venerdì 13 giugno 2014

La bandiera della riduzione delle imposte è stata monopolizzata da movimenti di destra che ne hanno fatto un’alibi per l’elusione delle rendite finanziarie, per i paradisi fiscali.

Un’antica regola della stampa anglosassone imponeva al giornalista di «scomparire» come persona quando scrive, per garantire al lettore neutralità, imparzialità. 
Pur essendo un ammiratore di quel modello, qualche volta sono più credibile se mi metto in gioco, se la mia vita personale è inquadrata nell’obiettivo, fa parte delle cose che racconto. Così si sa da che parte sto, e perché.
Nel quinto anniversario della grande crisi del 2008, gli sviluppi che posso misurare nella mia vita quotidiana sono consistenti. Nell’azienda dove lavoro il mio nome è finito in una lista di «prepensionabili». È una perfida nemesi, per uno che ha scritto un Manifesto generazionale per non rinunciare al futuro che cominciava così: «Capita ogni volta che torno per qualche giorno in Italia: mi sento ingombrante.
A 56 anni ho l’età sbagliata?». A un anno di distanza posso togliere quel punto interrogativo. Mia moglie, dopo essersi licenziata dal suo lavoro a San Francisco per rimettersi sul mercato a New York, ha conquistato un contratto: della durata di un anno, rinnovabile. Ma il suo predecessore in quel posto fu licenziato dopo sei mesi. È quel che in Italia si direbbe precariato, e in America è la regola: qui tutti sono licenziabili a vista.
Mia figlia fa la ricercatrice in un’università californiana, come tale è senz’altro privilegiata rispetto a tanti giovani italiani che vorrebbero fare ricerca e non possono. Ha tuttavia subìto l’impatto dell’austerity americana. Non per colpa di Barack Obama, ma della destra che ha la maggioranza alla Camera: mentre sto scrivendo i fondi per la ricerca sono bloccati o tagliati per effetto del congelamento del bilancio pubblico.
Mio figlio ha scelto un mestiere, il teatro, dove se ti chiamano guadagni qualcosa sennò zero. Passando in rassegna la famiglia, il reddito più sicuro è la pensione di reversibilità di mia madre che si avvicina agli 80 e sta a Bruxelles. Stava per fallire la sua banca, però, se non fossero intervenuti a salvarla insieme i governi francese, belga e olandese.
Se lo misuro nella mia vita familiare, cinque anni dopo il collasso di Wall Street, e con più di tre anni di cosiddetta «ripresa» alle spalle (qui in America), il livello d’incertezza non è affatto diminuito, anzi. Nel nostro futuro le cose certe si chiamano tasse, rate del mutuo da rimborsare, pagamenti all’assicurazione sanitaria. Aleatorie sono le entrate familiari, le previsioni sui nostri redditi. E siamo fortunati davvero: viviamo nel paese dove la recessione è finita da un pezzo, almeno nelle statistiche, e dove la disoccupazione è metà di quella italiana.
L’economia è una cosa fredda se si discute di massimi sistemi, di cifre e di astrazioni. È un’altra cosa se ci si ferma a fare il punto su noi stessi, il nostro modo di vivere, le conseguenze minute dei macroeventi nell’esistenza quotidiana.
Abitare a Manhattan, cioè nel cuore del capitalismo globale, per me è l’occasione di misurarne in modo molto concreto la potenza, e la pesantezza. Vicino a casa mia, vicino al mio ufficio newyorchese ci sono centri di potere economico dove vengono prese decisioni che avranno conseguenze a migliaia di chilometri di distanza, sul futuro di intere generazioni. Qui si elabora anche un’ideologia che ispira la rappresentazione del mondo, influenza interi continenti.
Qui germinano simboli, modelli e metafore, che impregnano l’immaginario collettivo del nostro tempo. E da qui bisogna cominciare, dunque, se si vuole dimostrare che l’imperatore è nudo, che un intero sistema non è sostenibile.
La Grande Contrazione che ci ha colpiti dal 2008 rischia di essere un’occasione sprecata. Poteva essere l’inizio di una fase veramente nuova, lo shock che ci avrebbe fatto rimettere in discussione un’epoca e tutti i suoi valori. Invece, il rischio è che si riparta come prima. Sotto stress, nel disagio economico, impauriti per il futuro nostro e dei nostri figli, siamo ridotti ad accettare o a implorare una ripresa comunque, qualunque essa sia, purché le cose migliorino
appena un po’. Rivedo qui a Wall Street i sintomi degli stessi mali che produssero la peste del 2008. E non solo qui: dall’Eurozona ansimante nella morsa dell’austerity alla mia Cina sotto il tallone delle oligarchie autoritarie, c’è il pericolo vero che una «finestra di opportunità» per il cambiamento si stia richiudendo davanti a noi.
Poteva, può ancora, andare diversamente? «The Powers That Be», letteralmente «i poteri che sono»: è l’espressione che usano gli americani per indicare il potere costituito, i poteri forti, l’establishment dominante. Emana un’idea d’ineluttabilità, la forza di ciò che è reale. Ecco, da sempre le oligarchie e i privilegiati devono riuscire a compiere questa operazione: convincerci che un’alternativa non c’è, che l’orizzonte è rinchiuso nel presente, che inseguire altri modelli e cambiamenti profondi è irreale. Si rafforzano quando all’estremo opposto c’è chi propone contro di loro una protesta che è puro sberleffo, agitata e inconcludente. Si rafforzano se siamo ignoranti dei meccanismi che loro hanno creato.
Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini. Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati.
Dare un volto e un nome ai colpevoli è uno degli obiettivi di questo libro. Dobbiamo riconoscerli, per non cadere nelle loro trame. Sul ruolo centrale della finanza nel nostro tempo si è costruito un mito. Sembra davvero che non ne possa fare a meno, e invece in un’epoca tutt’altro che remota il massimo sviluppo dell’Occidente avvenne quando le banche erano più piccole, meno importanti, più regolate.
Parlare di lotta alle diseguaglianze viene considerato un anacronismo, il rimasuglio di ideologie fallimentari, salvo scoprire che i paesi più competitivi (Europa del Nord) sono i meno diseguali del pianeta. In molte parti del mondo quello che chiamiamo «la sinistra» – o il perimetro delle forze progressiste – ha sofferto duramente per l’identificazione con statalismi, burocrazie parassitarie, spese improduttive, apparati sindacali in difesa di corporazioni.
La bandiera della riduzione delle imposte è stata monopolizzata da movimenti di destra che ne hanno fatto un’alibi per l’elusione delle rendite finanziarie, per i paradisi fiscali.
Quando invece la prima e più universale delle riforme contro le diseguaglianze è un abbattimento delle imposte sul lavoro, anzi «contro» il lavoro.
Il sistema economico che abbiamo ereditato ci sta rubando il futuro, sta logorando gli ultimi dei nostri sogni: per noi, per i nostri figli. Chi lo aveva detto per primo non fu creduto, e già ne paghiamo un prezzo pesante. Ma nelle nostre strategie di resistenza quotidiana, nelle pieghe della nostra vita, stanno germinando le idee che ci salveranno.
Chi ci vuole scoraggiare da questa ricerca, ha dalla sua la micidiale saggezza del Gattopardo: tutto cambi, se vogliamo che tutto rimanga com’è.
Ma non possiamo più permettercelo, che tutto rimanga com’è. Oggi restare fermi vuol dire avere la certezza di essere ricacciati indietro.

New York, 10 ottobre 2013

Federico Rampini (Prefazione al volume "Banchieri" - 2013 - Arnoldo Mondadori Editore)

Nessun commento:

Posta un commento

Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.