Per chi fosse interessato alla fotografia, si
riporta di seguito la videata del percorso web utile a potere accedere a
ventotto lavori (reportage e portfolio) realizzati nei giorni scorsi
(pagina allocata sotto la denominazione
"WS Torresani"), con foto dei fotoamatori partecipanti al Workshop sul
reportage promosso, con il patrocinio UIF, da Vincenzo Montalbano
(Presidente dell'Associazione AFA) e condotto dal Prof. Giancarlo
Torresani.
venerdì 30 gennaio 2015
giovedì 29 gennaio 2015
Schiavo di Gmail
Una mattina del mese di aprile 2014 mi sveglio in un incubo. Non proprio trasformato in uno scarafaggio gigante come il povero Gregor Samsa nella Metamorfosi di Franz Kafka, ma poco ci manca. Anch'io, nottetempo, mi sono trasformato in una bestia immonda. Mi scopro portatore di virus pestilenziali che possono contagiare amici e conoscenti. Un potere orrendo, pauroso, da cui mi sento oppresso.
È successo al mio risveglio alle sei del mattino a New York, mentre mi appresto a leggere il mio solito pacco di giornali americani, per estrarne segnalazioni e un programma di giornata per la redazione di "Repubblica". Tra i primi gesti meccanici quando suona la sveglia, riaccendo il mio iPhone e controllo la posta. Nella casella di arrivo ci sono centinaia di email. Assurde, incomprensibili, molte sono "rimbalzate" da indirizzi non più attivi che rispediscono al mittente.
Ci vuole qualche minuto per capire. In realtà quelle email sono una piccola spia di un disastro più grande. Nottetempo, qualcuno è entrato nella mia posta, ne ha saccheggiato l'indirizzario, ha cominciato a spedire email a tutti. Firmate (apparentemente) da me. Quelle email contengono degli allegati o dei "link" tossici, aprendo i quali i poveri destinatari vengono infettati da virus o malware. Un colpaccio, purtroppo tutt'altro che raro. Qualche volta sono stato io a ricevere queste email di adescamento, in apparenza provenienti da qualcuno che conosco.
Il danno peggiore che possono fare i virus è carpirti dati preziosi, per esempio il numero della tua carta di credito o i codici di accesso ai tuoi conti bancari online. Non sto esagerando, anzi la mia disavventura personale è microscopica rispetto a operazioni di hacker compiute di recente. Una delle più diffuse catene di grandi magazzini americani, Target, si è vista sottrarre milioni, ripeto m-i-1-i-on-i, di numeri di carte di credito dei suoi clienti. Sapete bene cosa questo vuol dire. Soprattutto in un paese come l'America dove la vita quotidiana è stata "semplificata" - ahi! - dall'uso della carta di credito come mezzo di pagamento universale, farsela rubare è l'inizio di un calvario. Non solo devi bloccare la tua carta e fare annullare le transazioni fraudolente, ma poi devi cominciare a contattare uno per uno tutti coloro che abitualmente tu paghi con addebiti automatici su quella carta: bollette del telefono, della luce e della cable-tv, abbonamenti ai giornali, assicurazione sulla vita, sull'incendio, RC-auto, perfino la retta scolastica dei tuoi figli o alcune tasse, l'elenco è interminabile.
La mia disavventura mi ha spinto a un gesto che avevo rinviato fino a quel momento. Ho chiuso il mio indirizzo di posta Aol. Le ragioni per cui non l'avevo ancora fatto erano di tipo sentimentale. Lo so, Aol per la maggioranza di voi è un nome privo di senso. Non per uno che ha cominciato a fare le valigie per trasferirsi in California alla fine degli anni novanta. Aol, che sta per America On Line, oggi è un dinosauro, il suo posto adeguato è in un museo di archeologia industriale. Così vanno le cose nell'economia digitale, dove imperi nascono e tramontano alla velocità della luce. Ma alla fine degli anni novanta Aol era praticamente un sinonimo di Internet. Era uno dei "provider" di accesso alla Rete più importante degli Stati Uniti, quindi del mondo. Aveva avuto un ruolo dominante nella diffusione della posta elettronica. Molti americani che si erano assuefatti all'uso dell'email quando questo strumento iniziava la sua diffusione avevano per forza indirizzi Aol.
Ci vuole qualche minuto per capire. In realtà quelle email sono una piccola spia di un disastro più grande. Nottetempo, qualcuno è entrato nella mia posta, ne ha saccheggiato l'indirizzario, ha cominciato a spedire email a tutti. Firmate (apparentemente) da me. Quelle email contengono degli allegati o dei "link" tossici, aprendo i quali i poveri destinatari vengono infettati da virus o malware. Un colpaccio, purtroppo tutt'altro che raro. Qualche volta sono stato io a ricevere queste email di adescamento, in apparenza provenienti da qualcuno che conosco.
Il danno peggiore che possono fare i virus è carpirti dati preziosi, per esempio il numero della tua carta di credito o i codici di accesso ai tuoi conti bancari online. Non sto esagerando, anzi la mia disavventura personale è microscopica rispetto a operazioni di hacker compiute di recente. Una delle più diffuse catene di grandi magazzini americani, Target, si è vista sottrarre milioni, ripeto m-i-1-i-on-i, di numeri di carte di credito dei suoi clienti. Sapete bene cosa questo vuol dire. Soprattutto in un paese come l'America dove la vita quotidiana è stata "semplificata" - ahi! - dall'uso della carta di credito come mezzo di pagamento universale, farsela rubare è l'inizio di un calvario. Non solo devi bloccare la tua carta e fare annullare le transazioni fraudolente, ma poi devi cominciare a contattare uno per uno tutti coloro che abitualmente tu paghi con addebiti automatici su quella carta: bollette del telefono, della luce e della cable-tv, abbonamenti ai giornali, assicurazione sulla vita, sull'incendio, RC-auto, perfino la retta scolastica dei tuoi figli o alcune tasse, l'elenco è interminabile.
La mia disavventura mi ha spinto a un gesto che avevo rinviato fino a quel momento. Ho chiuso il mio indirizzo di posta Aol. Le ragioni per cui non l'avevo ancora fatto erano di tipo sentimentale. Lo so, Aol per la maggioranza di voi è un nome privo di senso. Non per uno che ha cominciato a fare le valigie per trasferirsi in California alla fine degli anni novanta. Aol, che sta per America On Line, oggi è un dinosauro, il suo posto adeguato è in un museo di archeologia industriale. Così vanno le cose nell'economia digitale, dove imperi nascono e tramontano alla velocità della luce. Ma alla fine degli anni novanta Aol era praticamente un sinonimo di Internet. Era uno dei "provider" di accesso alla Rete più importante degli Stati Uniti, quindi del mondo. Aveva avuto un ruolo dominante nella diffusione della posta elettronica. Molti americani che si erano assuefatti all'uso dell'email quando questo strumento iniziava la sua diffusione avevano per forza indirizzi Aol.
Così ho fatto anch'io, in un'epoca in cui i miei amici e colleghi italiani usavano pochissimo la posta elettronica. All'inizio del millennio, quando abitavo nella Silicon Valley, Aol cominciava già a essere soppiantata da alcuni rivali. I miei amici californiani più giovani si convertivano in massa a Hotmail e Yahoo Mail. Ma la rivoluzione vera arrivò con Gmail.
Ecco, lo confesso, nell'aprile 2014 mi sono arreso anch'io, definitivamente e completamente, alla supremazia di Gmail, la posta elettronica di Google. Per una curiosa o crudele coincidenza, l'incidente che mi ha disgustato per sempre di Aol è accaduto pochi giorni dopo un anniversario simbolicamente importante: il decennale del lancio di Gmail. Harry McCracken su "Time" definisce il primo aprile 2004 come "il vero inizio dell'era moderna della Rete". Io non ci ho messo proprio dieci anni a scoprirlo (un indirizzo Gmail lo avevo da tempo ma lo usavo poco) e tuttavia ora devo confessare la mia resa finale. Che avrà dei costi, lo so già.
La storia di Gmail è importante perché getta uno squarcio di luce sull'ascesa di Google in generale. Google, nato nel 1998, si era già rapidamente affermato come il più efficiente motore di ricerca. I fondatori Larry Page e Sergey Brin avevano rivoluzionato l'uso della Rete. Rispetto ai motori di ricerca preesistenti (come AltaVista), Google aveva due fattori di superiorità.
Il primo era la sua "neutralità" proclamata, l'imperativo di servire l'utente. Donde un metodo oggettivo per selezionare i risultati rilevanti ai fini di una ricerca: basarsi sulla "saggezza delle masse". L'algoritmo di Google, quando tu digiti una parola, dirige la ricerca dentro il cyber-universo dando la priorità ai siti più cliccati da altri. In sostanza si fida del fatto che più un sito è visitato più deve avere contenuti, rilevanti. È questa una delle peculiarità dell'algoritmo che fecero la differenza fin dal principio rispetto a quei concorrenti che ti riempivano lo schermo di risultati palesemente inutili, e costringevano te a fare la fatica di una selezione "intelligente". L'altra originalità era il rifiuto - iniziale - della pubblicità. Condito di quella filosofia etica che sappiamo: "Don't be evil", non essere cattivo, non fare il male. Tuttora la schermata d'apertura di Google è bianca, talvolta decorata, mai venduta come spazio pubblicitario. Era importante per affermare la propria credibilità, dire agli utenti che quello spazio era tutto loro, non era in vendita.
Poi Google in realtà ha fatto una netta inversione, ed è diventato il regno delle inserzioni pubblicitarie. Ha rivoluzionato anche quelle, vendendo un metodo che calcola le tariffe per gli inserzionisti in modo esattamente proporzionale ai clienti che "cliccano" sulla loro pubblicità. Mentre chi paga per lo spot di un detersivo alla tv non può sapere se in quel momento il telespettatore si distrae e fa una telefonata, al contrario chi paga per avere la sua pubblicità su Google sa esattamente quanti vanno a guardarla.
