venerdì 31 gennaio 2014

Un giorno i giapponesi getteranno 30 Atomiche su New York

Caroline Kennedy, figlia di JFK, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi "profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell'uccisione dei delfini" e ricordando che "il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica". La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e "come la signora ambasciatrice deve sapere noi viviamo di questa attività" ha detto il capo dei pescatori di Taiji.
Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla 'chi cojo cojo', con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini. Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka ha replicato "La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?". E il governo nipponico ha tenuto il punto: "Questa forma di caccia è una tradizione culturale".
E' il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta "delusa" perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati "anche 14 leader politici e militari giapponesi", condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l'equivalente nipponico di quello di Norimberga. Nel settembre 1986 il ministro dell'Educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l'elementare domanda: "Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?").
In realtà dietro queste schermaglie c'è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall'università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su "Americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell'Europa". In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è 'la quarta sponda' degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell'animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c'era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene per giorni e giorni lo Yumiuri Shimbun e l'Asahi Shimbun, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire 'rubato'. La partita era solo un pretesto. I giapponesi non hanno mai digerito l'Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di 'dedivinizzare' l'Imperatore. L'Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c'è stato un solo tentativo di attentato all'Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la 'dedivinizzazione' dell'Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l'anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di Atomiche su New York.


martedì 28 gennaio 2014

Come trasformare una minoranza elettorale in una maggioranza parlamentare

Il Porcellum non esiste più. La Corte costituzionale lo ha dichiarato incostituzionale. Se si dovesse votare domani si voterebbe con una legge proporzionale con sbarramento al 4%. Che – sbarramento a parte – per la democrazia e i cittadini è infinitamente meglio di qualunque marchingegno maggioritario. Ma è proprio questo il punto: ciò che va bene per la democrazia e i cittadini non può andar bene per Renzi e Berlusconi, i due che – scopertisi in profonda sintonia – si sono messi d’accordo per una nuova legge truffa maggioritaria. L’obiettivo è quello di andare verso un sistema bipolare: due schieramenti (Pd e FI con i relativi cespugli) o, ancora meglio, due partiti, tenendo fuori dalla rappresentanza parlamentare quei milioni di elettori che non si sentono rappresentati da Pd o Fi. Modello Usa. Saremo così finalmente un paese moderno, libero da ideologie socialisteggianti e da nostalgie novecentesche. E per meglio far capire l’aria che tira, il decisionista Renzi ha chiarito che l’intesa con Berlusconi è “non modificabile in aula”. Quattro parolette che significano: emendamenti potranno essere discussi, ma solo con l’accordo di tutti, cioè solo se Berlusconi è d’accordo. Così, tanto per rafforzare il ruolo del Parlamento, difendere la Costituzione e valorizzare la democrazia rappresentativa.
Ma una legge elettorale non dovrebbe essere compito del Parlamento che, prima ancora che votarla, dovrebbe discuterla nelle sue commissioni? Niente di tutto questo. La nuova legge elettorale nasce da un accordo extra parlamentare fra uno che non è parlamentare e un pregiudicato, parlamentare decaduto. Per fare una legge elettorale più democratica? Macché. Per fare una legge elettorale che metta d’accordo Pd, FI e Alfano in base alle reciproche convenienze elettorali. Con questo colpo di genio, Renzi riporta Berlusconi, anzi il “presidente Berlusconi” come lui lo chiama, al centro della politica (ma non doveva asfaltarlo?) dandogli un insperato aiuto per la sua già iniziata campagna elettorale. Spacca il Pd, ma forse è quello che vuole per liberarsi di una fastidiosa minoranza interna. Contribuisce al prossimo successo elettorale del M5S, che raccoglierà i voti di altri elettori delusi del centro sinistra. E ridimensiona la figura politica di Letta, il che non è male come effetto collaterale. Insomma, un successone.
Cosa prevede la nuova legge truffa? Vediamone i due aspetti principali. Primo, niente preferenze (come col Porcellum), e quindi di nuovo un Parlamento di nominati. Secondo, sbarramenti al 5% e all’8% (peggio che col Porcellum), e quindi un Parlamento in cui ci saranno solo Pd, Fi e M5S. Per Berlusconi meglio di così non poteva andare. Potrà riaggregare gli alfaniani, la Lega e fascisti vari in una coalizione che batterà a mai basse un Pd in stato confusionale, mentre Grillo starà a guardare.
Per convincere gli italiani a trangugiare l’ennesimo rospo, si dice che, eliminato il Porcellum, non c’è più una legge elettorale, che c’è un vuoto legislativo. Falso. La legge elettorale c’è, è quella andata in vigore automaticamente dopo la decadenza del Porcellum, è il sistema elettorale proporzionale. Ma questo viene nascosto dalla maggioranza dei media, da giornali e tv allineate e omologate al sistema. E quindi, siccome tutto questo non appare, è come se non esistesse e si può raccontare la storiella del vuoto legislativo.
Si dice anche che il proporzionale renderebbe ingovernabile il Parlamento. Ma questa ingovernabilità c’è stata anche con un sistema ultramaggioritario come il Porcellum. E allora cosa bisognerebbe inventarsi per rendere governabile il Parlamento, cioè per metterlo in condizioni di non nuocere, e cioè per escluderne tutti i partiti tranne i due che quasi per “diritto divino” sarebbero chiamati a governare con il sistema dell’alternanza? Uno sbarramento al 20%?
E mentre tutto questo accade, Letta porta l’assalto finale ai beni pubblici. Il governo ha deciso di privatizzare le Poste. Il 40% per cominciare, poi si vedrà. Così dice Saccomanni, il ministro dell’economia. Le Poste, raccogliendo il risparmio di milioni di italiani, portano ogni anno un fiume di denaro nelle casse dello stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Dopo la privatizzazione questo fiume di denaro andrà ogni anno nelle tasche di quelli che si sono comprati le Poste (probabilmente a prezzi di saldo, come l’esperienza di tutte le privatizzazioni insegna). Secondo il governo la cifra raccolta con la privatizzazione sarà utilizzata per diminuire il debito pubblico. Attenzione! Non per migliorare il servizio, ma per abbassare di qualche punto percentuale un debito pubblico che comunque continuerà a salire negli anni successivi, dato che nessuna delle cause che ne stanno alla base viene affrontata. Letta queste cose le sa benissimo, ma per tentare di stare in piedi deve far vedere ai liberisti di Bruxelles che è più liberista di loro.

