venerdì 28 febbraio 2014

QUATTRO RIFORME A COSTO ZERO



Si torna a parlare di riforma della giustizia. La misura è colma: costi e tempi vergognosi fanno di quella italiana una denegata giustizia. Ma da sempre le denunce restano senza terapie. Semmai qualche tentativo di riformare non la giustizia ma l’indipendenza dei giudici. Per contro sono possibili, subito e a costo zero, interventi decisivi. A cominciare dalla prescrizione, che soltanto in Italia non si interrompe mai, mentre ovunque altrove si interrompe con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado, o – a tutto concedere – con quella di appello. Da noi niente. E allora conviene sempre allungare il brodo all’infinito perché arrivi la prescrizione che tutto azzera. Ma così i processi non finiscono mai e qualunque riforma che non toccasse la prescrizione si risolverebbe in una presa in giro.
Poi c’è il sistema delle impugnazioni. Oggi, per andare subito a un esempio concreto, l’imputato confesso di un reato da niente, perciò condannato al minimo della pena, ricorre lo stesso. Sempre e comunque. In appello la pena (reo confesso condannato al minimo) sarà ovviamente confermata. Al che l’imputato – sempre più incredibile – ricorre persino in Cassazione, pur sapendo che non c’è niente da sperare. Morale: tutti ricorrono, il sistema si ingolfa, i tempi rallentano e i processi si allungano. Occorrono (eppure non si fa) dei filtri di grado in grado, che impediscano o fortemente sconsiglino i ricorsi inutili. Per esempio si potrebbe finalmente abolire un retaggio del diritto romano, il cosiddetto divieto di reformatio in pejus, grazie al quale se a ricorrere è soltanto lui, l’imputato non rischia assolutamente nulla, perché è vietato peggiorare di un solo giorno o euro la condanna già inflitta. Ultracomodo, al punto che non ricorrere è masochismo.
C’è poi un intervento in radice, di sistema, che ritengo indifferibile. Tra civile e penale abbiamo ben nove milioni di processi arretrati. Una montagna contro cui qualunque riforma è destinata a schiantarsi. Bisognerebbe avere il coraggio di abolire tout court il grado di appello. Così si ricupererebbe una quantità consistente di magistrati, segretari e cancellieri, da destinare in una prima fase esclusivamente all’eliminazione dell’arretrato. Poi andrebbero concentrati sul primo grado che ne trarrebbe una forte accelerazione, mentre la scomparsa dell’appello dimezzerebbe – se non più – i tempi dei processi. Certo, lo ripeto, ci vuole un gran coraggio. Ma è necessario (pur essendo scontato che le voci contrarie sarebbero un mare) per non soccombere sotto un cumulo di macerie.
Si torna a parlare, poi, di falso in bilancio. L’attuale disciplina è una iattura. Perché allenta fortemente le regole dell’impresa favorendo i più forti. Rende opache le regole dell’economia pregiudicandone credibilità e affidabilità. Dissuade risparmiatori e investitori. Oscura tutta una serie di “spie” tecniche utilissime perché non restino sommersi fatti di corruzione o di economia illegale, anche mafiosa. Urge dunque una riforma. Anche per chi – come il nuovo premier – chiede che cessi il “derby ideologico” fra politica e giustizia. Ora, se derby è sinonimo di scontro ad armi pari – dissentono i tifosi del Toro, scottati da certi arbitraggi – è improprio parlare di scontro quando uno solo, la politica, le dà e l’altro le prende.
Comunque sia, è facile vedere che nella storia del “derby” entra anche il falso in bilancio. Perché, al netto della propaganda, è un fatto che un’infinità di processi è cominciata quando il falso in bilancio era reato; – ma a processo aperto le regole sono state allegramente cambiate con la depenalizzazione, e i processi sono stati rottamati “perché il fatto non costituisce più reato”. Uno dei tanti esempi di leggi ad personam, ma in questo caso al danno si sono aggiunte beffe devastanti. Benzina per il preteso “derby”. Chi con la depenalizzazione del reato è stato “graziato” (magari in decine di processi), ha poi avuto la sfrontatezza di dire: vedete, decine di volte i Pm mi hanno accusato e decine di volte sono stato poi assolto. Un accanimento perverso. Ce l’hanno con me. Questi orridi magistrati invece che giustizia fanno politica! Falso, ma così nasce la storia del “derby”. Per cui, quando sull’attuale disciplina del falso in bilancio sarà messa una croce, non sarà mai troppo presto.