Gmail ha seguito un'evoluzione analoga. La storia di questo sistema di posta elettronica ha inizio nel 2001, è un progetto che viene messo in cantiere a livello sperimentale e impiega tre anni per decollare. Fin dall'inizio ha un'ambizione sfrenata: offrire agli utenti una capacità di memoria stratosferica, di fatto illimitata. Misurabile in gigabyte. Cioè, all'esordio, cinquecento volte superiore a quel che offriva Hotmail di Microsoft.
Ce ne siamo dimenticati, ma c'era un'epoca in cui dovevamo cancellare man mano la posta in arrivo, altrimenti la nostra "casella" si riempiva e la memoria non aveva più spazio per nuovi messaggi. Oggi al contrario siamo abituati a usare "the cloud", la nuvola, cioè la capacità di memoria affidata ai giganteschi server di gruppi come Google (e tanti altri concorrenti), per custodirci praticamente tutto: il nostro lavoro, le nostre comunicazioni passate, tutti i dati che possono servirci.
Questo uso della Rete come archivio universale e deposito degli archivi personali di ciascuno di noi inizia di fatto con Gmail. Altre novità di Gmail, che oggi sono banali: la gratuità e la potenza del motore di ricerca per setacciare tutta la posta grazie all'uso di "parole chiave". Ancora, il raggruppamento delle "conversazioni" in spazi sintetici, che consentono di avere tutto il filo di una corrispondenza riunito in un posto solo. O infine quel ritrovato legato all'uso di JavaScript, che "completa" automaticamente gli indirizzi da noi usati attingendo alla memoria, e ci suggerisce i nomi appena digitiamo le prime lettere.
Page e Brin scelgono di lanciare Gmail un primo aprile, consci che Google è celebre per i suoi pesci d'aprile. E in effetti quel primo aprile 2004 gli scherzi apparenti sono due: il lancio della prima posta elettronica di Google e l'annuncio che l'azienda apre un centro di ricerca sulla Luna. C'è chi casca nello scherzo numero due (Google riceverà molti curriculum vitae per l'esperienza lunare) e invece "non abbocca" alla storia delle nuove email. Questo è indicativo del livello di innovazione che rappresentava quella posta elettronica: la base lunare era più realistica.
Il primo era la sua "neutralità" proclamata, l'imperativo di servire l'utente. Donde un metodo oggettivo per selezionare i risultati rilevanti ai fini di una ricerca: basarsi sulla "saggezza delle masse". L'algoritmo di Google, quando tu digiti una parola, dirige la ricerca dentro il cyber-universo dando la priorità ai siti più cliccati da altri. In sostanza si fida del fatto che più un sito è visitato più deve avere contenuti, rilevanti. È questa una delle peculiarità dell'algoritmo che fecero la differenza fin dal principio rispetto a quei concorrenti che ti riempivano lo schermo di risultati palesemente inutili, e costringevano te a fare la fatica di una selezione "intelligente". L'altra originalità era il rifiuto - iniziale - della pubblicità. Condito di quella filosofia etica che sappiamo: "Don't be evil", non essere cattivo, non fare il male. Tuttora la schermata d'apertura di Google è bianca, talvolta decorata, mai venduta come spazio pubblicitario. Era importante per affermare la propria credibilità, dire agli utenti che quello spazio era tutto loro, non era in vendita.
Poi Google in realtà ha fatto una netta inversione, ed è diventato il regno delle inserzioni pubblicitarie. Ha rivoluzionato anche quelle, vendendo un metodo che calcola le tariffe per gli inserzionisti in modo esattamente proporzionale ai clienti che "cliccano" sulla loro pubblicità. Mentre chi paga per lo spot di un detersivo alla tv non può sapere se in quel momento il telespettatore si distrae e fa una telefonata, al contrario chi paga per avere la sua pubblicità su Google sa esattamente quanti vanno a guardarla.
Gmail ha seguito un'evoluzione analoga. La storia di questo sistema di posta elettronica ha inizio nel 2001, è un progetto che viene messo in cantiere a livello sperimentale e impiega tre anni per decollare. Fin dall'inizio ha un'ambizione sfrenata: offrire agli utenti una capacità di memoria stratosferica, di fatto illimitata. Misurabile in gigabyte. Cioè, all'esordio, cinquecento volte superiore a quel che offriva Hotmail di Microsoft.
Ce ne siamo dimenticati, ma c'era un'epoca in cui dovevamo cancellare man mano la posta in arrivo, altrimenti la nostra "casella" si riempiva e la memoria non aveva più spazio per nuovi messaggi. Oggi al contrario siamo abituati a usare "the cloud", la nuvola, cioè la capacità di memoria affidata ai giganteschi server di gruppi come Google (e tanti altri concorrenti), per custodirci praticamente tutto: il nostro lavoro, le nostre comunicazioni passate, tutti i dati che possono servirci.
Questo uso della Rete come archivio universale e deposito degli archivi personali di ciascuno di noi inizia di fatto con Gmail. Altre novità di Gmail, che oggi sono banali: la gratuità e la potenza del motore di ricerca per setacciare tutta la posta grazie all'uso di "parole chiave". Ancora, il raggruppamento delle "conversazioni" in spazi sintetici, che consentono di avere tutto il filo di una corrispondenza riunito in un posto solo. O infine quel ritrovato legato all'uso di JavaScript, che "completa" automaticamente gli indirizzi da noi usati attingendo alla memoria, e ci suggerisce i nomi appena digitiamo le prime lettere.
Page e Brin scelgono di lanciare Gmail un primo aprile, consci che Google è celebre per i suoi pesci d'aprile. E in effetti quel primo aprile 2004 gli scherzi apparenti sono due: il lancio della prima posta elettronica di Google e l'annuncio che l'azienda apre un centro di ricerca sulla Luna. C'è chi casca nello scherzo numero due (Google riceverà molti curriculum vitae per l'esperienza lunare) e invece "non abbocca" alla storia delle nuove email. Questo è indicativo del livello di innovazione che rappresentava quella posta elettronica: la base lunare era più realistica.
La trovata di marketing geniale che contribuisce al successo di Gmail sta nel configurarlo inizialmente come un club di privilegiati. Google concede a pochi eletti i primi indirizzi di Gmail, poi costoro a loro volta possono invitare pochi amici a far parte dell'elite. Si genera così un meccanismo di invidia, emulazione, anche se in realtà quella trovata nasce per necessità: Gmail non aveva una potenza sufficiente. Tempi remoti, preistoria. Aperto a tutti dal 2007, oggi Gmail è ben oltre il mezzo miliardo di utenti.
Fin dall'inizio, però, c'è un patto mefistofelico dietro l'apparente generosità di Gmail. Gli utenti vengono attirati dalla sua illimitata potenza e anche dai suoi efficaci filtri antispam (proprio quelli che fanno difetto ad Aol...). In cambio però accettano che le proprie email vengano setacciate in cerca di parole chiave, che poi servono a vendere pubblicità. Così, se io in una email cito Bruce Springsteen, Zucchero o Jovanotti, pochi secondi dopo comincio a ricevere offerte di biglietti per dei concerti rock vicini a casa mia. Se uso un sito di commercio online per ordinare la carta per la mia fotocopiatrice scanner, oppure scarpe da jogging, da quel momento in poi "appaiono" miracolosamente pubblicità degli stessi prodotti. E c'è di peggio. Gli indizi sul mio sesso ed età anagrafica sono sufficienti a farmi recapitare pubblicità di farmaci ad hoc (Viagra...) oppure nightclub con escort che si trovano esattamente nel quartiere di New York dove abito. Su questa intrusione le polemiche si sono scatenate fin dal 2004. Ma Page e Brin hanno rifiutato di fare concessioni significative alla privacy. Hanno scommesso che ci saremmo assuefatti allo spionaggio privato delle nostre email. E così è stato. Come in altre abitudini della nostra vita quotidiana, ci siamo arresi, abbiamo smesso di resistere.
Il paradosso è che oggi alcuni dei capi di Google, se gli mandi una email, hanno il risponditore automatico che invia messaggi di questo tipo: "Sono in vacanza dalle email. Le consulto solo sporadicamente". Uno di loro, proprio il progettista-capo di Gmail Paul Buchheit, ha confessato a "Time" la sua angoscia: "Viviamo in una cultura 24/7 [24 ore su 24, sette giorni su sette], la gente si aspetta sempre una risposta. Anche se è sabato, anche se sono le due del mattino, danno per scontato che tu debba rispondere sempre. Non esistono le vacanze. È la schiavitù". Che siano loro a fare questa "scoperta" ha il sapore di una suprema beffa.
Fin dall'inizio, però, c'è un patto mefistofelico dietro l'apparente generosità di Gmail. Gli utenti vengono attirati dalla sua illimitata potenza e anche dai suoi efficaci filtri antispam (proprio quelli che fanno difetto ad Aol...). In cambio però accettano che le proprie email vengano setacciate in cerca di parole chiave, che poi servono a vendere pubblicità. Così, se io in una email cito Bruce Springsteen, Zucchero o Jovanotti, pochi secondi dopo comincio a ricevere offerte di biglietti per dei concerti rock vicini a casa mia. Se uso un sito di commercio online per ordinare la carta per la mia fotocopiatrice scanner, oppure scarpe da jogging, da quel momento in poi "appaiono" miracolosamente pubblicità degli stessi prodotti. E c'è di peggio. Gli indizi sul mio sesso ed età anagrafica sono sufficienti a farmi recapitare pubblicità di farmaci ad hoc (Viagra...) oppure nightclub con escort che si trovano esattamente nel quartiere di New York dove abito. Su questa intrusione le polemiche si sono scatenate fin dal 2004. Ma Page e Brin hanno rifiutato di fare concessioni significative alla privacy. Hanno scommesso che ci saremmo assuefatti allo spionaggio privato delle nostre email. E così è stato. Come in altre abitudini della nostra vita quotidiana, ci siamo arresi, abbiamo smesso di resistere.