 

lunedì 27 gennaio 2014

LA LEZIONE DI MACHIAVELLI: «REPUBBLICA INETTA NAZIONE CORROTTA»

Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi
Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes?
Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti.
E quando la repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’”occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”.
Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere – è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta.
Ma questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna – appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano.
Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica.
Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai.
Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

Massimo Cacciari (Jack's Blog - 26 gennaio 2014
 

L'Onu, inutile zerbino degli Stai Uniti

Una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l'Onu è solo un costosissimo fantasma a uso e consumo degli americani (che peraltro non ne pagano nemmeno le quote), è venuta dalla Conferenza di pace sulla Siria tenutasi a Montreux con la partecipazione di una quarantina di Paesi. Il giorno prima dell'inaugurazione il Segretario generale Ban Ki-moon aveva invitato a partecipare anche l'Iran. Ma la cosa ha provocato la "forte irritazione" degli americani e questo è bastato perché la sera stessa Ban Ki-moon ritirasse l'invito. E' paradossale che a questa Conferenza partecipino l'Indonesia, l'Australia, il Messico, paesi lontanissimi dalla Siria e non l'Iran che ce l'ha sull'uscio di casa. E' vero che l'Iran sostiene Assad, ma non diversamente da Russia e Cina e con maggiori ragioni poiché la guerra civile in Siria lo implica direttamente. Ulteriore paradosso è che il niet americano sia arrivato proprio il giorno in cui è stato ufficializzato lo stop all'arricchimento dell'uranio iraniano al 20% mentre rallentano i reattori di Natanz, Fordow, Arak, come conferma l'Aiea. Ma non importa, gli ayatollah restano nell' 'Asse del Male'.
Gli americani sono invece il Bene. L'Onu, per loro, "va su e giù come la pelle dei coglioni". Se gli serve è un'istituzione autorevole, se non gli serve ridiventa un fantasma di cui si può fare tranquillamente a meno. Con la copertura dell'Onu si giustificano l'occupazione dell'Afghanistan che dura da dodici anni, la creazione di governi fantoccio, le elezioni-farsa (alle prossime si presenterà il fratello di Karzai, noto narcotrafficante) oltre, naturalmente, gli assassinii di decine di migliaia di civili (gli americani sono anche riusciti a scambiare per guerriglieri talebani anche dodici bambine che raccoglievano legna nel bosco). Ma vorrà pur dir qualcosa che la guerriglia resista da dodici anni al più potente esercito del mondo e che i comandi degli occupanti, oltre al governo Quisling, debbano rimanere asserragliati nella protettissima 'zona verde' di Kabul. In compenso, i media del Bene, e dei suoi alleati, fan circolare a getto continuo notizie false come quella che i Talebani avrebbero il sostegno dei servizi segreti pakistani. Se fosse vero avrebbero almeno qualche missile Stinger per controbattere l'aviazione che li mette in uno stato di quasi insuperabile inferiorità (con gli Stinger la guerra sarebbe finita da un pezzo, con la cacciata degli stranieri, come avvenne con i russi). Ma di questa guerra afgana, la più lunga e la più infame degli ultimi secoli, non frega niente a nessuno, mentre si propala la falsa notizia di un ritiro degli occupanti entro la fine del 2014, falsa perché in Afghanistan rimarranno 80 mila soldati Usa, migliaia di istruttori dell' imbelle esercito 'regolare' afgano e soprattutto le basi dell'aviazione.
L'Onu aveva detto no all'invasione dell'Iraq. Ma il Bene aveva deciso che era venuto il momento di sbarazzarsi di Saddam, che aveva a suo tempo foraggiato con armi chimiche. Risultato: 750 mila morti e ora una feroce guerra civile fra sunniti e sciiti che provoca centinaia di vittime alla settimana. Ma al Bene non cale, perché intanto se n'è andato.
Il Bene, poiché è tale, può far tutto: guerre, invasioni, occupazioni, ardite evoluzioni dei suoi Rambo che provocano una ventina di morti (Cermis), stupri (di ragazze napoletane), rapimenti e sequestri di persone in territorio italiano per poterle poi torturare a proprio piacimento nell'Egitto del nobile Mubarak (Abu Omar), ottenendo poi il salvacondotto dell'ottimo e sempre commosso Presidente Napolitano. Se questo è il Bene io sto col Male.


Come rispondere a insulti e provocazioni

Alle medie andavo a judo, come tutti quanti. Un cliché per un undicenne. Ero convinto che con un corso di arti marziali sarei riuscito a superare i limiti del mio fisico tutt'altro che imponente, addirittura speravo di arrivare a incutere un reverenziale timore nei miei coetanei, come con naturalezza riuscivano a fare gli amici meglio equipaggiati in peso e muscolatura. Rimasi piuttosto deluso quando alla prima lezione - in uno scantinato che puzzava di muffa - il maestro ci spiegò che la parola judo si poteva tradurre come "via della gentilezza", e che avremmo imparato a usare la forza dell'avversario per sottometterlo. Delusione, dicevo: volevo diventare forte, io, dell'avversario me ne fregavo.
C'è voluto un po' di tempo, prima che capissi quanto poteva essere efficace quell'approccio all'apparenza morbido: lanci e leve funzionavano indipendentemente dalla furia dell'attacco subito. Era affascinante. Non sarei mai diventato il duro che volevo, ma mi sentivo meglio.

JUDO CON LE PAROLE La stessa sensazione si prova appena chiuso il libro scritto da Barbara Berckhan. Tedesca, cinquantasette anni, pedagoga e psicologa per formazione, la Berckhan dai Novanta in poi si è dedicata - come dice lei - "alla ricerca di metodi per migliorare i rapporti tra le persone": un percorso sfociato nella scrittura di saggi capaci di vendere un milione e mezzo di copie in dodici paesi, tra i quali l'Italia. Tra questi il "Piccolo manuale di autodifesa verbale", fresco di stampa nella collana Urrà dell'editore milanese Apogeo. Il titolo originale a dire il vero rende meglio l'idea: "Judo mit Worten", "Judo con le parole". L'approccio, in effetti, è lo stesso dell'arte marziale giapponese: strategie capaci di rendere inoffensivo un attacco verbale, esclusivamente mirate alla difesa, mai all'attacco; semplici, facili da memorizzare, senza formulazioni complesse, applicabili in ogni situazione e quindi universali. Barbara Berckhan però va oltre le intenzioni del professor Jigoro Kano, fondatore (della versione fisica) del judo: le tecniche del "Piccolo manuale di autodifesa verbale" non solo portano alla sconfitta dell'avversario, ma riescono a non intaccare le vostre relazioni con quest'ultimo. Difficile da credere, a prima vista.
Eppure la tattica morbida serve soprattutto a questo: evitare il combattimento, che provoca strascichi negativi. E poi è fonte di stress, non fa bene alla salute, anche se si vince. L'ormone che ci fa produrre, il cortisolo, attacca il cuore e la circolazione, disturba la digestione e la libido. Meglio farne a meno. Chiaro perciò che il fondamentale presupposto di ogni controstrategia sia sempre lo stesso: rimanere calmi. La lucidità è l'arma più importante.

