Nel 2008 l’Italia ha ricordato, senza fanfare, anzi con qualche dubbio, il cinquantennio della Legge Merlin: sancì, nel 1958, la fine delle “case chiuse”. Istituzione, se così si può dire, nata assieme all’Unità d’Italia. I bordelli regolati dallo Stato sono in effetti un’invenzione di Napoleone Bonaparte, che li adopera per tener buona la truppa. Quando il nipote Napoleone III si prepara a scendere in Italia, nel 1859, per dar man forte ai Savoia contro gli austriaci, esige che per i suoi soldati si renda disponibile un esercito parallelo di prostitute. Il governo piemontese provvede. Nascono i postriboli di stato. Sottoposti a un regolamento del Regno di Sardegna ripreso pari pari dal modello francese e trasmesso in eredità al Regno d’Italia. Il decreto che istituisce le case di tolleranza è approvato con la benedizione di Camillo Benso di Cavour il 15 gennaio 1861 – un mese prima della proclamazione dell’Unità – e ha il dichiarato obiettivo di “proteggere la salute e la morale della nuova nazione”. Con ammirevole puntigliosità piemontese, si stabiliscono perfino le tariffe che il gestore può richiedere ai clienti: “Case di 1° classe lire 5; Case di 2° classe da lire 5 a lire 2; Case di 3° classe al di sotto delle lire 2”. Come si può notare, manca però un dettaglio importante: il tempo. Morto Cavour, il ministro Rattazzi provvede nel 1862 a colmare la lacuna. “Tali tariffe vanno, com’è naturale, riferite ad un semplice trattamento. Ove l’intrattenentesi chiedesse di prolungare il colloquio, s’intende che il suo esborso crescerebbe in proporzione alle unità di tempo consumate. L’unità di tempo media, per un colloquio semplice, è da calcolarsi in minuti 20 circa”. La tabella dei tempi stabilisce una produttività la cui infamia non sembra turbare nessuno. Quando nel 1949 la senatrice Lina Merlin presenta la sua prima proposta di legge per la chiusura dei bordelli, cita anche qualche dato che fa rabbrividire. Nella città di Modena, 130.000 abitanti, funzionano quattro case e venti “signorine” che effettuano mediamente sessanta prestazioni al giorno per ciascuna. A Roma, pare, il ritmo è più “fordista”. E se la prostituta si attarda con il cliente al di là di quanto convenuto, la maìtresse ha il diritto di multarla. La metà dell’incasso finisce in tasca al proprietario, il 6 per cento va al fisco, il resto – detratte però le spese di vitto, alloggio e vestiario – resta alla ragazza. Una miseria. “La mia non è una legge per cancellare la prostituzione”, dirà la Merlin a quanti la accusano di essere una visionaria, “ma per abolire la schiavitù”. Ma questa non è la fine della storia. All’inizio il successo è immediato: tanto che, a caccia di denaro – come tutti i governi italiani fino ai giorni nostri -, Agostino De Pretis già nel 1880 aumenta il prelievo fiscale sulle case di piacere. Ma guai a chiamarle così, secondo la vulgata ufficiale. Nell’ottica positivista dell’epoca, le puttane di Stato servono solo a garantire l’igiene sessuale maschile, a offrire insomma una valvola di sfogo a istinti altrimenti capaci di turbare l’ordine costituito. E’ la logica conseguenza della distinzione stabilita dal perbenismo ottocentesco tra il sesso destinato alla procreazione, e pertanto benedetto, e il sesso considerato come vizio: il primo si fa in famiglia, il secondo con le donne che si comprano.
Antonio Caprarica (Gli italiani la sanno lunga …. O no? – 2008 – Sperling & Kupfer)
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