Prologo
Quelli belli come noi
Diciamoci la verità
per far cantare tutti la canzone c’é
é questo ritornello che
che non vuol dire niente però un segreto c’é:
chi non la canta subito
chi non la canta subito
in un momento - alé - diventa brutto.
E invece quelli belli come noi che sono tanti
a cantarla tutto il giorno vanno avanti
cantarla ci sta bene, ma proprio bene bene
chi non la sa cantare resta solo
e solo che cosa fa?
Più brutto ancora diventerà.
Alice ed Ellen Kessler
Molti anni fa, nell’inverno del 1969, avevo cinque anni e mia sorella tre. Il sabato sera mia madre ci faceva il bagno, ci asciugava i capelli per un tempo infinito, ci riempiva di borotalco, ci infilava il pigiama. Mio padre veniva a prenderci in bagno e in braccio ci portava in soggiorno, su un divano enorme. Poi andavano di là, mentre noi vedevamo Carosello, e preparavano dei grossi panini con la frittata che erano morbidissimi, grazie all’olio e al calore. Ci sedevamo tutti e quattro sul divano e mangiavamo, aspettando. L’annunciatrice diceva che stava per cominciare. Infatti apparivano le gemelle Kessler, seguite in ogni movimento da un microfono gigantesco che cadeva dall’alto (si chiamava «la giraffa»): ballavano con sincronia perfetta, con l’intento, credo, di apparire una lo specchio dell’altra, e ci dicevano che se cantavamo insieme a loro, quella sera, eravamo belli come loro, e se non cantavamo, eravamo brutti. Noi cantavamo. Ed eravamo più che sicuri di far parte di una comunità molto grande quella sera, una comunità di gente come noi che aveva la casa occupata dall’odore di borotalco e di frittata. E che cantava come noi.
Quelli belli come noi é una canzone scritta da Canfora, Verde, Terzoli e Vaime, ed era la sigla di Canzonissima, il programma di varietà più seguito in quegli anni. Il varietà televisivo era un modo allegro e sentimentale per far passare serenamente il sabato sera alle famiglie italiane, ed era anche (o: quindi) un elemento strategico dal punto di vista politico per la costruzione del consenso, per formare una memoria condivisa. Se uno non ha cinque anni, o non li ha più, comprende senza illusioni che la sigla del programma era una canzone che mirava a qualcosa. Era un motivetto allegro e che restava nella testa, certo, ma era anche un messaggio molto serio e molto rassicurante (che doveva restare nella testa, appunto); in pratica, diceva: stiamo vivendo anni di cambiamento e di rivoluzioni grandi o piccole, stiamo subendo destabilizzazioni, ma se voi, la grande maggioranza degli italiani, seguite noi, state con noi, noi resteremo saldi nei nostri vecchi principi e nessuno potrà farci del male. Lì fuori la gente urla, ma sono pochi e brutti. Qui, al caldo delle case, con tutte le famiglie sui divani, unite, siamo tanti e siamo belli. Come poteva venirti voglia, se stavi seduto con tutta la famiglia in quell’odore di pulito e di fritto, di stare lì fuori con la minoranza e non qui dentro con la maggioranza?
Del resto, anche qualcun altro, in quegli anni, cantava con convinzione e molto successo un’esortazione simbolico-profetica agli italiani: finchè la barca va, lasciala andare...
Quella canzone-tormentone, negli anni, mi é rimasta in mente come un evento traumatico: é il punto in cui si incontrano l’omologazione più (s)frenata e la felicità più nitida. Tutta la mia vita é stata un elastico tra la coscienza e l’abbandono. Tra la capacità di ragionare su quello che vedo e la volontà di perdermi nella partecipazione. Ogni volta che mi torna in mente il refrain di Quelli belli come noi, la coscienza mi dice che nella sua leggerezza é infida, che va combattuta; ma la memoria mi porta a un momento perfetto, a un senso di felicità assoluta, quello che ricordo con più rapidità quando penso alla mia infanzia, in cui aderivo senza alcuna resistenza all’esortazione delle Kessler. Se c’é un punto in cui la mia personalità si sente in bilico tra due esperienze, idee e percezioni del mondo, é quando attraverso il ricordo della sigla di Canzonissima metto a confronto un senso di allarme e una volontà di partecipazione. Da lì, credo, nasce l’io narrante che vive e indaga l’Italia spensierata.
Francesco Piccolo (L'Italia Spensierata - 2007 - Giuseppe La Terza & Figli)
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