Racconta Barbara Berckhan che chi frequenta i suoi seminari di comunicazione si presenta spesso davanti a lei con lo stesso atteggiamento con cui io mi sono presentato davanti al primo maestro di judo: sogna di diventare maestro di dialettica, capace di mettere al tappeto con una risposta pronta, brillante e spontanea al tempo stesso, chiunque sia arrogante o irrispettoso. Meglio spegnere subito un'illusione del genere: si tratta di una capacità estremamente ardua da conquistare, nonostante gli illustri esempi di chi, attraverso la storia, si è esercitato nell'arte della tenzone verbale, dai poeti medievali ai rapper. La vita reale non è un episodio di Mad Men, senza copione è difficile mettere in scena uno scambio di battute perfetto. L'unico modo per migliorare la propria capacità di risposta alla provocazione è piuttosto quello di abbassare le aspettative e di conseguenza il proprio livello di stress: ancora una volta, l'ansia da prestazione non è un buon viatico per improvvisare controstrategie verbali efficaci. E poi, spesso non è necessario neppure rispondere: davanti a un'offesa inaspettata si può scegliere il silenzio, che non è una resa a meno che noi stessi non lo interpretiamo come tale. Perché perdere tempo a rispondere allo sconosciuto che ci insulta? Non è necessario alla nostra vita futura, meglio ignorarlo. Quando possibile, ovviamente.

UOMINI E DONNE Le cose si fanno più complicate nel caso in cui le relazioni siano necessarie, ad esempio tra colleghi. E ancora di più quando protagonisti dello scontro sono uomini e donne: più spesso di quanto ci accorgiamo, sostiene la Berckhan, le schermaglie verbali tra i sessi derivano da un atteggiamento innato. Il maschio sarebbe naturalmente più portato, e abituato sin da piccolo, allo scontro verbale (per molti, l'affermazione è valida anche per quanto riguarda lo scontro fisico), che usa come modalità di gioco cameratesco tra pari. Al contrario, se una donna intende combattere con le parole, quasi sempre lo farà in modo serio. Ecco le radici dell'incomprensione: capita che l'uomo voglia "solo giocare", ma lei si offenda. Sembra una spiegazione semplicistica, quante volte ci siamo sentiti dire banalità sulle origini astronomiche della sensibilità maschile e di quella femminile; eppure il discorso dell'autrice appare continuamente confermato dalla nostra esperienza quotidiana, che ci fa morire in gola eventuali obiezioni.

METTERE IN PRATICA Terminata la parte teorica, non mancano idee pratiche, alcune piuttosto creative. Ad esempio, chi penserebbe mai di utilizzare il potere del nonsense per disinnescare un attacco verbale? Afferma Barbara Berckhan che trasformarsi in giullari sia l'arma migliore, contro l'arroganza di chi vuole affermare la propria superiorità: la risposta migliore contro quest'atteggiamento è quella che non ha senso. Ad esempio, a chi dice "Ah, il tuo è proprio l'atteggiamento tipico delle donne!" è giusto rispondere "certo: cuor contento il ciel l'aiuta." Significa qualcosa? No, ma serve. A confondere l'avversario con un atteggiamento molto serio e parole senza senso, confidando sul fatto che l'arrogante non sia, in fondo, né particolarmente intelligente né davvero sicuro di sé.
Così prende forma l'idea fondamentale di questo manuale, che a dispetto del titolo non insegna tanto a controbattere, quanto a essere superiori. Assai diverso dal sentirsi tali.

 

mercoledì 22 gennaio 2014

Il lavoro è schiavitù. Ripensiamolo

Quando al V-Day di Genova Grillo, abbandonato per un momento il mantra del «Tutti a casa», che campeggiava anche sulle magliette distribuite in Piazza della Vittoria è tornato sul tema del lavoro (già sfiorato in altre occasioni senza ottenere molta attenzione) visto pero' in un'ottica completamente diversa da quella attuale («Chi non lavora non mangia») affermando che «il lavoro è schiavitù e deve essere ripensato», la folla osannante che gremiva la piazza non lo ha seguito e non lo ha capito. Eppure questa visione del lavoro è centrale se non nell'intero Movimento 5Stelle, certamente lo è, anche se in modo un po' confuso, nel pensiero del suo leader, cosi' come per la Lega delle origini lo era l'identità prima che tracimasse in xenofobia.
Prima della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. C'è qualche studioso (R. Kurtz, 'La fine della politica e l'apoteosi del denaro', Manifestolibri, 1997) che ipotizza che in epoca preindustriale non esistesse il concetto stesso di lavoro cosi' come noi modernamente lo intendiamo, semmai quello di mestiere che è cosa diversa. Anche la Chiesa, almeno a stare a San Paolo, considerava il lavoro solo «uno spiacevole sudore della fronte». E' l'Illuminismo che, razionalizzando gli straordinari sconvolgimenti portati dall'industrialismo, fa del lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per Marx il lavoro è 'l'essenza del valore', per i liberisti (Adam Smith, David Ricardo) è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso 'plusvalore'. Da questo punto di vista liberismo e marxismo si differenziano molto poco (Stakanov è un'eroe dell'Unione Sovietica e Lulù, nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè, è, almeno nella prima parte del film, lo Stakanov italiano nel beffardo capolavoro di Elio Petri, 'La classe operaia va in Paradiso'). E' da qui che ha inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi oggi non produciamo nemmeno più per consumare ma consumiamo per poter continuare a produrre. E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute. O la cassiera di un Supermarket deve considerare vita passare otto ore al giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in un call-center. Volete altro? Che senso ha aver inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il tempo cosi' guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione di strumenti ancor più veloci in un circolo vizioso che non ha mai fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l'abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario. Cio' a cui, sia pur confusamente, pensa Grillo (e non so se i suoi giovani seguaci, tantomeno i suoi elettori, l'hanno capito) è un ritorno al passato. Non è un rivoluzionario ma un reazionario (anche se, a questo punto, le due cose finiscono per coincidere). Pensa a un ritorno all'agricoltura, all'artigianato, a una piccola impresa che non superi le dimensioni dell'antica bottega. Utopia? Oggi certamente si'. Domani forse no. Ed è qui che l'ormai vecchio Beppe si differenzia dal giovane paraculo Renzi. Rottamare tutti, mandare «tutti a casa» non ha senso se poi si continua col modello di sempre.


