Sono le tre di un pomeriggio d’estate. Il sole è impietoso. L’ombra non esiste o forse è solo un’illusione ottica, dal momento che non provo alcun sollievo nemmeno a restare seduto sotto un ombrellone degli chalet a Mergellina. A Napoli si chiama «controra». Il termine sta a indicare che si tratta di un’ora contraria, cioè di un’ora che dovrebbe essere vissuta come un’ora della notte: a letto e nel buio di una stanza. L’orario unico è stato inventato nei paesi senza sole.
Sono con un collega di Milano e ci stiamo riposando da un’eccellente colazione consumata a «Vini e Cucina», la famosa trattoria della signora che sta di fronte alla stazione di Mergellina. La signora ci ha preparato una cosa semplice, e durante il pranzo ha ritenuto suo dovere riempire di male parole il mio povero amico, reo di essere milanese e quindi probabile tifoso interista. Inutilmente il mio amico ha fatto presente che lui nella sua vita non era mai andato a vedere una partita di calcio; niente da fare: la signora ha continuato imperterrita a fare apprezzamenti sulla sua persona, sul fatto che parlava con l’erre moscia e sulla sua presumibile scarsa virilità, ha quindi esteso tali dubbi a tutti gli uomini milanesi ed in particolare ad Helenio Herrera, ex allenatore dell’Inter, ed infine ha tenuto una filippica contro Garibaldi, colpevole di aver unificato l’Italia allo scopo d’impedire al Napoli di vincere tutti gli anni lo scudetto del Regno delle Due Sicilie.
Siamo usciti sotto una tempesta di sole con l’intento suicida di arrivare a piedi in ufficio, fin sulla seconda rampa di Via Orazio. Come era facile prevedere all’altezza degli chalet di Mergellina siamo definitivamente crollati, e fortuna ha voluto che nel momento del deliquio abbiamo trovato a portata di mano due dondoli liberi ed un ombrellone. Lawrence d’Arabia non sarebbe andato oltre. Senza parlare, ma spostando leggermente la testa per rispondere sì o no alle domande del cameriere, siamo riusciti ad ordinare due granite di limone. Letargo per dieci minuti e poi le granite. Consumiamo, anzi prosciughiamo i nostri bicchieri; e poi di nuovo immobili, senza muoverci e senza parlare. Guardo, in assenza di pensieri, il tavolino arancione, i bicchieri asciutti, il biglietto da mille ancorato al portacenere e resto in attesa del cameriere. A questo punto compaiono loro: ‘e guagliune. Si tratta di una chiorma (un gruppo) di una decina di ragazzi, tutti scalzi, tutti in costume da bagno e con i jeans arrotolati sotto al braccio. Tornano da uno dei tanti stabilimenti balneari di Posillipo basso. Passano ridendo e gridando. Uno di loro, l’ultimo della fila, tredici o quattordici anni, capelli bagnati, occhi vivi, pelle nera, si ferma davanti al nostro tavolo, pensa, mi guarda e dice:
«Dottò, ma se io adesso mi scippo questa mille lire e me ne scappo, voi che fate?»
«Come che faccio. Ti corro appresso e ti faccio un mazzo tanto.»
«Ma dove volete correre dottò? Voi state spaparanzato su questa sedia a dondolo e prima che vi alzate in piedi, io già sono arrivato sopra alla chiesa di S. Antonio.»
«Ma tu che vuò?»
«Niente, volevo solo farvi notare che praticamente avreste potuto perdere mille lire. Facciamo una cosa: me ne date duecento e non ne parliamo più.»
A questo punto il mio amico vuole dargli per forza tutta la mille lire; io mi oppongo perché penso che certe iniziative non bisogna incoraggiarle. Decidiamo per cinquecento lire e una sigaretta.
Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista - Arnoldo Mondadori Editore)
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