lunedì 25 febbraio 2013

Il treno, dove molti parlano, pochi ascoltano e tutti capiscono



Nelle stazioni si nasconde un'Italia interessante. Esiste una stratificazione delle abitudini e dei ricordi che le Ferrovie Italiane non hanno voluto intaccare. Ci ha rimesso l'efficienza del servizio, ma ne ha guadagnato l'atmosfera.
C'è qualcosa di antico nelle divise dei ferrovieri, nelle cravatte allentate, negli impiegati malinconici che si muovono oltre i vetri delle biglietterie, come in un acquario. C'è qualcosa di commovente nei souvenir in vendita qui alla Stazione Centrale di Milano: gondole e conchiglie, santi e madonne, cattedrali e portafortuna. È un'Italia che lascia perplessi noi italiani ma consola voi stranieri, perché conferma le immagini che avete negli occhi: un film neorealista, che non obbliga a faticosi aggiornamenti.
La Stazione Centrale! I forestieri, in genere, la considerano un luogo memorabile (non a torto: vista una volta, chi la scorda più?).
Anche a me non dispiace. È fuori scala, un intervallo imperiale in una città aziendale: non ci sta male. Quando posso, alzo lo sguardo (tenendo le mani sulle valigie) e osservo. Così ho scoperto l'esistenza del Club Eurostar. Ufficialmente è un servizio delle Ferrovie dello Stato che offre ai soci facilitazioni, precedenze, sconti e una sala d'attesa. Di fatto, è il museo del passato prossimo. È un luogo straordinario. Solo nelle stazioni della Transiberiana ho visto qualcosa del genere: sala immensa, soffitti a volta, divani dai colori accesi, piante verdi allampanate e tristi. Sulla parete sinistra, un piccolo bar abbandonato: il personale è impegnato altrove, e il caffè scende solo e malinconico dalla macchinetta. Sullo sfondo, un dipinto occupa metà parete: un ex presidente della repubblica, tra due banconote, sorride con la pipa in bocca, senza spiegare perché.
Club Eurostar! Dietro il solito nome inglese si nasconde il reperto di una civiltà che qualcuno credeva estinta: l'era parastatale. Gli Stati Uniti si sono rifatti il trucco negli anni Settanta, il Giappone, la Gran Bretagna e la Francia negli anni Ottanta, la Germania negli anni Novanta, dopo la riunificazione. L'Italia pubblica, non ancora. Come una bella signora di scarsi mezzi, ha cambiato il cappotto, ma la sottoveste è quella. Nulla di male: solo un po' di malinconia, e un leggero imbarazzo quando arrivano gli ospiti.

***

Mi piace viaggiare in treno. Come l'ascolto della radio e l'insegnamento universitario, consente di fare altro. Leggo, sfoglio, scrivo, sopporto quelli che urlano nel telefonino, confidando le vicende più intime all'intero scompartimento che non vuol sentire.
Giorni fa, tra Roma e Bologna, mi sono fatto una cultura giuridica. Un tipo col pizzetto ha chiamato venti amici per spiegare com'era riuscito a insabbiare non so quale processo. A ogni interlocutore forniva nuovi particolari su avvocati, giudici, norme e strategie procedurali. A Firenze avevo già deciso che avrebbero dovuto condannarlo. Cosa mi piace, dei viaggi in treno? Mi piacciono le partenze, per cominciare. C'è un'umanità che trascina bambini e pacchi, impreca sotto il peso delle valigie, fuma lungo i binari. Qualcuno saluta dal finestrino e si commuove, come in un vecchio film. Forse è una comparsa ingaggiata dalle Ferrovie dello Stato, per creare un po' d'atmosfera tra un ritardo e l'altro.
Dei treni è bello anche il rumore. Mentre il mondo dei trasporti punta verso l'insonorizzazione, le ferrovie producono ancora un baccano soddisfacente. In una camera d'albergo, il brusio della strada distrae, i cigolii dell'ascensore irritano, il ronzio dell'aria condizionata disturba. Il rumore dei treni, invece, rilassa.
Niente sferraglia bene come un accelerato che - noi lo sappiamo, ma voi no - è il treno più lento, nonostante il nome. Niente consola di più della voce che, dopo sei ore di viaggio, comunica l'arrivo in anticipo sull'orario stabilito. Non è un annuncio, è un'epifania. Forse per questo succede una
volta l'anno.