L’ex pm Gherardo Colombo, l’intervista: “Italiani? Più sudditi che cittadini

“La prima giustizia è la coscienza”, dice Jean Valjean, travestito da monsieur Madeleine, ne ”I miserabili’ di Victor Hugo. Si rivolge a Javert, l’ispettore che incarna la giustizia cieca, testarda e inesorabile. Una prospettiva che è stata spesso l’orizzonte prevalente del dibattito, nel Paese dove da vent’anni si farnetica di una supposta guerra tra politica e magistratura: il futuro della giustizia resta un perno centrale nella vita democratica. E dunque anche della salute dell’Italia: siamo venuti a parlarne con Gherardo Colombo, ex magistrato, scrittore, presidente di Garzanti e membro del consiglio di amministrazione della Rai. Sta lavorando – spiega mentre tenta di salvare una pantofola dalle fauci di Luce, Golden retriever di sette mesi – a uno spettacolo tratto da ‘Imparare la libertà, il potere dei genitori come leva di democrazia’, manuale per educare senza punire, scritto a quattro mani con Elena Passerini (ed. Feltrinelli). Il debutto è previsto per il 24 febbraio a Roma. Sul palco, con Colombo nei panni del professore, ci saranno anche Piotta, il bidello, e due studenti: Sara Colombo, figlia di Gherardo, e Cosimo Damiano D’Amati che è anche il regista.
Dottor Colombo, quando si parla di rapporti tra giustizia e politica, l’obiezione prevalente è che la magistratura si sostituisce alla politica. Nel caso della Consulta sul Porcellum è stato fatto di tutto per evitare la sostituzione, eppure il legislatore è rimasto a guardare nonostante i numerosi moniti e del Colle.
I giudici – di qualunque grado e tipo – hanno il compito di rispondere alle domande che vengono loro rivolte. È stata sollevata, non a torto, una questione di legittimità sulla normativa elettorale: la Corte ha risposto. A Torino la domanda di chiarimento al Tar sulla validità delle elezioni regionali è stata avanzata da uno degli attori politici. Se coloro che esercitano la funzione politica fossero capaci di risolvere le questioni all’interno della propria funzione, la magistratura non dovrebbe intervenire! Esiste, però, un problema di tempi: in queste materie in particolare, le questioni dovrebbero essere risolte in qualche mese, non in qualche anno. Anche se i motivi, molto frequentemente, non possono essere addebitati ai giudici.
L’etica è stata “ristretta” al diritto penale: d’accordo?Questo è il problema. Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto quello che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perché come effetto ha una sanzione, non l’identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.
Nella Prima Repubblica non era così. O era un po’ meno così: non sarà mica “colpa” di Mani Pulite?Durante la Prima Repubblica molte cose accadevano nell’ombra. Non farei un’apologia di quegli anni: non dimentichiamo la P2, la stagione delle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, da Peteano all’Italicus. E poi c’erano meccanismi di autoconservazione del potere estremamente collaudati ed efficienti. Io credo che l’emersione di Tangentopoli sia strettamente connessa alla caduta del Muro di Berlino. L’Italia era un Paese di confine, in cui si era arrivati a un equilibrio basato su “stanze di compensazione”: il potere si salvaguardava nel suo complesso. Cade il Muro di Berlino e finisce quella contrapposizione – da una parte il mondo occidentale, dall’altra l’Unione Sovietica – in cui entrambi i blocchi avevano un interesse forte sul nostro Paese: perciò la violazione delle norme sul finanziamento ai partiti era ampiamente praticata. L’equilibrio salta, e allora per una piccola finestra temporale, abbiamo potuto indagare in un modo impensabile fino a poco prima, perché in un modo o in un altro succedeva qualche cosa che bloccava le indagini. Torno alle inchieste sulle stragi: quale incredibile serie di trasferimenti ha dovuto subire il processo per piazza Fontana! L’ostacolo alle indagini era quasi la prassi, a volte anche con il coinvolgimento della magistratura: è stata la magistratura a fare in modo che il processo di piazza Fontana andasse in giro per l’Italia fino a morire. Anche senza voler pensare alla malafede, i fatti sono questi. Così è successo per la P2, per i fondi neri dell’Iri: se i processi fossero rimasti a Milano, gli esiti sarebbero stati senz’altro diversi.
Il Tribunale di Milano era diverso?Milano, negli anni delle stragi, della P2 e dei fondi neri Iri rappresentava una delle non frequenti eccezioni rispetto al pensiero corrente in magistratura secondo cui il potere era esonerato dalla verifica giurisdizionale. Se veniva alla luce qualcosa che riguardava persone che gestivano il potere e iniziavano le indagini, nel giro di poco tempo tutto si bloccava. La stragrande maggioranza dei giudici del Dopoguerra si era formata sotto il Fascismo. E quindi, l’atteggiamento era quello al quale si era stati abituati dal regime: in certi cassetti non si guarda. Con il tempo progressivamente le cose cambiano. Viene istituita la Corte costituzionale e questa estromette dall’ordinamento tante norme risalenti a prima della Costituzione; nasce il Csm e si compie un importante passo verso l’indipendenza della magistratura stessa dagli altri poteri dello Stato; c’è un progressivo ricambio generazionale, perché via via che il tempo passa i magistrati che si erano formati sotto il Fascismo vanno in pensione. Torniamo a Mani Pulite: io sono entrato nell’inchiesta – su richiesta reiterata dei dirigenti del mio ufficio, Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio – nell’aprile del ‘92, due mesi dopo che Di Pietro aveva cominciato le indagini.
A luglio di quell’anno lei rilasciò la famosa intervista a Leo Sisti su L’espresso, in cui proponeva di risolvere la questione evitando la prigione a chi confessava e restituiva il maltolto allontanandosi per un po’ dalla vita pubblica. Lo pensa ancora?Avevo intuito che quella giudiziaria era una strada senza sbocco. La corruzione era davvero un sistema e sarebbe stato – come in effetti è accaduto – impossibile scoprire e gestire tutto. Non ci sono stime certe, ma il circa il 40% dei processi si è risolto con la prescrizione. Anche oggi penso che la soluzione non poteva essere giudiziaria, che sarebbe stato necessario investire molto a livello educativo.
