Nelle
stazioni si nasconde un'Italia interessante. Esiste una stratificazione delle
abitudini e dei ricordi che le Ferrovie Italiane non hanno voluto intaccare. Ci
ha rimesso l'efficienza del servizio, ma ne ha guadagnato l'atmosfera.
C'è
qualcosa di antico nelle divise dei ferrovieri, nelle cravatte allentate, negli
impiegati malinconici che si muovono oltre i vetri delle biglietterie, come in
un acquario. C'è qualcosa di commovente nei souvenir in vendita qui alla
Stazione Centrale di Milano: gondole e conchiglie, santi e madonne, cattedrali
e portafortuna. È un'Italia che lascia perplessi noi italiani ma consola voi
stranieri, perché conferma le immagini che avete negli occhi: un film neorealista,
che non obbliga a faticosi aggiornamenti.
La
Stazione Centrale! I forestieri, in genere, la considerano un luogo memorabile
(non a torto: vista una volta, chi la scorda più?).
Anche
a me non dispiace. È fuori scala, un intervallo imperiale in una città
aziendale: non ci sta male. Quando posso, alzo lo sguardo (tenendo le mani
sulle valigie) e osservo. Così ho scoperto l'esistenza del Club Eurostar. Ufficialmente
è un servizio delle Ferrovie dello Stato che offre ai soci facilitazioni,
precedenze, sconti e una sala d'attesa. Di fatto, è il museo del passato
prossimo. È un luogo straordinario. Solo nelle stazioni della Transiberiana ho
visto qualcosa del genere: sala immensa, soffitti a volta, divani dai colori
accesi, piante verdi allampanate e tristi. Sulla parete sinistra, un piccolo
bar abbandonato: il personale è impegnato altrove, e il caffè scende solo e
malinconico dalla macchinetta. Sullo sfondo, un dipinto occupa metà parete: un
ex presidente della repubblica, tra due banconote, sorride con la pipa in
bocca, senza spiegare perché.
Club
Eurostar! Dietro il solito nome inglese si nasconde il reperto di una civiltà
che qualcuno credeva estinta: l'era parastatale. Gli Stati Uniti si sono
rifatti il trucco negli anni Settanta, il Giappone, la Gran Bretagna e la
Francia negli anni Ottanta, la Germania negli anni Novanta, dopo la riunificazione.
L'Italia pubblica, non ancora. Come una bella signora di scarsi mezzi, ha
cambiato il cappotto, ma la sottoveste è quella. Nulla di male: solo un po' di
malinconia, e un leggero imbarazzo quando arrivano gli ospiti.
***
Mi
piace viaggiare in treno. Come l'ascolto della radio e l'insegnamento
universitario, consente di fare altro. Leggo, sfoglio, scrivo, sopporto quelli
che urlano nel telefonino, confidando le vicende più intime all'intero
scompartimento che non vuol sentire.
Giorni
fa, tra Roma e Bologna, mi sono fatto una cultura giuridica. Un tipo col
pizzetto ha chiamato venti amici per spiegare com'era riuscito a insabbiare non
so quale processo. A ogni interlocutore forniva nuovi particolari su avvocati,
giudici, norme e strategie procedurali. A Firenze avevo già deciso che
avrebbero dovuto condannarlo. Cosa mi piace, dei viaggi in treno? Mi piacciono
le partenze, per cominciare. C'è un'umanità che trascina bambini e pacchi,
impreca sotto il peso delle valigie, fuma lungo i binari. Qualcuno saluta dal
finestrino e si commuove, come in un vecchio film. Forse è una comparsa
ingaggiata dalle Ferrovie dello Stato, per creare un po' d'atmosfera tra un
ritardo e l'altro.
Dei
treni è bello anche il rumore. Mentre il mondo dei trasporti punta verso
l'insonorizzazione, le ferrovie producono ancora un baccano soddisfacente. In
una camera d'albergo, il brusio della strada distrae, i cigolii dell'ascensore
irritano, il ronzio dell'aria condizionata disturba. Il rumore dei treni, invece,
rilassa.