***

I treni italiani sono luoghi di confessioni di gruppo e assoluzioni collettive: perfetti, per un paese che si dice cattolico. Ascoltate cosa dice la gente, guardate come gesticola: è una forma di spettacolo. Dite che le due cose – confessionale e palcoscenico - sono incompatibili? Altrove, forse. Non in Italia.
Siamo una nazione dove tutti parlano con tutti. Non è stata la modernità a cambiare la piazza del Sud, ma la piazza del Sud a influenzare la modernità italiana.
Provate a seguire le conversazioni in questo treno diretto a Napoli (via Bologna, Firenze e Roma). Sono esibizioni pubbliche, piene di rituali e virtuosismi, confidenze inattese e sorprendenti reticenze. «Uno raggiunge subito una nota di intimità in Italia, e parla di faccende personali»: così scriveva Stendhal, e non aveva mai preso un Eurostar.
Guardate quei tre. Sembrano colleghi di ritorno da una riunione di lavoro. Non parlano, annunciano. Non comunicano: emettono piccoli comunicati, preparati dal microufficio stampa che ognuno si porta nella testa. Discutono, come sentite. Rivelano particolari stupefacenti. Affrontano una questione dopo l'altra, sovrapponendo gli argomenti e le voci. Il treno è il precursore di tutti i talk-show: offre il set, lo sfondo, i personaggi e - a ogni stazione - la possibilità dell'uscita di scena.
Oggi in questa carrozza ci sono due consulenti aziendali, un sovraintendente alle Belle arti, un'ex hippy ora direttrice del personale in un'azienda alimentare, un disc-jockey, un piccolo imprenditore, una golfista, un giornalista, un dirigente (in pensione) di una finanziaria, che parla male dell'ex capo. Alla graziosa farmacista che legge un libro sull'Iraq è stato assegnato per errore lo stesso posto prenotato da una bella ragazza bionda. Gli uomini presenti festeggiano l'avvenimento, e offrono ospitalità a entrambe.
Ascoltate le conversazioni. La scelta dei vocaboli è barocca: un'altra dimostrazione dell'importanza dell'estetica nella vita italiana. Sapete perché in parlamento non sono d'accordo ma «registrano una sostanziale identità di vedute»? E nelle previsioni del tempo non piove, ma «sono previste precipitazioni in seguito a un'intensificazione della nuvolosità»? Perché la complessità è una forma di protezione (sono stato frainteso), una decorazione (sono istruito), un cosmetico (amo decorare la realtà), un'iscrizione (appartengo alla casta dei medici, dei meteorologi o degli avvocati; e noi parliamo così, ci dispiace).
Guardateli di nuovo, quei tre nelle prime poltrone. L'attenzione con cui ciascuno ascolta l'opinione degli altri è ingannevole. Osservate la tensione delle labbra e gli occhi svelti. Il silenzio è solo attesa di prendere la parola.
Susan Sontag ha scritto che nei paesi scandinavi, durante la conversazione, è palpabile la tensione fisica che monta negli interlocutori («C'è sempre il pericolo che possa finire la benzina, a causa dell'imperativo della riservatezza e dell'attrazione esercitata dal silenzio»). Be', in Italia è un rischio che non corriamo, e questo treno lo dimostra.