E la P2?Il 19 marzo 1980, Prima linea ammazza Guido Galli, di cui ero collega all’Ufficio istruzione. Lo racconto perché in qualche modo c’è un collegamento con l’assegnazione dei processi che riguardano Sindona a Giuliano Turone e a me. Uccidono Guido, dopo aver assassinato un altro collega a Salerno e uno a Roma, e l’Ufficio istruzione di Milano rischia di dissolversi: tanti chiedono e ottengono di essere trasferiti, come volessero scappare. Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa. Avevo paura, avevamo tutti paura, ma in un po’ siamo rimasti. Essendo tra quelli che sono rimasti, i vari processi su Sindona furono assegnati a Giuliano, Gianni Galati e a me. Indagando su Sindona, scopriamo che Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva organizzato il viaggio clandestino di Sindona a Palermo subito dopo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e lo nascondeva in quella città, aveva incontrato ad Arezzo Licio Gelli più volte nello stesso periodo. Poiché Gelli già compariva a più riprese nelle indagini, abbiamo deciso di perquisire i luoghi che frequentava, tra i quali la Lebol – a Castiglion Fibocchi – di cui era dirigente. Era il 17 marzo 1981, ero in ufficio con Giuliano, ed eravamo piuttosto scettici sull’esito dell’operazione. A metà mattina il telefono squilla: è il colonnello Bianchi, che avevamo mandato con i suoi uomini della Guardia di Finanza da Milano a eseguire le perquisizioni, imponendogli di non prendere contatto con i colleghi del luogo perché fosse mantenuta la massima segretezza. Ci racconta che sono stati trovati documenti di rilievo eccezionale aggiungendo, stupefatto, che il comandante generale della Guardia di Finanza lo aveva contattato, dicendogli che nelle liste avrebbe trovato anche il suo nome…
…e non era il solo nome eccellente…La mattina dopo arrivano le carte, una cosa strabiliante. Ministri, sottosegretari, parlamentari, generali dei Carabinieri, dell’Esercito, della Finanza, il capo del Sismi, il capo del Sisde; i nomi di quelli che avevano depistato le stragi. C’era il nome di Sindona, il nome del generale Massera, coinvolto nel colpo di Stato in Argentina di pochi anni prima. C’erano i nomi di magistrati, imprenditori, giornalisti e via dicendo. Ritenendo necessario che i vertici delle istituzioni venissero informati della gravità della situazione, dopo aver tentato invano di contattare il presidente della Repubblica Pertini che era in viaggio istituzionale in Sudamerica, fummo ricevuti dal presidente del Consiglio Forlani, il 25 marzo. Ad aprirci la porta di Palazzo Chigi fu il prefetto Semprini, che figurava nell’elenco degli iscritti alla P2. Forlani minimizzava, ma alla fine riconobbe la gravità della situazione.
Pressioni?Pressioni direi di no, ma il procuratore della Repubblica di Milano, Gresti, ci chiese di restituire le carte a Gelli! Intanto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni: Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. La nostra sensazione – ascoltavamo la seduta parlamentare da Radio Radicale – è che il capo del governo volesse scaricare su di noi la responsabilità della pubblicazione delle liste. Circolavano, messe in giro ad arte, un sacco di voci sugli iscritti alla P2. Con il consigliere istruttore Amati, che era il nostro dirigente, Turone e io scriviamo una lettera in cui diciamo che ritenevamo coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a noi, ma non il restante materiale. De Martino annuncia che la Commissione Sindona avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste e dunque Forlani decide di farlo lui stesso: una settimana dopo cade il governo.
E le famose buste sigillate?Erano circa 35, più o meno ognuna conteneva una notizia di reato. Le accenno al contenuto di due, giusto per capirci. Parlano di un conto, “Protezione”, presso la banca Ubs di Lugano, con riferimenti all’onorevole Claudio Martelli, e di versamenti per milioni di dollari a favore di Bettino Craxi. Oltre alle buste, in una Banca di Castiglion Fibocchi, trovammo le prove del pagamento delle quote d’iscrizione alla P2. Tutti erano disorientati. Allora l’idea era che i magistrati rispondessero a qualcuno in sede politica.
Quest’idea è rimasta: hanno annullato le elezioni in Piemonte e il segretario della Lega Salvini ha dato la colpa alla magistratura comunista. È un ritornello che abbiamo sentito in tutto il ventennio berlusconiano.Certo, in modo strumentale. Allora invece era spesso vero che i magistrati rispondessero a qualcuno riservatamente in sede politica! C’è chi dice che secondo il manuale Cencelli la poltrona di Procuratore della Repubblica di Roma valesse quanto un ministero. I politici impazzivano, perché non erano in grado di attribuirci un’appartenenza. Non sapendo per conto di chi lavoravamo non sapevano con chi lamentarsi, o a chi rivolgersi per fermarci o per trattare. Non pensavano che fossimo veramente indipendenti! Sta di fatto però che nel giro di meno di sei mesi la Procura di Roma ha sollevato conflitto di competenza, la Cassazione le ha dato ragione, le carte sono trasmigrate a Roma e le indagini di maggior rilievo sono state subito archiviate.
E per Mani Pulite, pressioni?Io posso parlare per me: mai nessuna. Se c’è stato qualche tentativo di avvicinamento, è stato subito bloccato. Borrelli è stato fondamentale per garantire la nostra piena autonomia.
In questo pregiudizio sulla scarsa indipendenza della magistratura dalla politica quanto hanno pesato le correnti del Csm?Sono stato iscritto a Md da quando sono entrato in magistratura fino a quando mi sono dimesso, ma – salvo un incarico giovanile locale – non ho mai ricoperto funzioni istituzionali.
Però lei è stato a lungo un simbolo di Magistratura democratica.Non intendevo affatto negare l’appartenenza, solo specificare che ho fatto poca vita associativa. Finché non c’è stato il Csm, le funzioni venivano svolte per un verso dal ministero e per l’altro dalla Cassazione: organi entrambi, allora, molto sensibili al potere. All’inizio degli anni Cinquanta, chi faceva il giudice in Cassazione si era formato in una società organizzata da regole che, per esempio, vietavano il voto alle donne, stabilivano discriminazioni all’interno della famiglia, consideravano reato l’adulterio femminile ma non quello maschile. C’era chi aveva sviluppato un pensiero alternativo, ma la massa era piuttosto allineata. La Costituzione, in conseguenza, veniva considerata più come un complesso di affermazioni programmatiche che non la legge fondamentale della Repubblica. Le correnti arrivano dopo: originariamente le posizioni erano perlopiù molto conservatrici, ed era quasi sovversivo allora essere in sintonia con la Costituzione. Magistratura democratica nasce nel 1964 e progressivamente nasce il paradosso dei magistrati politicizzati.