Niente
sferraglia bene come un accelerato che - noi lo sappiamo, ma voi no - è il
treno più lento, nonostante il nome. Niente consola di più della voce che, dopo
sei ore di viaggio, comunica l'arrivo in anticipo sull'orario stabilito. Non è
un annuncio, è un'epifania. Forse per questo succede una
volta
l'anno.
***
I
treni italiani sono luoghi di confessioni di gruppo e assoluzioni collettive:
perfetti, per un paese che si dice cattolico. Ascoltate cosa dice la gente,
guardate come gesticola: è una forma di spettacolo. Dite che le due cose –
confessionale e palcoscenico - sono incompatibili? Altrove, forse. Non in Italia.
Siamo
una nazione dove tutti parlano con tutti. Non è stata la modernità a cambiare
la piazza del Sud, ma la piazza del Sud a influenzare la modernità italiana.
Provate
a seguire le conversazioni in questo treno diretto a Napoli (via Bologna, Firenze
e Roma). Sono esibizioni pubbliche, piene di rituali e virtuosismi, confidenze
inattese e sorprendenti reticenze. «Uno raggiunge subito una nota di intimità
in Italia, e parla di faccende personali»: così scriveva Stendhal, e non aveva
mai preso un Eurostar.
Guardate
quei tre. Sembrano colleghi di ritorno da una riunione di lavoro. Non parlano,
annunciano. Non comunicano: emettono piccoli comunicati, preparati dal
microufficio stampa che ognuno si porta nella testa. Discutono, come sentite. Rivelano
particolari stupefacenti. Affrontano una questione dopo l'altra, sovrapponendo
gli argomenti e le voci. Il treno è il precursore di tutti i talk-show: offre
il set, lo sfondo, i personaggi e - a ogni stazione - la possibilità
dell'uscita di scena.
Oggi
in questa carrozza ci sono due consulenti aziendali, un sovraintendente alle
Belle arti, un'ex hippy ora direttrice del personale in un'azienda alimentare,
un disc-jockey, un piccolo imprenditore, una golfista, un giornalista, un
dirigente (in pensione) di una finanziaria, che parla male dell'ex capo. Alla graziosa
farmacista che legge un libro sull'Iraq è stato assegnato per errore lo stesso
posto prenotato da una bella ragazza bionda. Gli uomini presenti festeggiano
l'avvenimento, e offrono ospitalità a entrambe.
Ascoltate
le conversazioni. La scelta dei vocaboli è barocca: un'altra dimostrazione
dell'importanza dell'estetica nella vita italiana. Sapete perché in parlamento
non sono d'accordo ma «registrano una sostanziale identità di vedute»? E nelle
previsioni del tempo non piove, ma «sono previste precipitazioni in seguito a
un'intensificazione della nuvolosità»? Perché la complessità è una forma di
protezione (sono stato frainteso), una decorazione (sono istruito), un cosmetico
(amo decorare la realtà), un'iscrizione (appartengo alla casta dei medici, dei
meteorologi o degli avvocati; e noi parliamo così, ci dispiace).
Guardateli
di nuovo, quei tre nelle prime poltrone. L'attenzione con cui ciascuno ascolta
l'opinione degli altri è ingannevole. Osservate la tensione delle labbra e gli
occhi svelti. Il silenzio è solo attesa di prendere la parola.
Susan Sontag
ha scritto che nei paesi scandinavi, durante la conversazione, è palpabile la
tensione fisica che monta negli interlocutori («C'è sempre il pericolo che
possa finire la benzina, a causa dell'imperativo della riservatezza e dell'attrazione
esercitata dal silenzio»). Be', in Italia è un rischio che non corriamo, e
questo treno lo dimostra.
***
All'estero
c'è chi sostiene che imparare l'italiano non serve: basta guardare le mani
degli italiani mentre parlano. Non è vero, ma la malignità contiene
un'intuizione.
I
nostri gesti sono molti ed efficaci. Se ne sono occupati antropologi, fotografi,
vignettisti e linguisti.
Esiste
un Supplemento del Dizionario
Italiano, curato da Bruno Munari, composto solo da foto di mani che
comunicano (sloggia, torna, un momento!, che vuoi?).
Di
fronte ai gesti, molti di voi si sentono come tanti di noi davanti ai phrasal
verbs. L'inglese magari lo sappiamo, ma quella scarica di in, on, off
e out ci
sconcerta. Non ci rendiamo conto che non è necessario imparare centinaia di
combinazioni a memoria. Basta capire il meccanismo sottostante.
