venerdì 4 aprile 2014

La musica e l'orma del sacro



Scrive Vladimir Jankélévitch: "Non si dovrebbe scrivere 'sulla' musica, ma 'con' la musica e musicalmente - restare complici del suo mistero"


Risponde Umberto Galimberti

Ho deciso di compiere un piccolo esperimento, imponendo a me stesso di sentire in successione le Variazioni Goldberg di Bach, partendo da due angolature diametralmente opposte. La prima volta ho pensato di ascoltarle meccanicamente e senza trasporto emotivo, cercando di evitare ogni trappola del pensiero sempre pronto a liberare o imprigionare e ben consapevole comunque che un'operazione di tal fatta, per un musicofilo come me, si sarebbe tradotta in una sorta di autoflagellazione. La seconda volta ho deciso di ascoltare lo stesso brano, facendo leva sulla sola emozione, senza pensare ad altro. Durante l'ascolto meccanico ho pensato esclusivamente a quante volte lo stesso motivo venisse ripreso, rielaborato e riadattato, fino al collasso dell'insieme tutto. Tutto mi sembrava freddo, asettico e distante dal mio essere, anche se rimanevo affascinato dall'ordine geometrico, dalla purezza analitica dei suoni, mentre la mia psiche rimaneva sempre più distaccata e razionale. Poi ho spento la luce nella mia stanza e mi sono ritrovato immerso nell'emozione, come sempre e più di sempre. Mi sono estraniato da ogni cosa concreta, pensando solo alla musica e ricevendo, per l'ennesima volta, la stessa risposta alla stessa domanda che da una vita mi faccio: "Cos'è la musica per me?". A questa domanda, in quei momenti, ho dato la stessa identica risposta di sempre: "Per me la musica è un problema irrisolto". Ho pianto pensando a Bach, un uomo tra il cielo e gli abissi eterni. Mi sono sentito nuovamente rapito dal sacro. A questo punto mi è sorto spontaneo chiedermi: "Ma la psiche di un uomo è religiosa?". Io sono ateo, ma ho dentro di me un senso profondo di religiosità e un senso del sacro che non ha niente di razionale. Sì, la psiche è religiosa perché abita nelle adiacenze del sacro (che noi riduttivamente chiamiamo follia), da cui ci tengono lontano le religioni e certe filosofie come quella di Platone, che dopo aver colto la prossimità della musica con la sacralità, se ne difese e instaurò la musica come arte edificante che doveva svolgere la funzione morale di accompagnare l'uomo su quel retto sentiero che portava al Bene, in cui si esprimeva la verità e il dovere. Per questo, a sentir Platone, bisognava salvare "solo la lira e la cetra, gli strumenti di Apollo utili alla città" e bandire "trigoni e pettidi, nonché gli auloi, gli strumenti di Marsia e dei portatori di Tirso, seguaci di Dioniso", perché Dioniso, come già aveva mostrato Euripide nelle Baccanti, distrugge la città. Si tratta infatti, scrive Platone: "di strumenti dal potere scabroso, capaci di sedurre, incantare, affascinare, inebriare, penetrare negli animi e impossessarsene". Di qui la necessità di purificare la musica di questo suo potere, e contenerla nella pura armonia della lira e della cetra che sanno riprodurre l'armonia cosmica, modello dell'armonia della città. In realtà la musica, lungi dall'essere un discorso lineare e costruttivo, come Platone voleva che fosse, lungi dall'essere lo specchio dell'essere, si muove tra essere e non essere, nelle adiacenze del sacro, sempre sul ciglio di un abisso, metafora della vita che, ben lungi dall'essere "fondata", nel "fondo" è senza ragione e senza perché, quindi evento gratuito, grazia, e insieme urto della contraddizione che la vita porta sempre con sé e che la musica canta. Anche Ulisse, per non lasciarsi sedurre dal canto delle sirene, s'era fatto legare a un palo dopo aver turato le orecchie ai suoi uomini, mentre Orfeo aveva vinto il canto delle sirene con una musica più bella, per cui le sirene, spossessate del loro potere, si gettarono in mare e diventarono scogli. Questo confronto è di Ernst Bloch, il filosofo dell'utopia, che evidenzia la natura intrinsecamente utopica della musica, capace di risvegliare in noi la nostra dimensione più profonda, quella che non si identifica in una vuota astrazione né tantomeno in un principio d'ordine come il "Bene" di Platone o lo "Spirito" di Hegel, ma coincide piuttosto con quello che in noi c'è di più irriducibile, in un certo senso con lo scarto che c'è tra noi e ciò che sappiamo di noi, quindi con l'utopia di noi stessi. La musica, dunque, non come la nave di Ulisse che ci porta a casa, ma come la barca di Orfeo che ci porta agli inferi, nello strato più profondo e interiore di noi stessi, in cui è custodito il nostro futuro realizzabile, anche se lontano. Vicino e lontano non sono solo figure dello spazio, ma anche del tempo, di cui la musica è la prima scansione, o perché ci immette nel "tempo sacro", come la musica liturgica che, con un oratorio di Natale o una Passione, fa conoscere con esattezza alla comunità raccolta in quale tempo si trova, o perché ci immette nel "tempo puro" che disintegra il tempo reale, perché la musica, in qualche modo, è un gesto dell'empietà che ci redime dal tempo ordinato della successione dei giorni. Ma il tratto utopico della musica è nel suo essere "ascolto", anzi "auto-ascolto", quindi dimensione sensoriale privilegiata rispetto all'occhio che, limitandosi a circoscrivere il visibile, non oltrepassa mai il presente e tantomeno raggiunge quel lontano, che è la profondità del nostro intimo. In quanto prossima a ciò che di irriducibile c'è in ogni soggetto, la musica è qualcosa di benevolo, qualcosa di prossimo a noi, più dell'amore che, come amore per l'altro, ci allontana da noi. Essa ci porta dall'intimità del soggettivo all'assoluto, qui inteso come ciò che è sciolto da ogni legame (solutus ab), perché alla musica nulla di ciò che è mondo e attualità del mondo può corrispondere. 

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