Si è sentito spesso dire che Md è stata ispiratrice di molte indagini delle toghe rosse.Una cosa che posso dirle per certo è che io non sono stato mai “ispirato” da nessuno. Le indagini sono “ispirate” dalle notizie di reato. Piuttosto credo che queste affermazioni siano spesso volte a distogliere l’interesse dal merito delle indagini e dei processi. Per sapere se un’indagine è giustificata occorre leggere le motivazioni delle sentenze, cosa che credo avvenga davvero molto raramente.
Altro però è la gestione del potere all’interno della magistratura, per esempio la questione della spartizione degli incarichi tra le correnti.Non c’è dubbio. Qui penso che ci siano problemi. È una questione culturale, che riguarda in generale il Paese. La competenza ha perso significato e valore, e a volte vale di più l’appartenenza rispetto alla capacità e alla preparazione. Temo che anche la magistratura si sia adeguata alla tendenza generale qualche volta, e che taluni incarichi siano stati assegnati attraverso accordi tra le correnti basati, appunto, sulle appartenenze.
I magistrati fanno carriera in base all’anzianità di servizio.Il problema è più generale, riguarda la gestione dell’autonomia della magistratura. Le sembra logico che i criteri di scelta del dirigente di un ufficio siano, appunto, l’anzianità o se va bene, la bravura nello scrivere sentenze o nel dirigere le indagini? Il capo di un ufficio deve essere in grado di organizzare. Per dire, la Procura di una grande città, come Milano o Roma, è costituita, tra magistrati, polizia giudiziaria, cancellieri, personale amministrativo da circa un migliaio di persone.
Si parla di riforma della giustizia da sempre: da più parti s’invoca come risolutiva la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.Non credo che aver fatto lo stesso concorso di un pm pregiudichi la terzietà di un giudice. Tanto è vero che accade non di rado che le richieste della Procura siano rigettate dai giudici. Supponiamo che sia vero che l’appartenenza alla stessa categoria crea un rischio parzialità: non sarebbe allora assai più drammatica la comunanza tra giudici di primo grado, Appello e Cassazione? Il giudice dovrebbe sempre comportarsi in modo da comunicare, anche all’esterno, un’immagine di indipendenza. A volte non è così, ma la separazione delle carriere non c’entra nulla: esistono già norme, sul passaggio tra ruoli, a tutela dell’imparzialità. La partecipazione alla stessa carriera serviva soprattutto a trasmettere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Invece succede che il pm, per come la funzione è rappresentata dai media, è sempre più spesso identificato come l’accusa. Cioè qualcuno che ha come interesse la condanna, e non invece la corretta ricostruzione dei fatti.
Come è possibile che sia così poco percepito il rischio di una magistratura inquirente dipendente dal potere esecutivo, soprattutto in un Paese come l’Italia?Questo è un passo ulteriore: una volta separate le carriere, allora sarebbe possibile sottoporre la funzione inquirente all’esecutivo. Sarebbe tragico. Anche se forse a tanti italiani, che mi pare abbiano ancora la mentalità del suddito piuttosto che quella del cittadino, forse non dispiacerebbe.
Per via di questa mentalità ha lasciato la magistratura per andare a insegnare la Costituzione nelle scuole?Sì, anche ai bimbi piccoli. Capiscono molto più di quanto gli adulti vogliono credere e hanno una gran voglia di coinvolgimento, spesso frustrata da una scuola che, pur con eccezioni significative, tende più all’omologazione dei ragazzi che alla promozione della loro libertà responsabile.
Le esperienze politiche di ex magistrati o magistrati in aspettativa hanno suscitato molte critiche. Lei che pensa al riguardo?La Costituzione prevede per tutti il diritto di elettorato attivo e passivo. Credo allo stesso tempo che il principio della divisione dei poteri sia fondamentale, da un punto di vista formale e sostanziale, per cui dal mio punto di vista non guasterebbe se chi volesse dedicarsi alla politica si desse la regola di dimettersi dalla magistratura e di lasciar passare del tempo, due-tre anni, tra un’esperienza e l’altra.
Nino Di Matteo è stato più che minacciato, è stato oggetto addirittura di un ordine di esecuzione da parte di Totò Riina, nel silenzio assoluto delle istituzioni.In Italia, come in nessun altro Paese democratico, sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime erano spesso persone rimaste isolate: Falcone per esempio ha subito un progressivo isolamento. Sarebbe più che opportuno, anzi direi necessario e doveroso, che le istituzioni facessero sentire la loro vicinanza a Di Matteo. Anche con gesti simbolici, come la presenza fisica (una visita a Palermo, un convegno organizzato lì), ma che mi pare siano molto rari. Le persone che sono oggetto di quelli che a volte sembrano atti preparatori a un omicidio, dovrebbero essere il più possibile protette e garantite. Deve essere chiaro da che parte sta lo Stato.
In questo caso c’è un cortocircuito: nel processo sulla Trattativa, lo Stato è dalla parte sbagliata, quella degli imputati.Per quel che ne so nessuno tra coloro che ora ricoprono cariche istituzionali è indagato in quel processo.
C’è stata però la questione della distruzione delle conversazioni tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino.Mi pare che quella fosse una questione processuale e non andrebbe confusa con le più generali vicende delle minacce a Nino De Matteo.
Lei è anche consigliere del Cda della Rai, ormai al giro di boa di metà mandato. Bilancio?Questa è un’altra, lunga, intervista: bisognerebbe parlare di leggi, procedure, competenze, delle difficoltà nell’esercitare le funzioni. E tanto altro…


