giovedì 16 febbraio 2012

Corruzione, il pm Francesco Greco al Fatto “Subito cinque leggi contro le mazzette”

“Vent’anni dopo Mani Pulite, abbiamo un governo che dice di dover e voler rispettare gli obblighi con l’Europa e con la comunità internazionale. Bene, allora non si capisce perché non si sia ancora intervenuti per adeguare la nostra legislazione alle richieste degli organismi europei e agli impegni che l’Italia stessa ha preso con la comunità internazionale. Soprattutto non si capisce perché non si voglia intervenire con leggi che contrastino seriamente le due principali cause del declino del Paese e della diseguaglianza sociale: la corruzione e l’evasione fiscale. Cioè la criminalità economica che, se continua a essere tollerata e dunque incoraggiata, costringe i poveri e gli onesti a seguitare a mantenere i ricchi e i disonesti”. Francesco Greco, procuratore aggiunto, è l’unico pm superstite del pool storico di Mani Pulite alla Procura di Milano. E, in questa intervista al Fatto, lancia la sfida ai tecnici e ai politici che li sostengono.

Dottor Greco, non le bastano i blitz anti-evasione dell’Agenzia delle Entrate?

No: quei blitz, pure sacrosanti, rischiano di essere fumo negli occhi, se non sono accompagnati da una seria riforma delle leggi di contrasto all’evasione fiscale. E anche da una cultura di ampio respiro, che consenta di collegare l’evasione alla corruzione: l’ultimo report dell’Ocse richiama pesantemente le Agenzie delle Entrate degli Stati membri a cercare negli accertamenti non solo l’evasione, ma anche le tangenti. L’Ocse ha addirittura compilato un “Manuale di sensibilizzazione alla corruzione a uso dei verificatori”.

Il ministro Paola Severino ha anche istituito una commissione per studiare una legge anticorruzione.

Queste commissioni ministeriali sono sempre più divertenti. Mi viene in mente quella istituita nel 1995 dall’allora presidente della Camera Violante: produsse un’ottima relazione del professor Sabino Cassese che, temo, abbiamo letto in due o tre, e giace in qualche cassetto del Parlamento, irrintracciabile. Il fatto è che tutti sanno benissimo quel che bisogna fare contro la corruzione e l’evasione. Basterebbe volerlo…

Ecco, che cosa dovrebbe fare il governo per essere credibile su questi fronti?

Le convenzioni internazionali, regolarmente sottoscritte dallo Stato italiano, alcune mai ratificate dal Parlamento italiano, da quella di Merida sulla criminalità organizzata del 2003 a quella di Strasburgo del 1999 sulla corruzione, ma anche le raccomandazioni dell’Ocse, impegnano gli Stati a intervenire su cinque punti fondamentali: trasparenza dei flussi contabili, trasparenza dei flussi finanziari, sistema della prescrizione, “enforcement” (efficacia d’intervento degli organi preposti alla repressione), corruzione privata nazionale e internazionale.

Cominciamo dalla trasparenza dei flussi contabili. Che cosa bisogna fare?

Se il denaro per operazioni illecite si sposta clandestinamente dalla società A alla società B come un fiume carsico, per scoprirlo bisogna intervenire quando affiora sopra il pelo dell’acqua: cioè al momento dell’uscita da A o da B. Per farlo uscire illegalmente vengono falsificati i bilanci e costruite operazioni fittizie per giustificare quelle uscite (tipo i pagamenti di fatture gonfiate o per operazioni inesistenti). Ecco la necessità di punire le opacità dei flussi contabili e di quelli finanziari. E noi siamo sguarniti su entrambi i fronti. Su quello contabile, la legge Berlusconi del 2002 ha, di fatto, depenalizzato il falso in bilancio quantitativo, mentre quello qualitativo (che non altera i grandi numeri economici della società, ma nasconde tangenti che, se scoperte, distruggerebbero la società stessa) l’ha depenalizzato anche de jure. Bisogna tornare almeno alla legge pre-2002, che punisca entrambi i falsi in bilancio, aumentando però le pene e i termini di prescrizione, anche per consentire intercettazioni e custodia cautelare.

Secondo: trasparenza dei flussi finanziari.

Anzitutto, occorre riformare il diritto penale tributario. Le soglie quantitative di evasione non penalmente rilevante sono assurdamente alte: decine di migliaia di euro sfuggono al controllo penale. E anche le norme che puniscono l’evasione e la frode sono complicatissime, con l’aggravante di pene troppo basse, che fanno scattare la prescrizione dopo appena 7 anni e mezzo: siccome l’Agenzia delle Entrate ci segnala evasioni e frodi dopo 4-5 anni da quando sono avvenute, a noi restano 2-3 anni per fare indagini e tre gradi di giudizio. Con prescrizione assicurata. Poi ci sono altre assurdità, come le pene previste per l’evasore totale, che sono addirittura inferiori rispetto a chi evade un po’ con le fatture false. Insomma, un sistema che sembra fatto apposta per salvare gli evasori. E forse lo è.