***

All'estero c'è chi sostiene che imparare l'italiano non serve: basta guardare le mani degli italiani mentre parlano. Non è vero, ma la malignità contiene un'intuizione.
I nostri gesti sono molti ed efficaci. Se ne sono occupati antropologi, fotografi, vignettisti e linguisti.
Esiste un Supplemento del Dizionario Italiano, curato da Bruno Munari, composto solo da foto di mani che comunicano (sloggia, torna, un momento!, che vuoi?).
Di fronte ai gesti, molti di voi si sentono come tanti di noi davanti ai phrasal verbs. L'inglese magari lo sappiamo, ma quella scarica di in, on, off e out ci sconcerta. Non ci rendiamo conto che non è necessario imparare centinaia di combinazioni a memoria. Basta capire il meccanismo sottostante.
Prendiamo «Italy used to breeze thru any crisis», una volta l'Italia attraversava le crisi con disinvoltura. Perché un italiano si sente preso in giro? Perché il concetto che noi esprimiamo con un avverbio («disinvoltamente») viene espresso nel verbo (to breeze); e il concetto che noi esprimiamo con il verbo («attraversare») è contenuto nella preposizione (thru). Bisogna capire, quindi, che ogni preposizione esprime un concetto verbale, o più d'uno (about, girare intorno; away, allontanarsi; back, arretrare eccetera).
Per interpretare i gesti italiani occorre usare la stessa tecnica.
Non c'è bisogno di catalogarli, come fece il canonico Andrea de Jorio nel 1832 (La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, 380 pagine di testo, 19 illustrazioni). Basta capire il concetto verbale racchiuso in un movimento.
Guardate le mani di quella coppia che discute. Gesti verso l'esterno: vattene, sparisci, arretra. Gesti verso l'alto: attenzione, successo, fatalismo. Gesti verso il basso: delusione, difficoltà, condanna. Gesti circolari: girare intorno (fisicamente, metaforicamente). Gesti verso la testa: comprensione, intuizione, follia. Gesti verso orecchi, occhi, naso, bocca e stomaco: ascolta, guarda, annusa, mangia. Dita raccolte: sintesi, complessità, perplessità. Pugni chiusi: rabbia, irritazione. Mani aperte: disponibilità, rassegnazione. Eccetera.
Ancora non capite quei due che discutono? Vediamo. Lui stringe i pugni: è arrabbiato. Lei mostra il palmo delle mani: dice di non prendersela. Lui sfrega il pollice e l'indice: vuol dire «soldi». Lei avvicina gli indici delle due mani: vuol dire «se la intendono». Semplice: i due discutono di un caso di sospetta corruzione. Certo, questo non potete pretendere di capirlo alla prima lezione. Occorre un dottorato, ma bastano anche dieci anni in Italia.

***

Mi domandate se sappiamo ridere. Direi di sì: anche troppo. Giacomo Leopardi un poeta italiano che amava gli italiani, anche dopo aver capito con chi aveva a che fare - sosteneva che ci prendiamo gioco di tutto perché non abbiamo stima di niente.
Qualcosa di vero c'è. Esiste un lato scettico, nel nostro carattere, che confina col cinismo. Una capacità di osservazione disincantata che attraversa la letteratura, il cinema, il teatro, la vita della gente. Nei paesi le persone hanno ancora un soprannome - spesso impietoso, sempre accurato – e molti cognomi italiani (Bassi e Guerci, Malatesta e Zappalaglio) rivelano un realismo amaro. La risata italiana, quando arriva, sale dalla pancia. Quella britannica scende dalla testa. Quella americana viene dal cuore e sbuca dalla bocca. Quella tedesca viene dallo stomaco, e lì rimane.
Il nostro problema, quindi, non è ridere. Semmai è sorridere, anche perché nessuno ci aiuta nell'impresa. I personaggi pubblici dotati d'umorismo esistono, ma quasi si vergognano di questa loro dote. L'ironia - se non è santificata da Woody Allen o impreziosita da lingue che non si capiscono - viene considerata una forma di disimpegno, e silenziosamente disapprovata. La persona spiritosa, inesorabilmente, s'incattivisce. I sorrisi diventano prima risate, poi sogghigni.
La degenerazione dell'ironia nel sarcasmo, e del sarcasmo nell'invettiva, meriterebbe d'essere studiata. Ma non abbiamo tempo, e mi limito a comunicarvi un sospetto che non è solo mio. Alcune vicende italiane sono così grottesche da rendere impossibile - anzi, inutile - la satira. Inventi un paradosso, e il giorno dopo qualcuno ha combinato qualcosa di più paradossale. Non c'è gusto, e non è giusto.

Beppe Severgnini (La Testa degli Italiani – 2005 – Rizzoli)



Nessun commento:

Posta un commento

Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.