domenica 23 febbraio 2014

Matteo Renzi, il nostro Massud

C'è un parallelo, sia pur blasfemo, fra Matteo Renzi e il comandante Massud, con qualche differenza. Massud era un grande guerriero e un coglione politico, Renzi è un coglione politico (sempre che non sia al servizio di interessi occulti oltre che dei suoi) e di battaglie conosce solo quelle, sordide, dei direttivi e dei congressi di partito, delle congiure di palazzo di cui ha dato recente dimostrazione facendo fuori uno dei pochi uomini presentabili del Pd, Enrico Letta.
Il nobile Massud, che gode di grande considerazione in Occidente, è all'origine dell'attuale tragedia dell'Afghanistan. Cominciò portando nel Paese Bin Laden, che aveva le sue basi in Sudan, perchè lo aiutasse a combattere il suo storico nemico, Gulbuddin Heckmatyar. Così quando i Talebani presero il potere se lo trovarono fra le palle, senza poterlo cacciare perchè l'ambiguo califfo saudita, grazie alle proprie ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali e godeva di una certa popolarità, benchè gli afgani non amino gli arabi. Nel 1979, sconfitti dai mujaheddin, che godono dell'appoggio degli americani che gli forniscono i missili terra-aria Stinger, i sovietici abbandonano l'Afghanistan ma lasciano a Kabul, formalmente presidente, un loro Quisling, Najibullah (quello che Karzai è oggi per gli americani). Massud, che vuole impadronirsi del potere, comincia a bombardare Kabul dalle montagne circostanti facendo 10 mila morti. Heckmatyar non ci sta. E' l'inizio della guerra civile. I grandi comandanti militari che avevano sconfitto le truppe russe, Massud, Heckmatyar, Ismail Khan, Dostum con i loro sottoposti si trasformano in bande mafiose che taglieggiano la popolazione, assassinano, stuprano, cacciano dalle abitazioni i legittimi proprietari per metterci i propri seguaci, agendo nel più pieno arbitrio. Quella talebana è la reazione a questo stato di cose. In due soli anni i giovanissimi 'studenti di Dio', guidati dal Mullah Omar, cacciano dal Paese i ben più esperti 'signori della guerra', perchè hanno l'appoggio della popolazione che non ne può più. Solo Massud, armato da Russia e Iran (oh yes), non si rassegna alla sconfitta e per tre anni logorerà i Talebani in continue scaramucce impedendogli di attuare in pieno il loro programma di governo fra cui c'era anche l'educazione scolastica femminile (oh yes), sia pur a modo loro. Finalmente nel 1999 Massud è ricacciato nel suo Panchir, tagiko. Ci sono contatti fra emissari di Omar e Massud per arrivare finalmente a una pacificazione nazionale dell'Afghanistan. Omar propone a Massud di diventare presidente, lui si riserverà un ruolo di guida spirituale. E' una proposta generosa visto che uno controlla il 90% del Paese, l'altro solo il resto. Ma Massud pretende anche il comando militare, perlomeno a metà. Omar gli spiega che una diarchia militare crea più problemi di quanti non ne risolva. Da quel momento Massud comincia a trafficare con gli americani che, decisi a invadere l'Afghanistan, hanno assolutamente bisogno di un appoggio sul terreno perchè solo con i B52 e i caccia non possono piegare i Talebani. Omar fa pervenire a Massud un ultimo messaggio: «Guarda che se ti allei con gli americani poi saranno loro a comandare, non tu». Costituita l'Alleanza del Nord Massud viene assassinato. Non serve più. E questa è la fine che farà, politicamente, Matteo Renzi.
Renzi ha pienamente rilegittimato il 'delinquente naturale' preparando con lui la nuova legge elettorale e Bibì e Bibò sono già d'accordo per nominare insieme il nuovo Presidente della Repubblica. E la nostra poco allegra prospettiva è questa: d'ora in poi avremo due Berlusconi. Il Berlusconi propriamente detto e Matteo Renzi. Finchè il primo, al momento opportuno, non deciderà di liquidare 'l'utile idiota'.