Il paradosso è che oggi alcuni dei capi di Google, se gli mandi una email, hanno il risponditore automatico che invia messaggi di questo tipo: "Sono in vacanza dalle email. Le consulto solo sporadicamente". Uno di loro, proprio il progettista-capo di Gmail Paul Buchheit, ha confessato a "Time" la sua angoscia: "Viviamo in una cultura 24/7 [24 ore su 24, sette giorni su sette], la gente si aspetta sempre una risposta. Anche se è sabato, anche se sono le due del mattino, danno per scontato che tu debba rispondere sempre. Non esistono le vacanze. È la schiavitù". Che siano loro a fare questa "scoperta" ha il sapore di una suprema beffa.
Federico Rampini (tratto da "Rete Padrona - Feltrinelli - Settembre 2014")
martedì 27 gennaio 2015
Spending review, “il dossier Cottarelli? Né Palazzo Chigi e né il Mef sanno dove sia”
Che fine ha fatto il dossier Cottarelli? I documenti finali del commissario straordinario alla spending review, frutto di oltre un anno di lavoro con la sua squadra, sono ancora ben chiusi in qualche cassetto, ma non si sa di quale Palazzo. Almeno a giudicare dalle risposte della Presidenza del Consiglio dei ministri e del ministero dell’Economia e delle Finanze che, di fronte alle richieste dei promotori dell’iniziativa per avere un Freedom of Information Act in Italia (una
legge che consenta l’accesso ai documenti degli enti pubblici a
chiunque ne faccia richiesta senza il bisogno di una motivazione o di
una necessità giuridica, ndr) di accedere al dossier, hanno entrambi fatto sapere di non essere in possesso delle carte.
Delle varie istanze presentate a Palazzo Chigi, a seguito della petizione presentata a dicembre “sia per via cartacea che via fax”, l’unica che ha ricevuto risposta è stata quella inviata via fax al Dipe (Dipartimento
per la coordinazione e la programmazione della politica economica) che
ha fatto sapere di non possedere “gli atti richiesti, non avendo
peraltro competenza in materia”. Infatti, come specifica il resto del
testo “si precisa che il Dpcm del 18 ottobre 2013 di nomina del commissario straordinario dott. Cottarelli, disponibile sul sito revisionedellaspesa.gov.it all’articolo 2 stabilisce che per l’esercizio delle sue funzioni il Commissario straordinario si avvale delle risorse umane e strumentali del ministero dell’Economia e delle Finanze”.
Ed effettivamente sul sito dedicato al lavoro della task force, il decreto di nomina di Cottarelli prevede proprio una sua collaborazione con il ministero dell’Economia. Ma dal Mef nulla di fatto. “Ci hanno detto di non esserne in possesso – spiega Andrea Fama, giornalista tra i promotori dell’iniziativa per introdurre il Foia in Italia - . E hanno ribadito che la competenza è della presidenza del Consiglio. Proprio il contrario di quello che ci avevano fatto sapere dagli altri uffici”.
Anche a ilfattoquotidiano.it il ministero dell’Economia ha
fatto sapere che per entrare in possesso degli atti la richiesta deve
essere presentata alla presidenza del Consiglio dei ministri poiché “Cottarelli era un commissario di governo”, dunque “la competenza è di Palazzo Chigi”.
Ma da lì, dopo una mattinata di telefonate e rimpalli tra i vari
uffici – ufficio stampa e del portavoce del presidente, ufficio del
segretario generale, Dipe e poi due tentativi con il ministero
dell’Economia – non è arrivato nessun segnale chiaro su come procedere, a
chi chiedere, e soprattutto dove siano i documenti e di chi sia la reale competenza, se di Piazza Colonna o di via XX Settembre.
“Una situazione paradossale, anzi, un percorso a ostacoli
senza senso”, afferma Fama. La domanda però rimane: che fine ha fatto
il dossier Cottarelli sulla spending review? Sarà mai possibile leggere
il risultato finale del lavoro del commissario? “Noi a questo punto
rinnoveremo l’istanza alla presidenza del Consiglio dei ministri, alla luce anche della risposta del Mef. Anche perché purtroppo più di questo l’attuale normativa vigente non ci permette altro – prosegue Fama -. Il punto è sempre uno: servono maggior trasparenza e maggiori diritti. In modo tale da poter richiedere i documenti,
ricostruirne il percorso e scoprirne anche il contenuto. Per questo
motivo noi andiamo avanti anche con la nostra battaglia per avere un Freedom of Information Act, che in Italia ancora non c’è, nonostante le promesse”.
Twitter @chiacarbone (Il Fatto Quotidiano - 27 gennaio 2015)
lunedì 26 gennaio 2015
La vita e le malattie determinate dal caso, chi vuol essere lieto sia
Nelle
more dei fatti di Parigi è passata quasi inosservata una notizia di
grande interesse. Un gruppo di scienziati della prestigiosa Johns
Hopkins University, dopo una serie di approfondite ricerche, ha concluso
che solo un terzo dei tumori ha alla sua origine lo stile di vita o
fattori ereditari, i due terzi sono dovuti, per usare un termine di uno
di questi ricercatori, Bert Vogelstein, alla sfortuna. E' una
notizia liberatoria che se non fa piazza pulita del terrorismo
diagnostico e della medicina preventiva dovrebbe perlomeno frenarne gli
eccessi, per cui oggi negli Stati Uniti si tolgono le ghiandole mammarie
a ragazzine di dodici tredici anni, con i traumi che sono facilmente
immaginabili, per metterle al sicuro dal rischio di sviluppare tumori in
età adulta dato che la loro madre o altre parenti di sesso femminile
sono morte di cancro al seno (a questa operazione si è sottoposta anche
la bellissima Angelina Jolie, sia pur in età matura).
Ma
il significato della ricerca degli studiosi della Johns Hopkins va
oltre. Per la prima volta la Scienza, solitamente così sicura di sè,
ammette la propria limitatezza di fronte all'Imponderabile, al Caso, a
quello che i Greci, tanto più sapienti, chiamavano Fato per cui ognuno
di noi ha un destino, imperscrutabile, il cui senso si può cogliere solo
alla fine della nostra esistenza. Così come quasi ogni fatto che ci
capita nella vita quotidiana può essere valutato solo a posteriori.
Quante volte a chiunque di noi è accaduto di accorgersi che
un'esperienza che all'apparenza appariva un bene si è rivelata invece un
male e viceversa?
Del
pari la ricerca della Johns Hopkins ci libera, o dovrebbe liberarci, di
una delle più perniciose ossessioni del mondo contemporaneo: la pretesa
del controllo. Noi vogliamo controllare tutto. Ci assicuriamo su tutto e
poi ci assicuriamo sull'assicurazione in un processo psicologico, che
sarebbe forse più esatto chiamare psicoanalitico, che è all'origine di
tante delle nostre ansie e delle nostre nevrosi. Siamo convinti di
esserci protetti nel migliore dei modi e poi una mattina usciamo di
casa, ci cade un mattone sulla testa e la festa è bell'e che finita.
Naturalmente questa ossessione del controllo è particolarmente presente
nella medicina moderna (e sono convinto che la casualità che gli
scienziati della Johns Hopkins hanno trovato per il tumore valga anche
per molte altre malattie). Secondo i suoi canoni dovremmo fare almeno
sei esami l'anno, test, visite di routine (pratica quanto mai sinistra
perché raramente se ne esce senza danni e si viene inghiottiti nel
girone infernale della medicina tecnologica), dovremmo auscultarci,
palparci ad ogni momento, essere tesi a percepire ogni minimo segnale di
un rischio che quasi sempre non è che il riflesso di un'ipocondria
collettiva diffusa, non sempre disinteressatamente, dalla medicina di
oggi, secondo la quale dovremmo vivere da malati quando siamo ancora
sani, da vecchi fin da giovani.
«La
vita è un rischio» scriveva Giuseppe Prezzolini. E' vivere che ci fa
morire. E' ovvio. Ma per questo dovremmo rinunciare a viverla standocene
imbozzolati nelle nostre paure? La ricerca della Johns Hopkins riporta
in circolo un po' di sano fatalismo, «lontani dalle torture salutiste e
dalle diete» come scrive Stefano Zecchi. Cerchiamo di goderci la vita,
qui e ora, senza curarci troppo di un futuro di cui poco o nulla si può
sapere. Per dirla con Lorenzo il Magnifico: «Quant'è bella
giovinezza/che si fugge tuttavia/Chi vuol esser lieto sia/di diman non
v'è certezza».