L’altro sistema per nascondere i flussi finanziari illeciti è il riciclaggio. Perché in Italia si fanno così pochi processi per questo reato?

Perché l’Italia – caso unico al mondo assieme alla Cina e a qualche paese africano – non punisce l’autoriciclaggio: cioè il reato di chi accumula denaro illegalmente con tangenti, evasioni o altri traffici illeciti e poi lo ripulisce da sé. Tant’è che oggi, nei tribunali italiani, il reato di riciclaggio serve solo a punire i taroccatori di auto rubate, cambiando la targa o il numero di matricola. Sui flussi finanziari della grande criminalità organizzata ed economica, non serve a nulla: non si riesce a fare un solo processo. Anche perché oggi il vero riciclaggio non è tanto quello di chi lava soldi sporchi reinvestendoli in attività pulite; ma quello di chi fa l’opposto: sporca soldi puliti, nascondendoli all’Erario e/o ai soci di minoranza. I soldi puliti divenuti occulti hanno un grande valore sul mercato criminale: perché uno dovrebbe reinvestirli in attività lecite? Sarebbe ora di istituire anche da noi il reato di autoriciclaggio, peraltro previsto dalla Convenzione di Strasburgo.

Ogni tanto c’è qualche colpo di fortuna, come la lista Falciani dei grandi evasori-riciclatori…

Guardi, noi magistrati non riceviamo mai segnalazioni di esportazioni di capitali illeciti. Le sole indagini che si fanno in materia riguardano i pochi casi che scopriamo noi pm, spesso grazie alla Guardia di Finanza, o che riceviamo da fuori come la lista Falciani. Ma anche lì abbiamo le mani legate dalla legge. Non esistono soggetti iscritti all’albo dei riciclatori: le norme sul riciclaggio non si applicano, perché di solito il riciclatore è anche un complice del reato presupposto, cioè dell’evasione o dell’appropriazione indebita commesse per occultare i soldi. Dunque chi ricicla partecipa all’autoriciclaggio, che da noi non è punito. Intanto il procuratore di New York processa per riciclaggio la banca svizzera Wegelin, con l’accusa di avere ricevuto i soldi di evasori americani, e le sequestra cifre da capogiro.

Terzo punto, la prescrizione: altro record tutto italiano.

Non c’è convenzione internazionale che non ci chieda di mettere mano a questo scandalo. Ora, visto che il ritornello dei nostri politici e del governo tecnico è “ce lo chiede l’Europa”, perché non fanno nulla contro la prescrizione, visto che ce lo chiedono tutte le convenzioni e gli organismi europei? E’ vero: le indagini non possono durare in eterno, infatti bisogna prevedere una drastica causa di decadenza dopo sei mesi se il pm sta fermo; ma se compie atti investigativi (interrogatori, sequestri, rogatorie, consulenze tecniche), questi interrompono la decadenza e consentono di indagare fino a 1-2 anni al massimo. Poi basta. Ma, alla richiesta di rinvio a giudizio, quando esercitiamo l’azione penale, la prescrizione deve fermarsi, come in Francia e altri paesi. Oggi invece la prescrizione è un’amnistia ingiusta perché selettiva: fatta apposta per rendere impunita la criminalità economica, mentre chi commette reati di strada, perlopiù delinquente abituale, col moltiplicatore della recidiva introdotto dall’ex-Cirielli finisce dentro con pene altissime e prescrizione lunghissima: si butta la chiave. Intanto il colletto bianco, di solito incensurato, colleziona prescrizioni e diventa un “incensurato a vita”.

Quarto punto: l’ “enforcement”.