sabato 22 febbraio 2014

IL RENZICCHIO



Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto.

Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta. E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo.

Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente (“Orlando chi?”, avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia (clicca qui per approfondire) . Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ’94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino. Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuotacarceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo.

Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turboberlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.

Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione.

Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.

giovedì 20 febbraio 2014

L’uomo, un animale troppo libero e molto precario

“L’uomo è un animale non ancora stabilizzato”. Così scrive Nietzsche in Umano troppo umano. E la ragione è molto semplice. L’uomo è privo di istinti che sono risposte “rigide” agli stimoli, per cui, giusto per fare un esempio, l’erbivoro, che reagisce di fronte a un covone di fieno, non reagisce di fronte a un pezzo di carne. 
Anche il famosissimo “istinto sessuale”, come ci ricorda Freud, è così poco “istintivo” che di fronte a una sollecitazione sessuale, l’uomo, a differenza dell’animale, può concedersi a tutte le perversioni, e al limite consegnarsi a una meta non sessuale, come può essere una composizione poetica, musicale o un’opera d’arte. 
A partire da queste considerazioni Freud, nei suoi scritti, abbandonerà presto la parola “istinto (Istinkt)” per sostituirla con la più generica “pulsione (Trieb)”. 
Privo della rigida stabilità garantita dalla codificazione istintuale, l’uomo è libero. La libertà, infatti, non scende dal cielo e tantomeno è una prerogativa dell’anima o della volontà o del discernimento. Essa scaturisce da quella mancanza di codici istintuali che vincolano gli animali dalla loro nascita alla loro morte e lasciano libero l’uomo nella costruzione e nella conduzione della propria vita, che nessun codice biologico governa. 
Ma l’instabilità che così ne nasce è inquietante, perché non concede la prevedibilità dei comportamenti, la consequenzialità delle azioni, e quindi la creazione di un mondo comune e condiviso. 
Per questo gli uomini, per difendersi dall’instabilità dovuta alla mancanza di codici istintuali, si sono dati codici logici e codici morali. 
Logici sono quei codici regolati dal principio di non contraddizione, che sottrae ogni cosa all’ambivalenza di significato di cui è carica, per determinarla in una significazione univoca e da chiunque condivisa, e dal principio di causalità, per cui gli eventi non appaiono più come accadimenti imprevedibili e perciò angoscianti, ma come effetti previsti una volta che se ne conosce la causa. La logica, ideata in ambito filosofico e applicata in ambito scientifico, è stata la prima forma di stabilizzazione del pensiero e del linguaggio che ha consentito agli uomini di intendersi e di comunicare tra loro. Ma oltre al pensiero e al linguaggio andava stabilizzato anche il comportamento. E la cosa avvenne prima con i tabù che segnalavano le azioni proibite, poi con i precetti e i comandamenti di cui si nutrono tutte le morali, siano esse ancorate al volere di Dio o convenute tra gli uomini per ridurre gli spazi di conflittualità e garantire la pace, che è la condizione preliminare di ogni progresso e avanzamento di civiltà. 
La logica da un lato e la morale dall’altro sono state le due grandi macchine di stabilizzazione della vicenda umana che l’instabilità biologica, dovuta alla mancanza di un rigido codice istintuale, non era in grado di garantire, mettendo a rischio l’esperimento umano che, senza regole poteva naufragare miseramente fin dall’alba della sua comparsa. 
Così hanno pensato Platone, Tommaso d’Aquino, Hobbes, Kant, Herder, Nietzsche e nel secolo scorso Bergson e Gehlen. Ma oggi, noi occidentali viviamo in un’epoca che siamo soliti chiamare: “Età della tecnica” dove l’uomo sembra sempre più identificato come funzionario dell’apparato tecnico a cui appartiene o, per dirla con Heidegger, sempre più “impiegato”. 
L’efficienza e la produttività, nonché l’egemonia della ragione strumentale, che si cura solo del rapporto ottimale tra mezzi e fini (unica forma di pensiero vigente nell’età della tecnica), visualizza le persone alla stregua di qualsiasi mezzo utile a raggiungere gli scopi prefissati, e perciò ne parla come di risorse: “Risorse umane”.
Siccome in ogni apparato tecnico tutti i settori devono funzionare in perfetto coordinamento in un regime di continuità senza interruzione, non importa se l’apparato è una catena di montaggio, un’organizzazione aziendale, un assetto amministrativo, una rete telematica, a ciascuno verrà assegnato il proprio “mansionario”, che è una serie di azioni descritte e prescritte da eseguire, dove gli unici valori riconosciuti sono la funzionalità e l’efficienza, per garantire i quali, è prevista la sostituibilità della persona, come si sostituisce l’ingranaggio di una macchina perché, come ci ricorda Gunther Anders ne L’uomo è antiquato è ormai la macchina il modello a cui deve adeguarsi l’uomo. 

