giovedì 12 giugno 2014

LA VENDETTA DEL PALAZZO

Trent’anni fa, a Padova, si spegneva Enrico Berlinguer. Oggi la politica trova il modo più indegno per celebrare l’uomo che mise per la prima volta l’Italia di fronte alla Questione Morale. Nello stesso giorno in cui i pm di Napoli indagano per corruzione il secondo generale della Guardia di Finanza e quelli di Venezia scoprono un filo rosso che lega gli scandali del Mose e dell’Expo, il Parlamento non serra i ranghi contro i «ladri», ma brandisce la clava contro le «guardie».
Che altro giudizio si può dare, sulla norma che reintroduce la responsabilità civile «diretta» dei magistrati, inasprendo le sanzioni per gli errori commessi nell’esercizio della funzione? Un emendamento della Lega, ricalcato dal testo di un disegno di legge che l’allora Pdl provò più volte ad imporre nella passata legislatura, ora improvvisamente agganciato all’iter della legge europea 2013-bis e inopinatamente approvato dalla Camera. Contro il parere del governo e della maggioranza. Ma a scrutinio segreto, e dunque con il contributo fattivo di almeno 50 franchi tiratori che al riparo dell’urna hanno deciso di votare insieme al centrodestra e di scompaginare il fronte del centrosinistra. 
Fioccano le solite accuse incrociate e le rituali pratiche auto-assolutorie. Renzi parla di una «tempesta in un bicchier d’acqua». Un pezzo di Pd lancia strali contro i grillini, «colpevoli » di essersi astenuti e dunque di aver teso una misteriosa «trappola» alla maggioranza. Un altro pezzo di Pd, più dissennato ma meno ipocrita, rivendica orgogliosamente il voto in nome di un «garantismo» ormai assolutamente imprescindibile (benché, nello specifico, totalmente incomprensibile). Per quanto logori e sbandati, i manipoli berlusconiani in servizio permanente effettivo hanno almeno il coraggio di rivelare pubblicamente quello che appare chiaro a chiunque abbia il buon senso di vedere e di capire: «L’indipendenza della magistratura non può continuare a coincidere con la totale mancanza di responsabilità della stessa per gli errori commessi nell’esercizio del suo strapotere». 
Dunque, di questo si tratta: al culmine della nuova Tangentopoli 2.0 che i pubblici ministeri stanno faticosamente disvelando, la politica consuma una sua simbolica «vendetta » ai danni della magistratura. Non importa che il merito di quella norma sia palesemente incostituzionale, come denunciano il Csm e l’Anm. Non importa nemmeno che quell’emendamento arrivi al traguardo finale della conversione in legge. È anzi molto probabile che questo non accada, visto che lo stesso presidente del Consiglio (pur con un surreale cortocircuito logico, vista la sua strenua battaglia contro il «bicameralismo perfetto») annuncia adesso «al Senato rimedieremo ». Quello che importa, ancora una volta, è il «segnale» che si vuole lanciare. Quello che importa è che lo «strapotere» delle Procure (come recita appunto la propaganda forzaleghista) venga tamponato o almeno influenzato. Quello che importa è che i magistrati sentano tutta la pressione, chiaramente intimidatoria, di un Palazzo che non intende farsi processare da nessuno. Quello che importa, alla vigilia di un Consiglio dei ministri che si spera domani possa prendere finalmente per le corna il tema della lotta alla corruzione, è che a una giurisdizione così pervicacemente ostinata a scavare nel malaffare arrivi anche un altro messaggio: «Attenti a ciò che fate, sappiamo come rimettervi in riga». 
Il presidente della Repubblica Napolitano fa opportunamente sentire la sua voce, a sostegno dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Ma neanche questo basta a spiegare il cupio dissolvi che ancora una volta attraversa il Partito democratico, capace di farsi del male da solo persino su una questione pacifica come la difesa della legalità e la guerra alle mazzette. I magistrati hanno commesso e commettono molti errori. L’uso a volte eccessivo della carcerazione preventiva, un filtro non sempre rigoroso nella discovery degli atti, una gestione non sempre lineare delle inchieste. I problemi non mancano, e perfino la Procura più seria e più efficiente d’Italia, quella di Milano, non ne è risultata del tutto esente. Per questo, nessuno auspica o sogna una Repubblica delle Manette, dove i pm siano depositari incontrastati dei destini dei leader politici o tenutari indisturbati delle «vite degli altri». Una riforma organica della giustizia, che affronti «anche» il tema della governance del Csm e dell’autodisciplina sanzionatoria del potere giudiziario, è opportuna. 
Ma appunto: la chiave sta tutta in quell’«anche». Oggi la priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare o condizionare il lavoro dei magistrati con un «colpo di mano» che non esiste in nessun’altra democrazia occidentale. E non è nemmeno istituire l’ennesima Commissione che, dal ministero della Giustizia, monitori i risultati raggiunti fino ad oggi nella lotta alla corruzione (con il paradosso ulteriore di affidarne la guida proprio all’ex Guardasigilli Paola Severino, chiamata a giudicare gli effetti della riforma palesemente insufficiente da lei stessa firmata nel 2012). 
La priorità assoluta è ripristinare lo Stato di diritto, rafforzando sul serio l’azione del Commissario anti-corruzione Cantone (che non a caso si auto-rappresenta come «potere monco», vista la scarsità di mezzi e di strumenti normativi di cui dispone). È riformare l’istituto della prescrizione, che snaturato dalle leggi ad personam di Berlusconi «inghiotte» il 35% dei reati commessi ogni anno, corruzione compresa (come denuncia il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti). È introdurre una volta per tutte il reato di autoriciclaggio, che determinerebbe di fatto l’imprescrittibilità dei reati più gravi contro la Pubblica Amministrazione. È ri-potenziare il reato di falso in bilancio, depenalizzato pro domo sua dall’ex Cavaliere. 
Non c’è altra emergenza, in un Paese stordito e disgustato dai miasmi che spurgano dal ventre molle della Padania felix e dalla testa marcia delle Fiamme Gialle. Domani Renzi ha l’occasione per trasmettere al Paese la volontà di questo «scatto morale ». Un altro rinvio, stavolta, sarebbe davvero imperdonabile. Tanto imperdonabile da risultare, alla fine, addirittura sospetto.


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