Massimo Fini (Il Gazzettino, 23 gennaio 2014)
venerdì 23 gennaio 2015
Non mi dispiaceva l'idea Riccardo Muti. Ma, pistola alla tempia, scelgo Prodi
Poiché
non credo alla democrazia rappresentativa io non dovrei nemmeno
partecipare a questo gioco. Comunque penso, come molti, che il nuovo
Presidente della Repubblica dovrebbe essere un uomo che non si è mai
compromesso con la classe dirigente, di destra o di sinistra, che ci ha
governato negli ultimi trent'anni. Vai a trovarlo, in Italia. Penso che
un uomo del genere possa essere cercato solo nelle arti nobili e in
tempi non sospetti, prima che ne facesse cenno Renzi, avevo avanzato il
nome di Riccardo Muti. Dice: ma Muti non ha nessuna esperienza di leggi,
regolamenti, prassi costituzionali. Non ha alcuna importanza. Per
questo esiste una burocrazia, senza la quale il Presidente della
Repubblica o del Senato o della Camera non sarebbe in grado di
esercitare le proprie funzioni e nessun premier o ministro di formulare
leggi (per questo è pagata quel che è pagata). Anche la Pivetti è
riuscita a fare il presidente della Camera. Comunque questo desiderio
onirico è tagliato alla radice dal fatto che Muti o altri artisti della
sua caratura non accetterebbero mai di lasciare il loro mestiere per le
polverose stanze del Quirinale. Bisogna quindi ripiegare sui soliti
noti. Io spero che Grillo non si incaponisca a riproporre Rodotà, una
vecchia sòla sempre ben incistata sia nella Prima che nella Seconda
Repubblica, una specie di Giuliano Amato in tono minore. Piuttosto,
pistola alla tempia, Romano Prodi, che sì è un ex 'boiardo di Stato', ma
non è mai stato coinvolto in episodi di corruzione, conosce le
Istituzioni, è uomo di cultura, ha prestigio internazionale e che gode
di qualche simpatia anche fra i grillini. Non piace né a Renzi, né,
tantomeno, a Berlusconi? Una ragione in più per puntare su di lui.
Zagrebelski? Certamente un uomo senza macchia e preparato, ma il
Presidente della Repubblica, che rappresenta tutti gli italiani,
dovrebbe essere un uomo minimamente conosciuto non un ufo che esce dal
cilindro dei 'desiderata' della sinistra radical chic.
Ma
in realtà qui stiamo girando intorno al nocciolo della questione. In
tempi normali il Capo dello Stato, in quanto arbitro, deve essere una
figura abbastanza incolore (com'è noto il miglior arbitro è quello che
non si nota). Ma sull'Europa e quindi anche sull'Italia si stanno
addensando nubi pesantissime. Ci vorrebbe come presidente o premier un
uomo dalla fortissima personalità. Un Winston Churchill che quando fu
eletto primo ministro agli albori della seconda guerra mondiale,
parafrasando il celebre discorso di Catilina ai soldati prima della
battaglia, disse agli Inglesi: «Vi prometto solo lacrime e sangue».
Purtroppo non vedo in giro nessun Churchill.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2015)
mercoledì 21 gennaio 2015
Salva Berlusconi, Matteo Renzi denunciato in procura
Una denuncia penale alla Procura di Roma. Con trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri. Il tutto per accertare se la delega fiscale abbia travalicato le normali competenze «costituendo in tal modo un reato commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro o del presidente del Consiglio».
Guai in vista per Matteo Renzi, preso con le mani
nel sacco per le impronte digitali lasciate sul luogo del “delitto”. E’
stato il premier in persona, del resto, ad ammettere che la famosa
“manina” di Palazzo Chigi che aveva scritto le norme più contestate era
proprio la sua. Un’ammissione che ora rischia di costargli un’indagine per falso in atto pubblico. Per l’esposto-denuncia presentato dall’ex senatore Elio Lannutti, presidente dall’Adusbef (Associazione di utenti bancari finanziari assicurativi e postali) alla Procura della Repubblica di Roma in seguito alla vicenda della norma salva-Silvio,
spuntata la vigilia di Natale nella delega fiscale dopo che il
Consiglio dei ministri aveva già deliberato sul provvedimento.
L’associazione di Lannutti vuole vederci chiaro e per questo chiede alla
magistratura di accertare se con la normativa, «probabilmente scritta
da studi legali che difendono imputati eccellenti di
frodi fiscali a danno della fiscalità generale e dei contribuenti onesti
tartassati», anche per colpa «di evasori che sottraggono circa 120
miliardi l’anno» all’Erario, il premier non sia andato
oltre i limiti delle norme che regolano le sue competenze e la
correttezza dei procedimenti legislativi.
La vicenda è nota. Con il pretesto della certezza del diritto nei
rapporti tra contribuenti e fisco, la norma voluta dal premier avrebbe
finito per depenalizzare, con effetto retroattivo, i reati di frode ed
evasione fiscale qualora l’Iva o le imposte sui redditi evase non
superassero il limite del 3 per cento rispettivamente sull’ammontare
dell’imposta o dell’imponibile dichiarato. Risultato: chi più evade più
guadagna, senza rischiare la galera, ma solo sanzioni amministrative.
«Chi fattura un milione di euro, poteva evadere fino a 30 mila euro, chi
fattura un miliardo poteva evadere, per effetto del 3 per cento, 30
milioni di euro – si legge nell’esposto dell’Adusbef – Uno schiaffo ai
contribuenti onesti spina dorsale della fiscalità generale» e un vero e
proprio regalo per una serie di famosi personaggi e aziende di primo
piano finite nel mirino dell’amministrazione finanziaria e delle
procure.
Il caso di Silvio Berlusconi, già condannato in via definitiva per frode fiscale e che ovviamente avrebbe beneficiato pure lui del “condono”,
non è neppure il più eclatante. Perché, come ricorda Lannutti, quella
norma rischiava di far saltare una lunga serie di processi in corso.
«Dai presunti fondi neri e tangenti in relazione agli appalti per il Sistri dell’inchiesta Finmeccanica a quella per presunta frode fiscale nella cosiddetta “operazione Brontos”, che vede indagato anche l’ex amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo
(si parla di 245 milioni di euro sottratti al fisco dal 2007 al 2009),
di cui la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio nel giugno
scorso». Tra i potenziali beneficiari c’è anche la famiglia Riva, già proprietaria dell’Ilva di Taranto, finita nei guai proprio per frode fiscale. Ma c’è anche la famiglia Aleotti, proprietaria della Menarini Farmaceutici, nella bufera per i «178 milioni spesi per acquistare il 4% di Banca Mps»,
che gli inquirenti sospettano siano arrivati «da 1,2 miliardi di euro
accumulati con la contestata truffa sui principi attivi dei farmaci, con
la corruzione di pubblici ufficiali e con numerosi reati di frode
fiscale». Senza contare i vantaggi che ne avrebbero tratto big
dell’imprenditoria «come Prada (ha sborsato 470
milioni, ma la procura di Milano come “atto dovuto” ha ancora aperto un
fascicolo per “omessa o infedele dichiarazione dei redditi”, che vede
indagati proprio Miuccia Prada, Patrizio Bertelli, e il loro commercialista) e Armani (270 milioni)».
All’esposto, Lannutti ha allegato il parere di due illustri costituzionalisti, tratti dalle interviste rilasciate dai due giuristi al “Fatto Quotidiano”. Quello di Alessandro Pace, che definisce una «gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche» la vicenda della “manina” del premier. «Perché
il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del
nostro ordinamento costituzionale – argomenta – ha usato un sotterfugio
per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse Ie sembianze di
una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il collega Federico Sorrentino: «E’ che siamo al di là di una leggerezza. Siamo di fronte a un falso in atto pubblico. Che per un premier, un ministro o comunque un funzionario pubblico è particolarmente grave» , sostiene Sorrentino.
Questa la denuncia di Lannutti. Adesso toccherà ai magistrati
stabilire se tutto l’affaire e l’ammissione di responsabilità del
premier Renzi sulla scrittura del famigerato decreto fiscale
costituiscano un falso in atto pubblico così da meritare la trasmissione
degli atti al Tribunale dei ministri. L’obiettivo del presidente
dell’Adusbef è anche quello di «prevenire la reiterazione di un danno
valutato almeno 16 miliardi di euro» ed evitare che un’altra “manina”
possa spuntare di nuovo quando il 20 febbraio il governo tornerà ad occuparsi della materia.
Ormai siamo in guerra e allora va sospeso il trattato di Schengen
La grande manifestazione di Parigi, con due milioni di persone in
piazza, 50 capi di Stato, non è un segnale di forza ma di debolezza.
Quando si grida che non si ha paura vuol dire che si ha paura. E se
bastano 17 morti per provocare una reazione così spropositata ciò non
farà che incoraggiare i mininuclei jihadisti a ripetersi, certi di avere
una risonanza mondiale. Non solo: poiché viviamo in un'epoca mediatica,
stuzzicherà balordi e frustrati di ogni genere a cercare di imitare gli
jihadisti per passare alla Storia, come fece Erostrato incendiando il
Tempio di Artemide a Efeso.
Noi Europei, a metà del '900, ci siamo fatti una guerra spaventosa
che ha causato 50 milioni di morti e i sopravvissuti, vincitori o vinti
che fossero, sono usciti rafforzati da questa prova tremenda e, insieme,
formidabile. Ma cinquant'anni di benessere ci hanno infiacchito,
infrollito, indebolito. Così oggi non siamo in grado di sopportare
emotivamente 17 vittime di guerra. Perché di guerra si tratta. Per la
verità sono più di dieci anni che abbiamo mosso guerra al mondo
musulmano: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia (2006/7), Libia
(2011) e, da ultimo, bombardando le posizioni dell'Isis che sta
combattendo una sua legittima battaglia per la conquista di territori
che non sono nostri. Ma poiché le vittime, grazie alla nostra enorme
superiorità tecnologica, cadevano, a centinaia di migliaia, solo in
campo altrui, e il conflitto non toccava i nostri territori e le nostre
tranquille abitudini, non ci siamo accorti che eravamo in guerra. Ma,
prima o poi, dovevamo aspettarci un colpo di ritorno, come scrivevo sul
nostro giornale il 29 agosto.
Adesso i fatti di Parigi ci hanno reso finalmente consapevoli che la
guerra, con i suoi massacri, non riguarda più solo gli altri: riguarda
anche noi e ci stringe da vicino, da molto vicino. Adesso che gli errori
e gli orrori di cui ci siamo resi responsabili per più di dieci anni
sono un dato incancellabile, si pone la cerniveskiana domanda: che fare?