Per garantirsi funzionalità ed efficienza qualsiasi apparato tecnico mal sopporta quegli “inconvenienti umani” che sono la stanchezza, la depressione, gli amori con il loro corredo di esaltazione e disperazione, la malattia, la maternità, e in generale tutti quegli aspetti del mondo della vita che confliggono con la regolarità, l’impersonalità e l’efficienza di un perfetto funzionamento, a cui è stata assegnata quella deprecabile denominazione che è “professionalità”, sotto la quale ciò che si nasconde è la radicale riduzione dell’uomo alla sua “funzione”, di cui il biglietto da visita, che indica il nostro apparato di appartenenza, ci identifica meglio del nostro nome. 
La stabilizzazione realizzata dall’età della tecnica fa impallidire tutte le morali e i loro strenui tentativi di dare una stabilità ai comportamenti umani. E questa è la ragione per cui, almeno in Occidente, i comportamenti morali vengono disattesi, perché una regola più ferrea della regola morale è subentrata a stabilizzare le umane condotte. 
Ad annullare le differenze residue, in cui gli uomini possono reperire un briciolo della loro individualità, provvede la tecnica della comunicazione che, con la radio, la televisione, Internet, produce quel mondo omogeneo e quei comportamenti all’insegna del conformismo per cui, come già avvertiva Nietzsche: “Quando tutti pensano allo stesso modo e agiscono allo stesso modo, chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”. 
Oggi “instabilità” è una parola che fa paura, ma visti i massicci e inavvertiti processi di stabilizzazione in atto in Occidente, un po’di instabilità è forse auspicabile, se non altro per salvare qualcosa dell’uomo come l’abbiamo conosciuto, posto che in Occidente sia ancora vera la persuasione di Nietzsche: “L’uomo è un animale non ancora stabilizzato”.

Umberto Galimberti (“La Repubblica”, 5 maggio 2006)