domenica 19 gennaio 2014

Napolitano, chi critica il Re merita il carcere

Con Peter Gomez ho presentato a Milano il libro di Travaglio Viva il Re!.C'è voluta proprio tutta l'insipienza e la mediocrità della classe politica italiana degli ultimi anni per far assurgere Giorgio Napolitano a un ruolo di protagonista. Nel Pci d'antan, quello dei Togliatti, degli Amendola, dei Pajetta, dei Lajolo e persino dei Colajanni, Napolitano era una semplice suppellettile. Si diceva che era autorevole. Se chiedevi a un ragazzo della Fgc, un 'figiciotto', di Napolitano ti rispondeva «Ah, è autorevole», ma perchè mai lo fosse non sapeva spiegartelo. Era autorevole perchè era li' da sempre, da epoche pleistoceniche. Tutte le generazioni di italiani viventi, e fra poco anche morenti, se lo sono trovati in casa, pomposo e inamidato, fin dalla nascita. Come Andreotti, con la differenza che il 'divo Giulio' ha segnato, nel bene e nel male, la politica italiana, mentre di Napolitano non si ricorda, prima di questi ultimissimi tempi, non dico un'azione, sarebbe pretendere troppo, ma un discorso di un qualche significato. Travaglio, nel suo sterminato archivio, puo' anche averlo trovato, ma ha dovuto cercarlo col lanternino, con quella luce che sta in capo al medico quando in sala operatoria deve fare un intervento di microchirurgia. «Un coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. Lui non agiva, 'partecipava'. Quando era giovane, si fa per dire, mentre i suoi compagni giocavano a pallone, lui stava a guardare. Per non inzaccherarsi la scarpe. Non era una cosa autorevole. «Nu guaglione fatt'a vecchio» lo aveva chiamato lo scrittore napoletano Luigi Compagnone. Veniva ricordato solo per un'imbarazzante somiglianza con Umberto di Savoia di cui qualcuno insinuava fosse figlio naturale. Ma questa mi pare una malignità gratuita. Ai danni del Re.
Adesso Napolitano determina la politica italiana e ha una falange di adepti non solo politici ma anche giornalisti. Un giornalista di Repubblica, Mario Pirani, un giornalista molto autorevole, ha chiesto l'incriminazione del Fatto per 'vilipendio al Capo dello Stato', un reato da Codice Rocco, un reato d'opinione che non dovrebbe esistere in una democrazia. E invece ce ne sono un mucchio, non tutti derivati dal Codice Rocco, alcuni di nuovo conio, come quella 'legge Mancino' (bello quello) che punisce «l'istigazione all'odio razziale». Credo sia la prima volta che si vogliono mettere le manette ai sentimenti. Nei regimi si puniscono le azioni, le idee ma, tranne forse che in Corea del Nord, non è obbligatorio anche amare il Capo.
Ma non è solo una questione italiana. Tira una brutta aria in Europa. Che non è quella dell'antisemitismo, ma del liberalismo liberticida. In Francia si vogliono vietare, oltre al velo, i teatri a un comico, Dieudonné M'bala M'bala, che fa satira antimperialista, antiamericana e anche antisemita. Ora, il teatro è storicamente l'ultima ridotta della libertà di espressione, quando tutti gli altri canali sono chiusi. Nella Jugoslavia di Milosevic l'opposizione si faceva a teatro (e per la verità anche fuori, molto di più che in questo regime).
Chiunque non è in linea con la 'communis opinio' è pronto per la garrota mediatica e, all'occorrenza, anche per le manette. Scriveva Stuart Mill che, con Locke, è uno dei padri della liberaldemocrazia: «La protezione dalla tirannide non è sufficente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee e usanze a chi dissente... a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello».


ORA IL GIOCO SI FA DURO

Enrico Letta chiamava in continuazione per sapere come andavano le cose e Matteo Renzi non rispondeva. È finita che ad aggiornare il premier sull’incontro con Berlusconi al Nazareno è stato lo zio Gianni Letta (la famiglia innanzitutto). Deve essere stato piuttosto rassicurante se poi Letta nipote ha comunicato che il segretario pd si muove nella giusta direzione. Questa è la prima notizia: il governo per ora non cade anche se nessuno può escludere che da ieri sera, qualche pozzo sia stato avvelenato. Due ore e mezzo di colloquio e totale sintonia fanno sapere i dialoganti, ma alla fine cosa hanno concordato? Una legge elettorale che rafforza i grandi partiti (loro) o le grandi coalizioni (sempre loro) e mette fuori gioco i piccoli, costringendoli per sopravvivere a farsi annettere dai più forti. Per Alfano una brutta notizia. Indicativo il suo tweet: non ci faranno tornare all’ovile. Vedremo. Allora si vota subito? No. Così dice Renzi, che ha bisogno di almeno un anno (primavera 2015) per cambiare la Costituzione e abolire il Senato. Oltre alla riforma del Titolo Quinto per tagliare le unghie ai furbetti delle Regioni, quelli che s’ingozzano di rimborsi. Anche il Pd renziano, insomma, muove all’attacco della vorace casta per togliere l’esclusiva a Grillo e, quando sarà, riprendersi almeno una parte di quei voti che ai Cinquestelle sono arrivati dai delusi di sinistra. Quanto al Condannato Decaduto, porta a casa una visibilità che non è più solo giudiziaria: la dimostrazione che pur se malconcio è sempre al centro del gioco. Ha sfinito Renzi con la solita pippa lamentosa sulla persecuzione delle toghe rosse accusando Napolitano di avergli fatto balenare una grazia mai più ricevuta. Napolitano, appunto, che si vede sottrarre le riforme dall’intraprendente sindaco. E consapevole che se lasciato troppo libero di fare il rottamatore rottamerà anche lui. Da oggi si vedra se e come l’accordo potrà reggere. E se i due conigli mannari, Letta e Alfano, s’inventeranno qualcosa per mandare tutto all’aria. Renzi si sta facendo un mucchio di nemici ma non ha scelta.


