterno), la andava a sua volta a utilizzare pure come prova e proprio punto di forza, al solo scopo di avallare l’abuso (quindi, ponendo l’affermazione del dirigente locale come inconfutabile prova per legittimare l’eclatante castroneria giuridico-amministrativa dallo stesso sostenuta).
Nello specifico periodo veniva, infatti, riportato che: “tenuto conto di quanto rappresentato da codesta Direzione e del notevole tempo trascorso, non è possibile verificare se le prestazioni lavorative in questione siano state effettivamente rese e preventivamente autorizzate.”
Nel tutto sorvolando sul ruolo di fatto svolto in quella circostanza da Omero, durante il periodo d’incarico ispettivo ricoperto.
Come era risaputo, chi svolgeva quei particolarissimi compiti rispondeva, peraltro, al Capo dell’Ispettorato centrale. Quindi, nelle corrispondenze amministrative, si venivano anche ad assommare – assumendole paradossalmente pure a dispositivo - due evidenti e palesi ignoranze normative.
Per la cronaca appare utile anche far presente che il contenzioso con il Credito Centrale aveva preso origine da un addebito postumo causato da interpretazioni restrittive e alquanto pretestuose; in qualche modo rivelatesi anche innovative rispetto a un documentato precedente e in ogni caso molto discutibili circa la poca coerenza prassi regolamentare.
L’interpretazione penalizzante era apparsa talmente anomala da indurre perfino la stessa segreteria della sede che aveva curato la pratica – motuproprio, cioè di propria sponte e senza che ne fosse coinvolto Omero - a obiettare sulle decisioni “teologiche” e “bizantine” che erano state artatamente assunte dall’Organo Centrale.
Come accennato, era stato pure fatto notare il fatto che la novità sostenuta andava anche a contrastare con un precedente documentato, che aveva già trovato pieno avallo da quelle medesime strutture amministrative che oggi venivano a introdurre delle rettifiche non più recuperabili e risultanti molto onerose.
Venne ben presto fuori che l’addebito, in verità, era stato sollecitato da strane improprie segnalazioni di un’addetta locale, peraltro pure pro- mosse dopo che l’iter amministrativo aveva già trovato validazione con le liquidazioni approvate, dando pertanto piena valenza a rendiconti di diarie e rimborso spese presentate e da rimborsare (per un’attività svolta e – nel caso specifico – assimilabile ad attestazioni rese da un pubblico ufficiale).
In pratica, erano state sollevate obiezioni e presunte anomalie del tutto pretestuose, su soluzioni che avevano peraltro procurato vantaggi economici allo stesso Credito Centrale. Tutto quanto costituiva frutto di un’iniziativa arbitraria sollecitata sottobanco da una subalterna che, nella struttura segretariale, manteneva perfidamente in serbo rancori personali di infimo profilo.
Qui Omero avrebbe potuto raccontare ben altro e si sarebbe potuto aprire un ampio capitolo, sul quale preferiva però stendere solo un velo pietoso e sorvolare, stante il livello etico morale dei personaggi coinvolti.”
Fine citazione autorizzata dall'autore (pagg. 52-58)
La domanda che viene a porsi riguarda, quindi, una questione lapalissiana. Ovverossia, che valenza può assumere una variazione d’orientamento giuridico su una problematica analoga per la quale è intanto intervenuta la tagliola della prescrizione?
Probabilmente resta intangibile la regola del “Marchese del Grillo”, simile a quella che è stata anche l'intitolazione di un libro di PIF: “Futti, futti, ca Diu pirduna a tutti".
Buona luce a tutti!
© ESSEC
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