Scrive Vladimir
Jankélévitch: "Non si dovrebbe scrivere 'sulla' musica, ma 'con' la musica
e musicalmente - restare complici del suo mistero"
Risponde Umberto Galimberti
Ho deciso di compiere un piccolo
esperimento, imponendo a me stesso di sentire in successione le Variazioni
Goldberg di Bach, partendo da due angolature diametralmente opposte. La prima
volta ho pensato di ascoltarle meccanicamente e senza trasporto emotivo,
cercando di evitare ogni trappola del pensiero sempre pronto a liberare o
imprigionare e ben consapevole comunque che un'operazione di tal fatta, per un
musicofilo come me, si sarebbe tradotta in una sorta di autoflagellazione. La
seconda volta ho deciso di ascoltare lo stesso brano, facendo leva sulla sola emozione,
senza pensare ad altro. Durante l'ascolto meccanico ho pensato esclusivamente a
quante volte lo stesso motivo venisse ripreso, rielaborato e riadattato, fino
al collasso dell'insieme tutto. Tutto mi sembrava freddo, asettico e distante
dal mio essere, anche se rimanevo affascinato dall'ordine geometrico, dalla
purezza analitica dei suoni, mentre la mia psiche rimaneva sempre più
distaccata e razionale. Poi ho spento la luce nella mia stanza e mi sono
ritrovato immerso nell'emozione, come sempre e più di sempre. Mi sono
estraniato da ogni cosa concreta, pensando solo alla musica e ricevendo, per
l'ennesima volta, la stessa risposta alla stessa domanda che da una vita mi
faccio: "Cos'è la musica per me?". A questa domanda, in quei momenti,
ho dato la stessa identica risposta di sempre: "Per me la musica è un
problema irrisolto". Ho pianto pensando a Bach, un uomo tra il cielo e gli
abissi eterni. Mi sono sentito nuovamente rapito dal sacro. A questo punto mi è
sorto spontaneo chiedermi: "Ma la psiche di un uomo è religiosa?". Io
sono ateo, ma ho dentro di me un senso profondo di religiosità e un senso del
sacro che non ha niente di razionale. Sì, la psiche è
religiosa perché abita nelle adiacenze del sacro (che noi riduttivamente
chiamiamo follia), da cui ci tengono lontano le religioni e certe filosofie
come quella di Platone, che dopo aver colto la prossimità della musica con la
sacralità, se ne difese e instaurò la musica come arte edificante che doveva
svolgere la funzione morale di accompagnare l'uomo su quel retto sentiero che
portava al Bene, in cui si esprimeva la verità e il dovere. Per questo, a
sentir Platone, bisognava salvare "solo la lira e la cetra, gli strumenti
di Apollo utili alla città" e bandire "trigoni e pettidi, nonché gli
auloi, gli strumenti di Marsia e dei portatori di Tirso, seguaci di
Dioniso", perché Dioniso, come già aveva mostrato Euripide nelle Baccanti,
distrugge la città. Si tratta infatti, scrive Platone: "di strumenti dal
potere scabroso, capaci di sedurre, incantare, affascinare, inebriare,
penetrare negli animi e impossessarsene". Di qui la necessità di
purificare la musica di questo suo potere, e contenerla nella pura armonia
della lira e della cetra che sanno riprodurre l'armonia cosmica, modello
dell'armonia della città. In realtà la musica, lungi dall'essere un discorso
lineare e costruttivo, come Platone voleva che fosse, lungi dall'essere lo
specchio dell'essere, si muove tra essere e non essere, nelle adiacenze del
sacro, sempre sul ciglio di un abisso, metafora della vita che, ben lungi
dall'essere "fondata", nel "fondo" è senza ragione e senza
perché, quindi evento gratuito, grazia, e insieme urto della contraddizione che
la vita porta sempre con sé e che la musica canta. Anche Ulisse, per non
lasciarsi sedurre dal canto delle sirene, s'era fatto legare a un palo dopo
aver turato le orecchie ai suoi uomini, mentre Orfeo aveva vinto il canto delle
sirene con una musica più bella, per cui le sirene, spossessate del loro
potere, si gettarono in mare e diventarono scogli. Questo confronto è di Ernst
Bloch, il filosofo dell'utopia, che evidenzia la natura intrinsecamente utopica
della musica, capace di risvegliare in noi la nostra dimensione più profonda,
quella che non si identifica in una vuota astrazione né tantomeno in un
principio d'ordine come il "Bene" di Platone o lo "Spirito"
di Hegel, ma coincide piuttosto con quello che in noi c'è di più irriducibile,
in un certo senso con lo scarto che c'è tra noi e ciò che sappiamo di noi,
quindi con l'utopia di noi stessi. La musica, dunque, non come la nave di
Ulisse che ci porta a casa, ma come la barca di Orfeo che ci porta agli inferi,
nello strato più profondo e interiore di noi stessi, in cui è custodito il
nostro futuro realizzabile, anche se lontano. Vicino e lontano non sono solo
figure dello spazio, ma anche del tempo, di cui la musica è la prima scansione,
o perché ci immette nel "tempo sacro", come la musica liturgica che,
con un oratorio di Natale o una Passione, fa conoscere con esattezza alla
comunità raccolta in quale tempo si trova, o perché ci immette nel "tempo
puro" che disintegra il tempo reale, perché la musica, in qualche modo, è
un gesto dell'empietà che ci redime dal tempo ordinato della successione dei
giorni. Ma il tratto utopico della musica è nel suo essere "ascolto",
anzi "auto-ascolto", quindi dimensione sensoriale privilegiata
rispetto all'occhio che, limitandosi a circoscrivere il visibile, non
oltrepassa mai il presente e tantomeno raggiunge quel lontano, che è la profondità
del nostro intimo. In quanto prossima a ciò che di irriducibile c'è in ogni
soggetto, la musica è qualcosa di benevolo, qualcosa di prossimo a noi, più
dell'amore che, come amore per l'altro, ci allontana da noi. Essa ci porta
dall'intimità del soggettivo all'assoluto, qui inteso come ciò che è sciolto da
ogni legame (solutus ab), perché alla musica nulla di ciò che è mondo e
attualità del mondo può corrispondere.
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