mercoledì 19 febbraio 2014

Father And Son - Cat Stevens


  Father And Son - Cat Stevens

Le spericolate capriole di Ferrara l'intelligente

Marco Travaglio (Il Fatto, 4/2) ha fatto un monumentale e formidabile 'excerpta' degli insulti di cui è stato ricoperto Grillo proprio da parte di coloro che oggi si scandalizzano per le allusioni 'sessiste' nei confronti della Boldrini. Fino a ieri quando si era a corto di argomenti si cercava di annullare l'avversario politico dandogli del 'fascista'. Ora non basta più. Scrive Giuliano Ferrara: «Beppe Grillo è semplicemente un nazista...è il Führerprinzip incarnato... un fuorilegge della democrazia... un mostro antidemocratico». Come ci si deve comportare con un soggetto del genere? «Deve essere sepolto sotto una valanga di indifferenza e di superiorità morale... facciamoglielo sentire addosso l'alito sputazzante della società civile». Poi si comincia ad avvicinarsi al sodo. «La sua operatività politica, la sua dignità di interlocutore della grande stampa e delle televisioni e dei partiti» sarebbe inconcepibile «in una vera democrazia costituzionale». Quindi si arriva ad invocare l'intervento dello Stato, delle Istituzioni e, insomma, della pula e della magistratura. «Grillo dovrebbe essere bandito dalla scena pubblica, con metodi rigorosi ed estremi. Dovrebbe essere inseguito dal disprezzo agente, non inerte, delle Istituzioni».
E' curiosa quest'ultima versione del proteiforme Ferrara. Accusa Grillo di essere un nazifascista e poi suggerisce di bandirlo dalla vita pubblica «con metodi estremi», che è quanto hanno sempre fatto i totalitarismi nei confronti degli oppositori. Si appella all' «alito sputazzante della società civile» quando ha sempre disprezzato la stessa dizione di società civile. Ci parla addirittura di morale quando costui, che è stato prima comunista, poi craxiano (il che non vuol dire essere stato socialista) e infine berlusconiano, è da decenni che ci spiega che la morale in politica non esiste, è roba per ingenui o per deficienti. Se noi chiediamo il rispetto della legge anche per lorsignori siamo moralisti, forcaioli, manettari. Se le manette le invoca lui è «superiorità morale». Basta, siamo arcistufi di questi giochetti delle tre tavolette. Non siamo in via Prè e non siamo nemmeno cosi' cretini come ci fa il Ferrara che gode fama di grande intelligenza. Ma l'intelligenza non è cosa astratta, va dimostrata nei fatti. Questo intellettuale raffinatissimo non ha mai scritto un libro, ha condotto programmi televisivi disastrosi (uno, sul sesso, figuriamoci, chiuso dopo tre puntate), messo a dirigere Panorama è riuscito in poche settimane a distruggere, dimezzandone le copie, il miracolo di Andrea Monti che per sette anni era stato cosi' abile da non far capire ai lettori del settimanale 'di sinistra, che più di sinistra non si puo' ' che era passato nelle mani di Berlusconi, e oggi dirige un giornale molto prestigioso che vende meno della Gazzetta di Peretola.
In realtà questa alleanza trasversale contro Grillo, di cui il florilegio di Travaglio dà ampiamente conto, che mette insieme, per sintetizzare, Eugenio Scalfari e Giuliano Ferrara, nemici acerrimi da sempre, dice una cosa sola: che tutti coloro che son ben incistati, da anni, da decenni, in questo regime hanno una paura birbona del Movimento 5Stelle. «Grillo vuole abolire i partiti» strilla, scandalizzato, Ferrara. Certamente. Perchè la partitocrazia è l'esatto contrario della democrazia, del pensiero liberaldemocratico che intendeva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell'individuo contro le lobby, di cui i partiti sono oggi la massima, anche se non unic a, espressione.
Per finire in bellezza Ferrara twitta: «Grillo fa dichiarazioni da puttaniere, dimostra di avere un pisello piccolo». Beppe ha una moglie, Parvin, bella e affascinante e quattro figli.