Riconoscere che siamo in guerra e applicare le leggi di guerra. In
questa situazione il trattato di Schengen, con la libera circolazione
delle persone, senza controllo alcuno, fra i Paesi che l'hanno firmato,
va sospeso. Si ripristino le frontiere. La privacy deve cedere il passo
alle ragioni della sicurezza. Censura sulle informazioni di tipo
militare. Divieto a tutte le 'vispe terese', femmine o maschi, delle Ong
o cani sciolti di circolare nei Paesi con cui siamo o siamo stati in
guerra se non sotto il diretto controllo delle autorità militari.
Se fossi uno dei decisori occidentali riconoscerei lo Stato islamico
di Al Bagdadi che ormai, lo si voglia o no, è una realtà. E tratterei
col Califfo che si è conquistato una tale autorità sul campo di
battaglia da poter tenere a freno le cellule terroriste che stanno
fermentando un po' dappertutto, in Algeria, nel Sinai, nello Yemen. In
cambio proporrei il ritiro di tutte le nostre truppe, delle basi e la
fine dei bombardamenti sull'Isis. Che i popoli del Medio Oriente se la
vedano fra loro, senza le nostre pelose, oltre che sanguinarie,
intromissioni.
Utopia? Certamente. Solo pochi giorni fa il Parlamento francese ha
votato all'unanimità (un solo voto contrario) un ulteriore incremento
dei bombardamenti sull'Isis, quei bombardamenti che sono stati la goccia
che ha fatto traboccare il vaso terrorista, come ha affermato Coulibaly
nel suo 'testamento' postumo. La stessa proposta l'ha avanzata
Berlusconi. E qui passiamo dalla tragedia alla farsa. Che un detenuto
abbia voce in capitolo su queste questioni è una cosa che può capitare
solo in Italia.
Massimo Fini (Il Gazzettino - 16 gennaio 2015)
martedì 20 gennaio 2015
PAPÀ CONIGLIO
Crescete e moltiplicatevi ma senza esagerare, è la lieta novella annunciata ieri dal Papa Pop [leggi qui].
I buoni cattolici, dice Francesco, non devono comportarsi come conigli.
E due millenni di storia ecclesiastica e di lenzuola ricamate «non lo
fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio» sembrerebbero finire in
naftalina. Perché il corollario logico del Discorso Del Coniglio non può
che essere il riconoscimento del ruolo anticonigliesco della
contraccezione. In attesa messianica di un Discorso del Preservativo,
dalle prossime performance del Papa Pop si attendono delucidazioni su
altri metodi più invasivi, ma meno compromettenti sul piano dell’etica
cattolica. La doccia ghiacciata perenne, la tv accesa su una partita di
Champions, l’armadio appoggiato alla porta della camera da letto per
impedire al partner di entrare.
Il Discorso del Coniglio segue di pochi
giorni il Discorso del Pugno (a chi insulta la mamma) e ha preceduto di
pochi minuti il Discorso del Calcio Dove Non Batte Il Sole, che secondo
questo Papa Don Camillo andrebbe rifilato ai corrotti. Anch’io, come
tutti, vado letteralmente pazzo per il linguaggio disinibito del
Pontefice che viene «quasi dalla fine del mondo» e in effetti dice cose
quasi dell’altro mondo. E non sarà certo un umile peccatore, e
scribacchino per giunta, a fare la predica a un Papa. Da laico
affettuoso mi permetto soltanto di chiedergli se non pensa che alla
lunga questo suo parlare semplice e pieno di buon senso, mai seguito
però da fatti concreti, non rischi di togliergli autorevolezza e
credibilità. Facendolo assomigliare, più che a un vecchio prete
argentino, a un giovane premier toscano.
Massimo Gramellini (Jack's Blog - La Stampa - 20 gennaio 2015)
IL PIATTO DEL NAZARENO
Mentre il Piatto del Nazareno si gonfia ogni
giorno di nuove pietanze – le controriforme elettorale e costituzionale,
il mega-condono fiscale, il falso in bilancio copiato da quello di B., i
vertici delle Procure-chiave, gli inciuci per issare al Quirinale il
consigliori di Craxi nonché candidato del Caimano – saltano fuori (dal
piatto) due leader che offrono una zattera a chi non vuol morire
nazareno. Entrambi strappano con le precedenti appartenenze all’insegna
della legalità.
Il primo è un politico, Sergio Cofferati, uscito dal Pd dopo la
vergogna delle primarie liguri truccate da extracomunitari cammellati e
infiltrati mafiosi, fascisti, alfaniani e scajoliani, uniti ai
renzian-burlandiani per continuare a spartirsi la regione: un
SuperNazareno locale che diventa partito unico con candidato unico, ben
oltre il patto e il piatto romano.
Il secondo è un giudice, Piercamillo Davigo, che abbandona dopo oltre
30 anni la corrente conservatrice di Magistratura Indipendente, ormai
ridotta a ruota di scorta dei nazareni del Csm, un tempo organo di
autogoverno delle toghe e ora organo di controllo del governo sulle
toghe. E sta per fondarne una nuova, “Autonomia e indipendenza”,
ispirata all’articolo 104 della Costituzione, uno dei più traditi e
calpestati dai politici e da una parte degli stessi magistrati: “La
magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro
potere”. La genesi dello strappo la spiega lo stesso Davigo, già membro
di punta del pool Mani Pulite, poi giudice d’appello, infine di
Cassazione, nell’intervista al Fatto [clicca qui per leggerla].
Ma c’è anche un aspetto politico che un magistrato come lui non può
affrontare: la supermaggioranza Renzi-B., complice Napolitano, ha messo
le mani sul Csm con tre mosse mai viste nella storia repubblicana.
1) Ha paracadutato il sottosegretario Legnini (Pd) alla vicepresidenza, cioè alla guida operativa del Consiglio.
2) Si è tenuto come sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il
magistrato berlusconiano che da via Arenula seguita a fare il ras di MI,
sponsorizzando i suoi fedelissimi, poi regolarmente eletti nel nuovo
Csm (Pontecorvo e Forteleoni).
3) Ha assecondato con tutto il peso dei membri laici di destra, di
centro e di sinistra e con l’aggiunta del Presidente e del Pg della
Cassazione le manovre del Quirinale per orientare le nomine dei capi
delle Procure (vedi Palermo), i procedimenti disciplinari e le pratiche
di incompatibilità ambientale salvando i magistrati allineati (Bruti
Liberati) e colpendo i cani sciolti (Esposito, Di Matteo, Robledo ecc.).
Così nel Csm s’è saldata un’inossidabile maggioranza “nazarena”
filogovernativa: i 2 capi della Cassazione, gli 8 laici di tutti i
partiti e i 4 di MI. Totale: 14 su 27 (il 27° è il capo dello Stato, che
di solito non vota, ma fa votare). La prova su strada l’han fatta con
la nomina di Franco Lo Voi, il candidato meno esperto e titolato, a
procuratore di Palermo, a danno dei due concorrenti molto più meritevoli
di lui, Lo Forte e Lari, che l’hanno subito impugnata al Tar. Quando
Davigo, noto per l’intransigente indipendenza dalla politica, è stato
proposto a presidente di MI, i Ferri-boys l’hanno stoppato,
preferendogli Pontecorvo, uno dei protetti del sottosegretario
impiccione. La nuova corrente, che ora potrebbe attrarre molti
magistrati di vari orientamenti, accomunati dall’insofferenza per il
collateralismo politico delle vecchie, si chiama “Autonomia e
indipendenza” proprio per questo. E ha già sortito l’effetto di mandare
in minoranza i nazareni al Csm, che ora sono 13 a tavola: uno dei
quattro di MI, Aldo Morgigni, se n’è andato con Davigo.
Chi coltivava il disegno autoritario e
velleitario di papparsi l’Italia comprimendo ogni differenza, soffocando
ogni dissenso e irregimentando tutto e tutti sotto un sudario di
conformismo che non ammette voci stonate, è servito: la pentola a
pressione è esplosa. Cofferati nel Pd e Davigo nella magistratura hanno
aperto le prime falle nel coperchio, per far uscire la puzza e far
entrare un po’ d’aria fresca.
Marco Travaglio (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano - 20 gennaio 2014)
lunedì 19 gennaio 2015
Quirinale: manca il Capo dello Stato. Qualcuno se ne è accorto?
Ma come fanno i deputati, come fanno i senatori, a restare lì dentro a far finta di lavorare, mentre un caos di fili annodati l’uno nell’altro, che sarebbero le riforme
da fare subito, si accatasta qui dentro come in una fabbrica assediata?
Non so chi ha avuto questa vertigine. Ma qualcuno ha deciso, in un
momento di estrema confusione, in cui manca il capo dello Stato, di fare
finta di niente e come direbbero ufficiali severi e patriottici sotto
un bombardamento, l’importante è che nessuno lasci il suo posto. Sapete a
che cosa si lavora? Alla Camera per completare l’abolizione del Senato. Al Senato per avere la legge elettorale per eleggere la Camera (unica parte del Parlamento che sopravvive).
Come ricorderete, il Paese continua a non avere una legge elettorale
da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato inaccettabile quella a
liste blindate che il governo di Berlusconi,
all’improvviso e senza ragione, aveva fatto calare sull’Italia coloniale
che governava con la rigorosa fedeltà dei media e con la complicità di
un’opposizione silente o assente. Ma il Senato non può
fare la legge elettorale finché non sa se e fino a quando il Senato
continuerà a esistere. E la Camera non può continuare a votare finché non c’è un presidente della Repubblica che possa firmare la legge.