I GUARDIANI DEL BARO

Siccome la politica italiana è un manicomio organizzato, i giornali di ieri mattina riprendevano le dichiarazioni dei lettiani, dei bersaniani, dei dalemiani e dei napolitaniani, cioè di tutti gli sconfitti da Renzi alle primarie del Pd, con questo titolo: “Se fa l’accordo con Berlusconi, cade il governo Letta”. Raramente si era concentrata tanta demenza in così poche parole: come può il governo Letta, nato dall’accordo fra B. e il Pd con la benedizione di Napolitano, cadere se il segretario del Pd si accorda con B.?
Si dirà: ma B. e il suo partito non ne fanno più parte. Vero. Ma l’ha deciso B., non gli altri, che lo pregarono fino all’ultimo di restare con loro. 
Si dirà: ma B. è un pregiudicato per frode fiscale. Vero. Ma lo è dal 1° agosto e ha lasciato la maggioranza e il Senato a fine novembre: per quattro mesi è rimasto, da pregiudicato, alleato del Pd senza che Letta, Bersani, D’Alema e Napolitano muovessero un sopracciglio. 
Si dirà: ma se Renzi incontra B. nella sede Pd lo rilegittima e lo resuscita. Dipende: è vero se fa un accordo per riportarlo al governo; è falso se fa un accordo per una legge elettorale che ponga fine alle larghe intese. 
Si dirà: ma l’accordo per la legge elettorale va fatto con gli alleati di governo. Falso: una legge elettorale imposta dalla maggioranza alle opposizioni sarebbe una mascalzonata identica a quella del centrodestra che nel 2005 varò il Porcellum per fregare il centrosinistra alle elezioni 2006. Se Renzi facesse altrettanto, imponendo il sistema di voto a colpi di maggioranza (fra l’altro puramente virtuale, frutto del mostruoso “premio” del Porcellum appena dichiarato incostituzionale e antidemocratico dalla Consulta), regalerebbe a B. una formidabile arma polemica da spendere in campagna elettorale. È naturale che l’iniziativa di proporre una o più leggi elettorali agli altri partiti spetti a quello che ha raccolto più voti (il Pd); e che i destinatari della proposta siano, nell’ordine, le altre forze più votate (5Stelle, FI, Scelta civica, Lega, Sel ecc). Renzi s’è rivolto anzitutto a Grillo, che ha commesso un grave errore nel rispondere picche, rinchiudendosi autisticamente nel web-referendum fra gli iscritti (che è cosa buona e giusta, ma che non può legare preventivamente le mani ai “cittadini” di M5S, eletti apposta per occuparsi di questi temi in Parlamento). Tantopiù che aveva l’occasione di mettere in crisi il Pd, cogliendo al balzo la promessa di Renzi di rinunciare ai rimborsi elettorali, affamando i suoi apparati elefantiaci. In ogni caso, in attesa della consultazione fra gli iscritti, i 5Stelle sono in freezer e dunque Renzi, che ha una fretta boia, è passato al terzo partito classificato: FI. 
Si dirà: con B. non doveva parlare perché è un delinquente. Vero, ma con chi altri di FI doveva parlare? Era meglio Verdini, che ha più processi che capelli in testa? Con Fitto o con la Santanchè, condannati in primo grado? Dialogare con B. è il colmo dell’immoralità. Ma purtroppo nessuno, nel Pd, può credibilmente fare lo schizzinoso dinanzi all’incontro Renzi-B. Non D’Alema che nel ’95 invitò B. al congresso del Pds, poi andò in pellegrinaggio a Mediaset e lo incontrò a fine ‘96 per farci insieme non una legge elettorale necessaria, ma una riforma costituzionale inutile anzi dannosa nella Bicamerale. Non Bersani, che incontrò B. l’anno scorso per fargli scegliere il candidato del Pd al Quirinale nella persona di Marini. Non Letta jr., che si fece scegliere da B. come premier e lo incontrò per farci il governo di larghe intese. Non Napolitano, che ricevette B. per farsi chiedere di ricandidarsi e poi lo ringraziò per la sua condotta “da statista”? La vera questione, ora, è che Renzi non si faccia fregare da quel noto baro di B., che finora ha messo nel sacco chiunque credeva di farlo con lui. Insomma, ciò che conta è che, se accordo ci sarà, produca una buona legge elettorale, non una qualsiasi, purchessia.
Perciò, finite le consultazioni, Renzi dovrebbe prendere esempio dai 5Stelle e sottoporre il risultato a un referendum online fra gli iscritti del Pd. Lorsignori se lo mettano bene in testa: la legge elettorale non è roba loro. Appartiene a noi cittadini.

 

giovedì 16 gennaio 2014

Insulti e "social network" se lo sfogo del singolo in rete diventa devastante

Tutti i giornali italiani, compresi quelli di destra da Il Giornale a Libero, si sono giustamente indignati per la caterva di volgarità, insulti, auguri di morte piovuta dal web su Pierluigi Bersani colpito l'altro giorno da una grave emorragia cerebrale. Ognuno, come ho già scritto, ha diritto di odiare chi gli pare, ma farlo quando uno è quasi «drèe a muri», come si dice a Milano, non mi pare particolarmente elegante.
I 'social network', dove chiunque, spesso anonimo o sotto falso nome, puo' esprimersi senza freni inibitori si stanno rivelando, com'era prevedibile, un boomerang inquietante perchè portando a galla l'ombra che è in ciascuno di noi (tutti siamo dei potenziali assassini) creano, per sinergia e imitazione, una reazione a catena incontrollabile che forse per il singolo puo' essere liberatoria (ma allora è inutile e grottesco punire i tifosi juventini che, nel luogo destinato per definizione allo sfogo, lo stadio, gridano «Non siamo napoletani») ma socialmente è devastante. E' l'eterna storia della Tecnologia di cui, in teoria, il singolo individuo puo' fare un uso euristico e intelligente, ma che a livello di massa è sempre stata utilizzata nel peggiore dei modi. Nel caso specifico, quello dei blog, per far esplodere dall'inconscio al conscio le proprie profonde frustrazioni.
Ma che dire invece, e allora, di Vittorio Feltri, che non è un blogger qualsiasi, ma è stato, almeno a mio parere, il miglior direttore di quotidiani e di settimanali della sua generazione ed è tuttora un giornalista di primaria importanza, che in un articolo («Cara Merkel, datti alla briscola», Il Giornale, 7/1) prende pesantemente in giro (uso volutamente questo eufemismo perchè ho la fortuna di collaborare a uno dei pochi giornali che hanno conservato senso della misura e buon gusto) la cancelliera tedesca che si è fratturata il bacino facendo sci di fondo sulle nevi svizzere? «La signora di ferro è in realtà di gomma. Nel senso che, cascando, è atterrata non con la testa, ma con il sedere, cioè la parte più tenera e voluminosa del suo corpo, un vero e proprio ammortizzatore naturale, definito volgarmente ma efficacemente culone...D'altronde è noto che nella vita un gran posteriore aiuta almeno quanto l'intelligenza». Risparmio al lettore del Gazzettino altri scampoli di questa prosa aulica. Ironia? Certo ma bisogna anche saperla fare e non c'è nulla di più triste del comico che non fa ridere.
Poichè sta parlando di tedeschi (ha tirato in ballo anche Schumacher colpevole di essersi spaccato la testa) Feltri coglie l'occasione per ironizzare sul vicecancelliere, l'Spd Sigmar Gabriel, che ha chiesto, e ottenuto, di usufruire di un giorno di permesso alla settimana per stare con la figlioletta di due anni, diritto che in Germania spetta a ogni cittadino, e la sua decisione è stata approvata dal 91% dei suoi connazionali. «Un fenomeno» scrive Feltri «che contrasta con la mitologia germanica: i tedeschi che non mollano mai, sgobbano, amano la patria sopra ogni cosa e ogni sentimento. Noi saremo mammoni, loro sono mammole. Non ci sono più i tedeschi di una volta». Forse li preferiva quando erano nazisti. A Feltri probabilmente sfugge, a meno naturalmente che non si tratti di Berlusconi, che gli uomini politici hanno più doveri ma anche pari diritti degli altri cittadini, e soprattutto che se la stragrande maggioranza è d'accordo col ministro Gabriel è perchè i tedeschi si fidano dei propri dirigenti, Spd o Cdu che siano, sapendo che, in linea di massima, «sgobbano» sul serio per l'interesse e il bene del loro Paese. Cosa che, viste anche le baruffe chiozzotte di queste ultime settimane per conquistarsi una microfettina di potere, per non parlare del resto, non si puo' dire dei nostri.