INCOERENZI



Siccome è nell’interesse di tutti che il governo Renzi combini qualcosa di buono, si spera vivamente che le anticipazioni sui possibili ministri uscite sui giornali, compreso il nostro, siano tutte false. E cioè che il turbopremier e il suo entourage si divertano a far filtrare nomi improbabili e impresentabili per nascondere la vera lista dei ministri, da sfoderare al momento giusto per stupirci tutti. Se così non fosse, ci sarebbe da dubitare non solo della buona riuscita del nuovo governo, ma anche della sanità mentale del suo capo. Renzi giurava di non voler cambiare il governo, ma l’Italia. Ora ha cambiato il governo e l’Italia (almeno quella politica) rischia già di cambiare lui. Lui che il 4 dicembre, appena prima di diventare segretario del Pd, domandava a Letta: “Ma come si fa a governare con Alfano, Giovanardi e Formigoni?”. Ora ce lo spiegherà lui come si fa, visto che governerà con Alfano, Giovanardi e Formigoni, mentre persino i più autorevoli suoi supporter rifiutano di entrare nel suo governo.
Per carità, sappiamo bene quali prezzi deve pagare chi deve gestire un’Armata Brancaleone che – stando alle elezioni di un anno fa e agli ultimi sondaggi – rappresenta poco più di un terzo dei votanti e di un quinto degli italiani, e che in Parlamento si regge sul premio di maggioranza del Porcellum raso al suolo dalla Consulta. Ma un forte segnale di novità e discontinuità rispetto al governo Letta è d’obbligo, non foss’altro che per giustificare l’improvviso e improvvido ribaltone a Palazzo Chigi. Oltreché per tener fede alla fama di Rottamatore, Innovatore, Demolition Man.
Qualche nome nuovo e valido circola (Colao, Guerra, Gino Strada), ma stradomina l’Ancien Régime. Agli Esteri e all’Interno si dice che lascerà la Bonino, entrata in Parlamento 38 anni fa, e Alfano. Ma come fa? L’estate scorsa, quando esplose lo scandalo Shalabayeva, Renzi disse che, se fosse già stato il segretario del Pd, avrebbe sfiduciato Alfano, colpevole di “una vicenda di cui come italiano mi vergogno, che coinvolge una bambina di sei anni” ed era “indegno scaricare su servitori dello Stato e forze dell’ordine tutte le responsabilità senza che venga mai fuori un responsabile politico”. Tutto dimenticato?
Un altro uomo forte del “nuovo” governo Renzi dovrebbe essere Dario Franceschini, che qualcuno vorrebbe financo vicepremier: ma quando, nel 2008, divenne segretario del Pd al posto di Veltroni, Renzi lo chiamò “vicedisastro” perché aveva condiviso con Uòlter la disastrosa campagna elettorale che aveva portato al trionfo di B.. Come può un vicedisastro diventare il vice-Renzi, o anche soltanto un suo ministro? Per l’Economia si alternano fautori di una mega-patrimoniale, come Barca; rigoristi come la Reichlin, aspirante banchiera londinese, il bocconiano Tabellini e i boiardi Bernabè e Padoan; e vecchi politici come Delrio (sindaco di Reggio Emilia) e addirittura Fassino. Per dire quant’è grande la confusione sotto il cielo. Idem per lo Sviluppo e il Lavoro, dove sembra non si riesca a immaginare nulla di più nuovo e discontinuo di un Ichino, un Moretti, un Montezemolo: le quintessenze del vecchio establishment.
La Giustizia, devastata da vent’anni di leggi vergogna trasversali, chiederebbe uno sforzo supplementare di coraggio e fantasia. E invece ecco un “ex” di 18 anni fa come Flick; il solito Vietti che, sebbene abbia materialmente scritto la porcata sul falso in bilancio, pare non piaccia (più) a B.; Guido Calvi, l’avvocato di D’Alema e Geronzi e il coautore di pessime leggi; Andrea Orlando, diplomato al liceo scientifico; e – udite udite – Livia Pomodoro, che già negli anni 80 lavorava al ministero della Giustizia con la Dc e il Psi e poi con Conso in piena trattativa (dovrà testimoniare al processo), e tre anni fa concordò con Ghedini un calendario del processo Mills così lento che andò in prescrizione prim’ancora della prima sentenza. Che cos’è, uno scherzo? Speriamo.
 

domenica 16 febbraio 2014

Il condannato sale al Colle. Potrebbe essere il primo premier al mondo in manette. Possibile? In Italia anche l'assurdo è diventato possibile.