È in corso, vi sarete accorti, una gara furiosa e appassionata di una sola persona con se stessa. Si tratta del presidente del Consiglio Renzi
che voleva un cronoprogramma, senza badare al contenuto delle materie
che via via avrebbero dovuto passare sulla sua catena di montaggio. Nel
frattempo vuole essere l’arbitro assoluto (insieme a Berlusconi,
strettamente legato da un patto che non conosciamo) della selezione,
poi della scelta, poi della strategia, poi della votazione, magari con
un tuono di ovazioni, per il presidente che non c’è. Nel frattempo,
naturalmente, ciascuno dei mille deputati, senatori e votanti aggiunti
in rappresentanza – come si usa dire – del potere locale,
stanno facendo, quasi ognuno, la stessa cosa: si candidano o
partecipano a gruppi, alcuni da dopo lavoro, altri accanitamente
militanti, per l’elezione di qualcuno.
Nel frattempo le reti televisive fanno lotterie e distribuiscono ai partecipanti dei loro talk show
biglietti per votare i nomi preferiti. I giornali pubblicano, uno dopo
l’altro, vite e curricula, ipotesi e sceneggiature di possibili esisti.
Poiché c’è spazio e tempo, di alcuni presidenti inventati ci si
trattiene a dire che cosa farà in Europa, come affronterà le fabbriche
chiuse, e persino in che rapporti è o sarebbe con Obama e la Bce. Ma il
presidente non c’è, e i deputati e senatori che lo devono eleggere,
lavorano o fanno finta di lavorare ad altro. Fanno finta perché niente
può andare avanti. Bisognerebbe almeno tenere conto delle due ipotesi
fondamentali: eleggere un presidente che sia un nulla e che non conti
nulla. È il sogno di Renzi ma non è detto che tutti i sogni si avverino,
persino per lui. Oppure, per qualche errore che può sempre succedere,
il presidente è qualcuno, che vuol sapere che cosa si sta votando e
perché, e in quale ordine e con quale urgenza, anche solo come cortese
informazione.
C’è qualcosa di folle nel concepire l’idea che voi lavorate a riforme
costituzionali e a una legge chiave come quella elettorale, da cui
dipende la qualità della vita democratica del Paese, e io intanto penso,
per conto mio, a giudizio mio e del mio socio (e non disturbatemi) a
trovare la persona adatta per le cerimonie. Ma c’è un
altro fatto che è impossibile non considerare. Statisticamente, è più
probabile che sia un deputato o un senatore, a essere eletto presidente
della Repubblica piuttosto che qualcuna o qualcuno esterno alla vita
politica. È naturale che tutti si sentano parte, alcuni apertamente in
corsa. Tutti, comunque, hanno una ragione per volere il
tempo di partecipare alla più importante discussione politica italiana
ogni sette anni (in questo caso, nove, ma proprio a causa di una cattiva
legge elettorale che non produce maggioranze e che adesso bisognerebbe
ritoccare in fretta e furia prima del voto presidenziale).
In altre parole il progetto sembra essere di far trovare il grosso
del lavoro già fatto alla brava persona che sarà mandata al Quirinale,
con lo svelto voto di una mezza giornata, in modo che debba dedicarsi
alle sue cerimonie senza pensieri sproporzionatamente pesanti e senza
mettere becco in questioni già decise. Mi rendo conto che sto dicendo le
stesse cose che ha detto in aula il capogruppo di Forza Italia Brunetta.
Evidentemente il travolgente impulso di Renzi di fare in fretta, non
importa se male, non importa che cosa, sta accostando allarme e proteste
di chi vede, anche da punti di vista immensamente diversi, lo stesso
innegabile pericolo. Come se non bastasse grava (a scapito persino di
Brunetta) il patto del Nazareno, che è saldo, segreto e inviolabile.
E certamente ha nella elezione del capo dello Stato, il suo punto più
importante. Non c’è bisogno di immaginare che sia una associazione per
scopi indicibili. Ma è segreta, “tiene” (ci assicurano ogni volta o la Boschi o Verdini)
e ci annuncia che le decisioni sono già prese. Sarebbe un caos, se il
patto dovesse fallire. Sarebbe un caos se la pallina (secondo decisioni
che non conosciamo con persone che, purtroppo, conosciamo) andasse in
buca. Qualcuno vede il lieto fine?
Furio Colombo (Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2015)
Rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del Mullah Omar
Tutto ha inizio con l'Afghanistan. In questi giorni il Corriere
ripubblica le corrispondenze di Tiziano Terzani nei primi mesi
dell'occupazione americana in cui il giornalista si pone dei dubbi sulla
validità di quella operazione che sono da sempre anche i miei.
L'occupazione dell'Afghanistan non aveva, una volta tanto, delle
motivazioni economiche (quella terra non ha il petrolio ed è povera di
tutto) ma squisitamente ideologiche. Si voleva spazzar via il progetto
del Mullah Omar e dei suoi giovanissimi Talebani (14-27 anni) di
riportare i costumi dell'Afghanistan all'epoca di Maometto (VII sec.),
costumi peraltro mai venuti meno nella vastissima area rurale del Paese,
senza però rinunciare ad alcune, poche, mirate, conquiste della
Modernità soprattutto nel campo della salute e dei trasporti. Una sorta
di 'Medioevo sostenibile'. L'Afghanistan non costituiva alcun pericolo
per l'Occidente perché gli afgani, talebani o no, non si sono mai
interessati d'altro che del loro Paese. E Bin Laden? I Talebani se lo
erano trovato in casa, ce lo aveva portato Massud. Omar non lo vedeva di
buon occhio, lo definiva «un piccolo uomo», ma doveva tener conto che
Bin Laden godeva di un certo prestigio fra la popolazione perché, con le
sue ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali, infrastrutture
di cui il Paese aveva estremo bisogno dopo i dieci anni di devastazione
sovietica (quello che avremmo dovuto far noi, che vi abbiamo invece
portato una disoccupazione al 40%, corruzione e, grandiosa conquista
della democrazia, i bordelli e X Factor). Comunque quando nel dicembre
del 1998, dopo gli attentati in Kenya e Tanzania, Bill Clinton chiese al
Mullah Omar di far fuori Bin Laden, si disse disponbile purché la
responsabilità dell'assassinio se la assumessero gli americani
(Documento del Dipartimento di Stato del 2005). Ma all'ultimo momento
Clinton, misteriosamente, si tirò indietro.
Dopo l'attentato alle Torri Gemelle, mentre le folle arabe scendono
in piazza giubilanti, il governo talebano manda un messaggio di
cordoglio a quello degli Stati Uniti: «Nel nome di Allah, della
giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che
sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il
dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari.
Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Ma non
basta: gli americani hanno deciso che il 'Mostro' deve essere cancellato
dalla faccia della terra. Eppure non c'erano afgani nel commando che
abbatté le Torri Gemelle, né afgani sono stati trovati nelle cellule di
Al Qaeda. E, oggi, non si ha notizia di afgani che combattano nelle file
dell'Isis, pur essendo anch'essi sunniti. E così sono stati tredici
anni di guerra, una guerra particolarmente vigliacca (macchine contro
uomini) e le violenze degli americani e della Nato hanno colpito
l'immaginario collettivo dell'Islam più radicale suscitando un odio
irrefrenabile contro gli occidentali. Che tutto parta da lì lo dicono
quelle tute arancioni (imposte ai guerriglieri talebani a Guantanamo,
per umiliarli) fatte indossare dai carnefici dell'Isis alle loro vittime
mentre le giustiziano, in un orrendo miscuglio di ferocia ancestrale e
sofisticata tecnologia. Anche qui c'è un abisso culturale. Gli afgani
non sono arabi. Sono un antico popolo tradizionale. Tutti quelli che
sono stati loro prigionieri, da Daniele Mastrogiacomo, alla giornalista
inglese Yvonne Ridley, alla cooperatrice Céline Cordelier, al giovane
sergente americano Bowe Bergdahl, hanno detto di essere stati trattati
con rispetto, quasi come ospiti, e le donne con particolare attenzione
alle loro esigenze femminili.
Aveva previsto un talebano intervistato da Terzani: «Io non so chi
sia Osama, non l'ho mai incontrato, ma se Osama è nato a causa delle
ingiustizie commesse in Afghanistan, queste ingiustizie faranno nascere
tanti altri Osama». E così è stato. Di fronte alla spietatezza senza se e
senza ma dell'Isis rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del
Mullah Omar. 'Il Mostro'.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015)
domenica 18 gennaio 2015
Fiat Chrysler, Marchionne si fa la banca. Così potrà chiedere soldi a Draghi
Dopo il prestito obbligazionario da 2,5 miliardi, la vendita di 100 milioni di azioni e la decisione di incamerare 2,25 miliardi di cassa di Ferrari, ora Sergio Marchionne cerca di racimolare risorse anche facendosi una banca “in house”. Il 14 gennaio è stata infatti registrata nell’albo degli intermediari finanziari Fca Bank spa, frutto di una joint venture tra Fca Italy e CA Consumer Finance, che fa capo a Crédit Agricole. L’obiettivo è evidente: abbeverarsi alle aste di liquidità a tassi super agevolati dello 0,15% che la Banca centrale europea riserva, appunto, agli istituti di credito. All’ultima tranche, quella di dicembre, le banche italiane hanno ricevuto circa 26 miliardi. Mentre nella
precedente tornata di prestiti a lungo termine concessi dall’Eurotower,
quella del 2011 e 2012, si erano assicurate circa 250 miliardi. Un piatto ricchissimo che ha evidentemente ingolosito l’amministratore delegato di Fca e la famiglia Agnelli, la cui holding Exor è socia del gruppo con il 30,05 per cento.