Prendiamo
«Italy used to breeze thru any crisis», una
volta l'Italia attraversava le crisi con disinvoltura. Perché un italiano si
sente preso in giro? Perché il concetto che noi esprimiamo con un avverbio («disinvoltamente»)
viene espresso nel verbo (to breeze); e
il concetto che noi esprimiamo con il verbo («attraversare») è contenuto nella
preposizione (thru). Bisogna capire, quindi, che ogni
preposizione esprime un concetto verbale, o più d'uno (about,
girare intorno; away,
allontanarsi; back, arretrare eccetera).
Per
interpretare i gesti italiani occorre usare la stessa tecnica.
Non c'è
bisogno di catalogarli, come fece il canonico Andrea de Jorio nel 1832 (La
mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, 380
pagine di testo, 19 illustrazioni). Basta capire il concetto verbale racchiuso
in un movimento.
Guardate
le mani di quella coppia che discute. Gesti verso l'esterno: vattene, sparisci,
arretra. Gesti verso l'alto: attenzione, successo, fatalismo. Gesti verso il
basso: delusione, difficoltà, condanna. Gesti circolari: girare intorno (fisicamente,
metaforicamente). Gesti verso la testa: comprensione, intuizione, follia. Gesti
verso orecchi, occhi, naso, bocca e stomaco: ascolta, guarda, annusa, mangia.
Dita raccolte: sintesi, complessità, perplessità. Pugni chiusi: rabbia, irritazione.
Mani aperte: disponibilità, rassegnazione. Eccetera.
Ancora
non capite quei due che discutono? Vediamo. Lui stringe i pugni: è arrabbiato.
Lei mostra il palmo delle mani: dice di non prendersela. Lui sfrega il pollice
e l'indice: vuol dire «soldi». Lei avvicina gli indici delle due mani: vuol
dire «se la intendono». Semplice: i due discutono di un caso di sospetta
corruzione. Certo, questo non potete pretendere di capirlo alla prima lezione.
Occorre un dottorato, ma bastano anche dieci anni in Italia.
***
Mi
domandate se sappiamo ridere. Direi di sì: anche troppo. Giacomo Leopardi un
poeta italiano che amava gli italiani, anche dopo aver capito con chi aveva a
che fare - sosteneva che ci prendiamo gioco di tutto perché non abbiamo stima
di niente.
Qualcosa
di vero c'è. Esiste un lato scettico, nel nostro carattere, che confina col
cinismo. Una capacità di osservazione disincantata che attraversa la
letteratura, il cinema, il teatro, la vita della gente. Nei paesi le persone
hanno ancora un soprannome - spesso impietoso, sempre accurato – e molti
cognomi italiani (Bassi e Guerci, Malatesta e Zappalaglio) rivelano un realismo
amaro. La risata italiana, quando arriva, sale dalla pancia. Quella britannica
scende dalla testa. Quella americana viene dal cuore e sbuca dalla bocca. Quella
tedesca viene dallo stomaco, e lì rimane.
Il
nostro problema, quindi, non è ridere. Semmai è sorridere, anche perché nessuno
ci aiuta nell'impresa. I personaggi pubblici dotati d'umorismo esistono, ma
quasi si vergognano di questa loro dote. L'ironia - se non è santificata da
Woody Allen o impreziosita da lingue che non si capiscono - viene considerata
una forma di disimpegno, e silenziosamente disapprovata. La persona spiritosa,
inesorabilmente, s'incattivisce. I sorrisi diventano prima risate, poi
sogghigni.
La
degenerazione dell'ironia nel sarcasmo, e del sarcasmo nell'invettiva,
meriterebbe d'essere studiata. Ma non abbiamo tempo, e mi limito a comunicarvi
un sospetto che non è solo mio. Alcune vicende italiane sono così grottesche da
rendere impossibile - anzi, inutile - la satira. Inventi un paradosso, e il
giorno dopo qualcuno ha combinato qualcosa di più paradossale. Non c'è gusto, e
non è giusto.
Beppe Severgnini
(La Testa degli Italiani – 2005 – Rizzoli)
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