Secondo
l’Istat a luglio i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,1%
rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Ancora più significativi
sono i dati del ‘carrello della spesa’: frutta e verdura costano il 10%
in meno, sempre rispetto al 2013 e i prodotti per la cura delle persone e
della casa registrano un -0,6%. L’inflazione è sotto l’1%. “Siamo
legati agli oggetti, non buttiamo via mai niente” dice il sociologo dei
consumi Italo Piccoli e l’economista Fausto Panunzi aggiunge: “Si è
portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto
necessario”.
Sembrerebbero
tutte notizie positive. Se l’inflazione è all’1% vuol dire che i 100
euro che ho in tasca ne valgono 99, se l’inflazione è al 20% i miei 100
euro ne valgono ottanta così come il mio stipendio reale è il 20% in
meno di quello nominale. E vorrei vedere il consumatore che si lamenta
perché paga le pesche il 10% in meno. Non buttare via i frigoriferi che
rendono ancora decentemente il loro servizio o non farsi attrarre, in
questo caso sì ‘compulsivamente’, da ogni sciocchezza che offre il
mercato, vivere del necessario invece che del superfluo fa bene al
nostro equilibrio psicologico ed è un risparmio oltre che economico
anche ecologico perché evitiamo di ammonticchiare rifiuti che poi non
sappiamo come smaltire.
E invece
in termini macroeconomici tutti questi dati sono negativi. Dove sta il
marcio? Nella crescita. Un modello economico basato sulla crescita
quando non riesce o non può più crescere collassa (che non è la
situazione solo dell’Italia ma di tutti i paesi che sono dentro questo
modello, compresi anche quelli che in questo momento viaggiano col vento
in poppa perché anche loro prima o poi si troveranno davanti al limite,
dato che le crescite all’infinito esistono in matematica ma non in
natura). E il collasso è piuttosto rapido. E’ come la cassetta di un
film che arrivata alla fine si riavvolge in pochi secondi. Se i
cittadini consumano poco le imprese saranno costrette a ridurre la
produzione e a liberarsi di molti lavoratori i quali, in cassa
integrazione o disoccupati, consumeranno ancora meno, le imprese
produrranno meno e manderanno a casa altri lavoratori in un circolo
vizioso vorticoso. In un sistema come questo gli uomini sono costretti a
consumare per produrre invece di produrre per consumare.
Tutto ciò
in nome della macroeconomia e del Pil, cioè della ricchezza complessiva
di un Paese. Ma la ricchezza di un Paese ha poco o nulla a che fare con
la ricchezza dei suoi abitanti. La Nigeria è il paese più ricco
dell’Africa ma ha il più alto numero di poveri dell’ex Continente nero.
E’ la ricchezza che crea la povertà come si accorse Alexis De
Tocqueville che nel suo saggio ‘Il pauperismo’ del 1835 notava, con
stupore, che i Paesi rimasti fuori dalla Rivoluzione industriale avevano
il minor numero di poveri.
C’è una
soluzione a questo busillis infernale? Bisognerebbe avere il coraggio di
decrescere, di diminuire la produzione, il lavoro, la ricchezza
complessiva e di portarsi a un livello di equilibrio dove non si avanza
più ma nemmeno si retrocede, redistribuendo la minor ricchezza rimasta
in modo più equo. Ma ci vorrebbe un’intelligenza, una visione del futuro
che le élites politiche mondiali, ansiose solo di consenso qui e ora,
non possono avere.
Massimo Fini (Il Gazzettino, 22 agosto 2014)
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