Di conseguenza, a fine 2013 Fca ha ha fatto domanda a via Nazionale per trasformare la finanziaria Fga Capital - anch’essa partecipata al 50% dal gruppo francese Crédit Agricole e specializzata
in finanziamenti e leasing ai clienti del gruppo – in un vero e proprio
istituto di credito. Che, avendo ottenuto la licenza bancaria in
Italia, diventa la holding di un gruppo bancario internazionale presente
in 16 Paesi europei. E potrà diversificare le attività: fare raccolta diretta, concedere prestiti slegati dalla vendita di auto e pure far fronte alle esigenze di Fca, gravata attualmente da oltre 11 miliardi di debiti.
La nascita di Fca Bank, si legge in una nota del gruppo, “costituisce
un punto d’arrivo nella naturale evoluzione del percorso iniziato 90
anni fa, con la nascita nel 1925 a Torino di Sava
(Società Anonima Vendita Automobili), prima società finanziaria
concepita per aiutare le famiglie italiane nell’acquisto di
un’automobile”. Essere diventata banca consente a Fca Bank – si legge
ancora – “di esprimere un’immagine di maggiore solidità nei confronti degli investitori internazionali, cogliendo con maggiore efficacia le opportunità di diversificazione delle fonti di finanziamento,
migliorando ulteriormente l’offerta ai propri clienti rispetto a
oggi”. Fca Bank “proseguirà nel supporto alla vendita di autovetture e
di veicoli commerciali di numerosi marchi, primi fra tutti quelli di
Fiat Chrysler Automobiles, attraverso la gestione di attività di
finanziamento alla clientela finale e alla rete dei concessionari,
nonché con la promozione di soluzioni assicurative e di attività di
locazione di lunga durata delle flotte di autoveicoli”, conclude la
nota.
Falso in bilancio: è da ridere, se non ci fosse da piangere
Ma perché nessuno glielo dice Renzi che il suo ministro della Giustizia di Giustizia non capisce niente? Ha senso assumersi orgogliosamente la paternità degli inciuci?
Per di più affrontando con superba faciloneria questioni tecniche di
cui sfuggono significato e conseguenze. Prendiamo l’ultima schifezza, il falso in bilancio riveduto, corretto e rimasto tale quale. Orlando
e Renzi lo sanno cosa sono le soglie di punibilità e a che servono?
Evidentemente no, però – se hanno pazienza – leggendo qui lo possono
capire.
Queste soglie nascono nel 1982, con i reati tributari:
sono talmente tanti che è impossibile celebrare tutti i processi.
Attenzione, tutti i processi per i reati che si scoprono; che sono una
piccola parte (il 10 %) di quelli che si commettono. Sicché si decide di
alleggerire lo strumento penale: sarà utilizzato solo per le evasioni
più rilevanti quelle al di sopra di una certa “soglia”
(fissa, uguale per tutti, non percentuale); per quelle più piccole,
sotto la “soglia”, se ne occuperà l’Agenzia delle Entrate che oltre a
riscuotere le imposte dovute, irrogherà sanzioni amministrative, le
multe.
Il sistema dunque sanziona tutta l’evasione fiscale
(scoperta): parte con la Giustizia penale e parte con quella
amministrativa. Ma le “soglie fantasiosamente immaginate dall’avv. Ghedini
in Tribuna le a Milano, mentre difende va B. imputato di falso in bi
lancio, respinte con perdite perché non previste dalla legge, quindi
introdotte con legge dallo stesso B., oggi riproposte dal duo dinamico,
semplicemente depenalizzano questo reato. In
altre parole se la posta falsificata è inferiore al 5 % del risultato
di esercizio, o all’ 1 % del patrimonio netto, il bilancio è falso sì;
ma è un falso lecito; nessuna sanzione, penale o amministrativa è prevista.
La cosa più assurda è che tanto più è ricco il falsificatore, tanto più è elevato
il falso; ma, purché inferiore alle soglie, non costituisce reato.
Invece un piccolo falsificatore, che però superi le soglie lui sì che
può essere condannato. Orlando e Renzi non lo sanno (ma Renzi dovrebbe,
laureato in Legge, ha studiato Diritto penale) ma stanno applicando a
rovescio una vituperata teoria giuridica nazista: la colpa d’autore (Tater schuld). Secondo questa teoria ciò che merita punizione non è tanto il delitto ma il modo di essere di chi lo ha commesso: si punisce qualcuno perché è molto cattivo indipendentemente dalla gravità del reato.
Ovviamente è un’aberrazione: la legge punisce il reato in funzione
della sua gravità; e prevede una pena variabile tra un minimo e un
massimo; entro questi limiti si tiene conto della personalità
del reo e si determina la misura della pena, più o meno alta. Con le
soglie previste da Orlando (e prima ancora e non a caso da B) succede
che, quanto più è ricca una persona, tanto meno è meritevole di pena.
Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. La riforma copia carbone
ha mantenuto la procedibilità a querela: vuol dire che non si può
procedere (tranne si tratti di società quotate) anche per un falso
gravissimo, se i soci della società o i creditori non sporgono querela.
I soci: avete mai visto un ladro che si autodenuncia? I soci che non
fanno parte del Consiglio di Amministrazione e che nulla sanno della
gestione della società; e i creditori: come fanno a sapere che il
bilancio è falso? Magari lo scoprono dopo un anno o due: con una
prescrizione di 7 anni e mezzo, meglio che risparmino i soldi
dell’avvocato, non ce la faranno mai. Soprattutto il falso in bilancio
riformato (!) mantiene la natura (inventata da Ghedini, lui sa benissimo
ciò che fa) di reato di danno: occorre, perché sia reato, che il falso abbia cagionato un danno ai soci o ai creditori.
Che siano danneggiati i soci che lo hanno fatto è da escludere: il falso gli serviva per procurarsi un vantaggio: ottenere finanziamenti,
distribuire dividendi, pagare meno imposte. Restano i soci
eventualmente fregati e i creditori. Ma siamo sempre lì: chi glielo dice
che il bilancio è falso? E quando se ne accorgono? Insomma: avrà
qualche significato il fatto che, dal 2000 (legge Ghedini / B), di
processi per falso in bilancio non se ne sono fatti più? Questa è la non
contestabile dimostrazione che una legge del genere di fatto lo
depenalizza.
E, tanto per concludere con un’ovvietà: il falso in bilancio è la mamma di tutti i reati contro l’economia. Procura i soldi “neri” per pagare la corruzione e il voto di scambio;
e senza di lui non si può commettere evasione fiscale. Stando così le
cose, le vanterie di Orlando (l’avevamo previsto proprio così, siamo noi
che lo vogliamo così) equivalgono a spararsi in un piede. Se proprio
devi fare le porcate, falle di nascosto e spera che non ti scoprano. Ma
forse hanno ragione loro. Forse alla gggente di tutto ciò non gliene importa nulla: sperano solo che, un giorno, un bel falso in bilancio capiti di farlo anche a loro.
Bruno Tinti (Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015)
venerdì 16 gennaio 2015
LA MANO MORTA
Ma quante mani e manine ha Matteo Renzi? Solo
nell’ultimo anno e mezzo, se n’è già perso il conto. Roba che la Dea
Kalì gli fa una pippa. C’è la mano che indica l’uscita a B. l’11
settembre 2013: “In qualunque paese, quando un leader politico è
condannato con sentenza definitiva, la partita è finita: game over”. C’è
la mano che quattro mesi dopo, 18 gennaio 2014, stringe quella di B. al
Nazareno per siglare l’omonimo patto (“profonda sintonia”), poi riusata
fino a consunzione per altre otto strette affettuose a Palazzo Chigi
per il rodaggio, la messa a punto e il tagliando dell’inciucione.
The game must go on. C’è la mano che firma l’Italicum e la
controriforma costituzionale del Senato su misura di B. che vuole
continuare a nominarsi i parlamentari in barba alla democrazia e alla
Consulta. C’è la mano che a metà febbraio twitta #enricostaisereno e poi
lo accoltella nella notte. C’è la mano che scrive il nome di Nicola
Gratteri nella lista dei ministri, alla casella Giustizia. E c’è la mano
che, la sera stessa, lo sbianchetta perché non piace a Napolitano e a
B. C’è la mano che a metà giugno dà l’altolà alla legge anticorruzione,
pronta per il voto alla Camera, perché B. non la vuole. C’è la mano che
blocca qualunque velleità di punire i conflitti d’interessi, cioè la
ragione sociale di B.. C’è la mano che a settembre sfila dalla riforma
della giustizia il blocco della prescrizione, che per B. è come l’aglio
per i vampiri. C’è la mano che firma prima la nomina di Franco Lo Voi,
il candidato meno titolato ma il più gradito al Palazzo e al Colle per
la Procura di Palermo, e poi l’anticipato possesso per prevenire i
ricorsi dei rivali esclusi. C’è la mano che alla vigilia di Natale
infila il SalvaSilvio nel decreto delegato fiscale con l’impunità a chi
froda o evade fino al 3% dell’imponibile dichiarato, cancellando la
condanna e l’ineleggibilità di B. (Renzi dice che l’arto è il suo, ma
non chi l’ha aiutato a stendere tecnicamente la porcata). C’è la mano
che ora si accinge a modificare il SalvaSilvio [leggi qui], ma non si sa come e comunque non subito: solo dopo il nuovo presidente, così tiene B. appeso per il Colle.