Negli anni 50 ci fu una dura battaglia contro quella che venne chiamata la 'legge truffa', con la quale si voleva attribuire un premio di maggioranza al partito che fosse risultato primo alle elezioni. Sapete qual era la soglia per accedere al premio? Il 50,1% dei voti. Era una legge ragionevole per mettere al riparo il governo dalle imboscate di un pugno di ascari. Ma non passo'.
La nuova legge elettorale, concordata fra Berlusconi e Renzi, peraltro ancora in stand by, prevede una soglia del 37%. I sondaggi danno Forza Italia in ascesa, anche grazie al consueto autocannibalismo di cui si nutre la cosiddetta sinistra, e col Ncd e altre frattaglie potrebbe portare il cosiddetto centrodestra oltre la soglia del fatidico 37% e quella coalizione risultare prima e godere dell'abnorme premio di maggioranza. Chi è il leader indiscusso del centrodestra? Berlusconi. A chi dovrebbe essere affidato l'incarico di premier? A Berlusconi. Sarebbe la prima volta al mondo che un condannato, in fase, almeno formalmente, di espiazione della pena, fa il presidente del Consiglio di un Paese democratico o anche non democratico. Dice: non è giuridicamente possibile. Abbiamo imparato ormai che in Italia tutto è possibile. Intanto, nonostante la sentenza di condanna risalga al I° agosto del 2013, per il momento Berlusconi non sta scontando alcuna pena, è a piede libero ed evoluisce come vuole incontrando anche rappresentanti delle Istituzioni, ministri e, a quanto pare, persino il Presidente della Repubblica. Inizierà il percorso penitenziale dei servizi sociali solo il 10 aprile, percorso che si concluderà, se va bene, il prossimo agosto ad un anno esatto della sentenza di condanna. Da quel momento comincierà ad espiare la pena, ma godrà di ampi spazi di libertà e di movimento concessigli dal Giudice di Sorveglianza. Non si vorrà mica impedire a un premier di partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri? Dice: ma c'è l'interdizione dai pubblici uffici. Intanto questa interdizione, nell'eterno rimpallo fra l'Appello e Cassazione, non è ancora arrivata. E quando arriverà ci potrebbe essere un ricorso sospensivo a una qualche Corte europea.
Questa narrazione è solo di poco forzata. Perchè di fatto, se non di diritto, il 'delinquente naturale' continua a determinare la politica italiana.
Chi ha la mia età è cinquant'anni che assiste a staffette, vere o ipotizzate, agguati, congiure, Midas, lotte di correnti, a governi balneari, istituzionali, tecnici, a crisi extraparlamentari, a solenni promesse di 'cambiamento' (parola magica, taumaturgica, che ci rimbomba nelle orecchie e che leggiamo sui giornali da almeno mezzo secolo) e di riforme. In realtà sono tutte lotte per il potere in cui quel «bene del Paese» di cui costoro si riempiono sempre la bocca non c'entra nulla. Quando si sente messo alle strette il sistema si inventa qualche 'homo novus'. Ma i 'giovani quarantenni' di oggi non sono affatto nuovi, e meno di tutti lo è il 'novissimo' Matteo Renzi, sono espressione dell'eterna partitocrazia italiana.
Questa classe politica è talmente sgangherata, e ha infiltrato la burocrazia, asse portante di ogni Paese, di partitanti, che non è più nemmeno capace di fare le leggi. Le deve fare la Consulta correggendone gli errori e sostituendosi al legislatore. Michele Ainis, sul Corriere, ne dà un florilegio: dalla legge elettorale alla Fini-Giovanardi.
A Intelligonews ho detto che se la crisi economica si acuirà ulteriormente il popolo italiano, svegliandosi di soprassalto dal suo torpore, potrebbe dare il via a una rivolta 'alla tunisina'.
«Lei ne vede il rischio?» mi ha chiesto la gentile intervistatrice.
«Non è un rischio. E' una speranza» ho risposto.