Organismi e convenzioni internazionali insistono nel pretendere dagli Stati una capacità organizzativa degli organi preposti perché siano in grado di combattere efficacemente la criminalità economica. Da noi ciascuno va per la sua strada, senza coordinamento: Forze dell’ordine, Agenzia delle Entrate, Consob, Banca d’Italia e Uif (l’ufficio informazione finanziaria di Bankitalia). Quest’ultimo riceve le segnalazioni di operazioni sospette dagli intermediari finanziari e le trasmette alla Gdf: alle Procure, delle 50 mila segnalazioni ricevute nel 2011 dall’UIF, ne sono arrivate poche decine, quasi tutte in odore di evasione, elusione e frode, quasi nessuna di riciclaggio. Siccome l’Italia, sull’ “enforcement”, è inadempiente con l’Ocse, per fingere di fare qualcosa il governo Berlusconi si inventò l’Autorità anticorruzione, che è subito fallita e alla fine è stata sciolta perché era diventata il solito poltronificio. La Procura di Milano si era permessa di suggerire come presidente Gherardo Colombo, che aveva appena lasciato la magistratura: naturalmente invano. Un’Autorità di coordinamento dei vari organismi statali preposti a lottare contro la criminalità economica è necessaria per superare le gelosie reciproche, armonizzare le competenze, favorire lo scambio di informazioni e far sì che chiunque scopra notizie di reato sia obbligato a girarle subito alla magistratura. Cosa che oggi è lasciata alla buona volontà dei singoli e spesso avviene dopo anni, allo scadere della prescrizione. Ma, per funzionare, l’Autorità dev’essere svincolata dai partiti e dai ministeri, per sottrarre la lotta a evasione e corruzione al controllo del governo e della maggioranza del momento.

L’ “enforcement” riguarda anche la magistratura?

Certo. La Procura di Milano è sotto organico del 10 per cento per i magistrati e del 40 per cento per il personale amministrativo. La commissione Mastella, di cui facevo parte, elaborò un progetto per usare il denaro recuperato con le indagini e con le cauzioni sulle impugnazioni per autofinanziare il servizio Giustizia. Tremonti ne ha fatto tesoro e ha istituito il Fondo Unico Giustizia, che gestisce una giacenza media di 2 miliardi, ma purtroppo è diventato un bancomat del ministero dell’Economia: non un euro finisce alla Giustizia, che avrebbe bisogno di un’organizzazione al passo coi tempi, niente carta o notifiche a mano, tutto via computer e via mail. Perché gli uffici legislativi del ministero, invece di fare leggi ad personam, non progettano la Giustizia del futuro? Poi c’è l’Agenzia dei beni confiscati alle mafie: funziona male ed è diventata una dependance del ministero dell’Interno. Occorrono norme sulla confisca dei beni anche per la corruzione e per l’evasione, oggi praticamente impossibili visto che i processi finiscono regolarmente in prescrizione.

Ultimo punto: la corruzione privata.

Anche questa è prevista dalla Convenzione di Strasburgo, eppure siamo praticamente i soli a non prevederla come reato. Nei nostri processi è una costante: è impressionante il numero dei manager infedeli che derubano le loro società, tanto da diventare una delle prime cause del degrado dell’economia reale. Anche perché chi lavora contro la sua società ha tutto l’interesse a renderla sempre più opaca. E poi il reato di corruzione privata ci eviterebbe i salti mortali per punire i tangentari delle società pubblico-private, delle municipalizzate, delle joint-venture, che si trincerano dietro la loro natura di Spa anche se sono a capitale interamente o parzialmente pubblico. Si travestono da società private e negano che i loro dirigenti siano pubblici ufficiali: così, se rubano, rischiano ogni volta di farla franca. Lo stesso avviene nella corruzione internazionale, dove il sistema del “general contractor” rende difficilissimo individuare la figura del pubblico ufficiale tra gli amministratori.

Se è tutto così chiaro e risaputo, perché il governo Monti è tanto reticente su questi temi? Davvero la riforma del mercato del lavoro è più importante della lotta a corruzione ed evasione?

Bè, non credo che l’articolo 18 ci costi più dei 60 miliardi all’anno di corruzione e dei 150 miliardi all’anno di evasione. Ma, visto che in Italia si continua a parlare d’altro, mi domando perché la famosa lettera della Bce al nostro governo, firmata da Trichet e Draghi e diventata una sorta di Vangelo, non abbia messo al primo posto la lotta alla criminalità economica, questa enorme zavorra che, oltre ai danni che fa all’economia e allo sviluppo, inquina tutto il tessuto politico, culturale e civile. In una parola: la nostra democrazia. Draghi e Trichet non hanno citato la lotta alla corruzione e all’evasione perché la danno per scontata, come una precondizione di esistenza di uno Stato democratico? O perché per loro non conta? Avrei preferito se ci avessero imposto, assieme a tutto il resto, anche di adeguarci agli impegni che abbiamo preso con gli organismi a cui liberamente abbiamo scelto di aderire, per ricondurre finalmente evasione e corruzione da livelli patologici a livelli fisiologici. In ogni caso questo governo che vuole “salvare l’Italia” e “sviluppare l’Italia” deve partire da lì. Altro che articolo 18.

Lei è ottimista?

Le rispondo con la frase di un ragazzo di Zuccotti Park: “Sorrido perché il potere delle persone è molto più forte delle persone al potere”.

Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 16 febbraio 2012)

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