C’è la mano che compila la black list per il Quirinale, espungendo
tutti i nomi sgraditi a B., cioè i più popolari fuori dal Palazzo:
Rodotà, Zagrebelsky, forse Prodi (“Se B. ha eletto Ciampi e rieletto
Napolitano, perché non dovrei consultarlo anche per il nuovo
presidente?”, ripete il furbastro, e mai nessuno che gli risponda:
“Perché le altre volte B. non era un pregiudicato, e stavolta sì”; ma ci
vorrebbe un intervistatore, non una Bignardi). E c’è la mano che,
l’altroieri, emenda a nome del governo la riforma del falso in bilancio
che doveva cancellare il colpo di spugna di B. e invece è copiata paro
paro dal colpo di spugna di B. E anche stavolta non lascia impronte
digitali né tracce di Dna, o perché il titolare ha usato i guanti, o
perché ha ripulito la scena del delitto.
Ci vorrebbe il guanto di paraffina,
magari il Ris di Parma col luminol, o meglio ancora Bruno Vespa col
plastico di Palazzo Chigi, la criminologa bionda, l’avvocato Taormina,
il Paolo Crepet e la Simonetta Matone prêt-à-porter. Di solito, al
culmine del thrilling, mentre i ministri giocano allo scaricabarile e
all’“io non c’ero o se c’ero dormivo” e i giornaloni fanno gli gnorri,
scende dall’empireo il Matteus Ex Machina a dire che la mano è una sola,
sempre la stessa: la sua, che però agisce a sua insaputa. Come il
braccio del dottor Stranamore, che vive di vita propria e si alza e si
tende nell’automatico saluto al Führer. C’è sempre un equivoco, un
fraintendimento, un quiproquo, uno sbaglio, una svista, una buccia di
banana, anzi di Banana, che giustifica tutto. Sono quei maledetti gufi
che tendono una trappola dietro l’altra e lui, l’ingenuo vispo tereso,
ci casca. Ecco. Guardacaso però, ogni errore va sempre a favorire B. e
quelli come lui. Mai una volta che la manina si sbagli contro B. e
contro quelli come lui. Tant’è che, negli ambienti più accreditati, si
fa strada un’inquietante ipotesi alternativa. Che il povero Matteo,
giovane com’è, abbia subìto di nascosto un trapianto di mano. E che il
donatore sia il CaiMano.
Marco Travaglio (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano - 16 gennaio 2015)
Dieudonné, arrestato il comico. In Francia libertà d’espressione ma non troppo
Dopo aver celebrato per una settimana la libertà d’espressione senza limiti e senza censure, la Francia
arresta uno dei suoi comici più contestati per un reato d’opinione, per
una satira che è stata giudicata irrispettosa. Ieri mattina Dieudonné M’bala M’bal, accusato spesso di antisemitismo, è stato confinato agli arresti domiciliari. Il suo crimine: nei giorni successivi all’attacco terrorista alla sede di Charlie Hebdo ha scritto su Facebook: “Je suis Charlie Coulibaly“,
mischiando lo slogan universale di solidarietà ai vignettisti uccisi e
in difesa della libertà di espressione e il cognome del terrorista che
si è mosso in parallelo ai fratelli Kouachi autori della strage, quell’Amedi Coulibaly che ha ucciso cinque persone prima di essere freddato dalla polizia nel supermercato kosher.
Sempre sulla pagina Facebook di Dieudonné si trova la spiegazione di
quella battuta che tanto sdegno ha suscitato. E che non era affatto una
battuta: “Da un anno sono trattato come il nemico pubblico numero uno
anche se non faccio altro che cercare di far ridere… mi trattano come
Amedy Coulibaly ma non sono affatto diverso da Charlie”. In effetti
Dieudonné è stato trattato più come Coulibaly che non come Charlie. E
per la sua frase, che non voleva celebrare i terroristi ma denunciare le
ipocrisie della Francia, è stato arrestato proprio perché – nonostante
gli slogan e la marcia, cui ha partecipato lo stesso Dieudonné – anche
in Francia la libertà di satira non è affatto senza limiti. “A fianco
della Francia che ha marciato dicendo Jesuis Charlie, c’è un’altra
Francia più discreta, che abbiamo visto su Internet e sui social network che rifiuta quella logica e l’unità nazionale e si mette a fianco dei fratelli Kuoachi”, si indigna Cristophe Barbier dal sito del settimanale l’Express e spiegava che l’arresto di Dieudonné è “una cosa buona”.
Nei suoi 46 anni “Dieudo” ha fatto irritare parecchia gente: ha portato sul palco per uno sketch lo storico Robert Faurisson , noto e processato per appartenere al filone negazionista sulla Shoah, ha detto che Osama bin Landen
è “il personaggio più importante della storia contemporanea”, nel 2003
ha indignato con un altro sketch dal titolo poco ambiguo, “Isra-Heil”, poi si è inventato il gesto della “quenelle”:
è una specie di saluto nazista al contrario, col braccio testo verso il
basso anziché in alto, e l’altra mano piegata all’altezza della spalla.
È diventato molto popolare anche se il suo significato resta ambiguo,
lo stesso Dieudonné non lo ha mai chiarito del tutto anche se lo ha
usato nel 2009 sul manifesto elettorale di una lista anti-sionista in cui si è candidato, assieme a un esponente del partito di destra Front National.
È soltanto una provocazione, un modo per sfidare i tabù di un Paese
che vuole rimuovere il suo passato di complicità coi nazisti vietando
opinioni sgradite o è un tentativo di legittimare pregiudizi razziali
diventati indicibili in pubblico? Dieudonné non risponde, ma la
giustizia francese sì: il calciatore Nicolas Anelka ad aprile è stato squalificato per cinque match dopo una “quenelle” nel campionato inglese.
Dieudonné è la più celebre delle vittime della reazione francese alla
strage sul piano delle opinioni: ci sono almeno una cinquantina di
procedure giudiziarie per apologia di terrorismo, dopo
l’attacco a Charlie. Ci sono addirittura già cinque condanne: un uomo di
34 anni ha ricevuto quattro anni di carcere per aver urlato ai
poliziotti “ci vorrebbero più Kouachi”. Ma va notato che l’apologia di
terrorismo è arrivata dopo un incidente mentre guidava ubriaco.
Il giornale progressista Le Monde, consapevole della
stranezza di difendere la libertà di satira mentre si mette ai
domiciliari un autore satirico per un post su Facebook, dedica un lungo
approfondimento al tema: “Quali limiti alla libertà di espressione?”,
firmato da Damien Leloup e Samuel Laurent.
I due autori partono dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo
del 1789 per giustificare i limiti alla libertà di espressione,
“comporta dai doveri e delle responsabilità e può essere sottoposta a
limitazioni”, citano un’altra legge del 1881 e arrivano fino al
provvedimento anti-terrorismo approvato a novembre:
l’apologia di terrorismo può essere sanzionata con condanna immediata e
l’utilizzo di Internet è un’aggravante.
A questo proposito Le Monde offre un’interpretazione curiosa
, un po’ contraddittoria con i proclami libertari delle piazze
francesi: il diritto francese si applica anche ai post pubblicati da
cittadini francesi su Facebook e Twitter, “ma questi
servizi, essendo gestiti da imprese americane, sono stati concepiti sul
modello statunitense della libertà di espressione, molto più liberale
del diritto francese”, perché negli Usa il diritto di dire e scrivere quello che si vuole è più protetto dalla Costituzione.
Per chiudere il cerchio delle contraddizioni, va segnalato anche che
Dieudonné è stato messo ai domiciliari ma, come annunciato sulla sua
pagina Facebook ufficiale, ieri sera si è potuto comunque esibire al
teatro La Main d’Or di Parigi con il suo spettacolo “La bestia immonda”.
Sui social network è partita la campagna Je suis Dieudo, sullo stesso fondo nero e con il medesimo font di Je suis Charlie. Ma avrà molto meno successo dell’originale.
Stefano Feltri (Il Fatto Quotidiano - 15 gennaio 2015)
giovedì 15 gennaio 2015
Perché non avrei allegato Charlie Hebdo al Fatto
Se fossi stato il direttore del Fatto non avrei pubblicato il numero speciale di Charlie Hebdo.
Perché con questo non facciamo che allinearci alla roboante retorica
del “Je suis Charlie”, che non costa niente, che, come la pletorica
manifestazione di Parigi, con la rappresentanza di generali tagliagole
come Al Sisi, manifesta solo la nostra paura ed è fuorviante. Charlie era
sicuramente uno degli obbiettivi privilegiati per gli jihadisti -ed è
stupefacente che la polizia francese non abbia provveduto a difenderlo
adeguatamente- ma era solo uno degli innumerevoli possibili, tant'è che
subito dopo è stato colpito un ipermercato kasher. La questione non
riguarda la libertà di stampa, anche se noi giornalisti,
autoreferenziali come sempre, l'abbiamo focalizzata lì. La questione sta
altrove. E' da più di dieci anni che siamo all'attacco del mondo
islamico: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia (2006/7), Libia
(2011) e, da ultimo, non contenti ci siamo intromessi, con bombardamenti
e droni, nella battaglia che l'Isis sta legittimamente combattendo
sulle sue terre. E' da più di dieci anni che siamo in guerra, facendo
centinaia di migliaia di vittime civili in campo altrui, ma siccome
questa guerra non ci toccava, non colpiva i nostri territori, ce ne
siamo fregati. Ora arriva l'inevitabile colpo di ritorno. Io mi ritrovo
non nelle azioni, ma in una parte del 'testamento postumo' di Amedy
Coulibaly: “Tutto quello che facciamo è legittimo. Non potete attaccarci
e pretendere che non rispondiamo. Voi e le vostre coalizioni sganciate
bombe sui civili e sui combattenti ogni giorno. Siete voi che decidete
quello che succede sulla Terra? Sulle nostre terre? No. Non possiamo
lasciarvelo fare. Vi combatteremo”.
Dovremmo riflettere sui nostri errori e sui nostri orrori perpetrati da anni. Altro che pubblicare un fac-simile di Charlie Hebdo.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2014)