venerdì 30 ottobre 2015

Altro che Blair. E' l'intero Occidente (stampa compresa) l'autentico responsabile

Questa storia delle scuse di Tony Blair è farsesca. Ma la farsa non riguarda l’ex premier britannico, ma l’intero mondo occidentale che le cose che ha ‘confessato’ Blair le conosceva fin da subito e anche da prima. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle e l’aggressione all’Afghanistan del 2001 il Washington Post e il New York Times avevano rivelato che i progetti americani di attaccare il regime del Mullah Omar e l’Iraq erano pronti da mesi. L’attacco alle Torri Gemelle cadde a fagiolo, se si può usare questa espressione per una vicenda così tragica. Liquidato l’Afghanistan rimaneva l’Iraq di Saddam. Il pretesto era che il rais di Baghdad era in possesso di ‘armi chimiche’. Sospetto giustificato perché quelle armi le avevano fornite gli stessi americani, i francesi e, via Germania Est, i sovietici in funzione anti curda e anti iraniana. Nel 1988, con quelle armi, Saddam aveva ‘gasato’ in un sol colpo 5.000 curdi nella cittadina curdo-irachena di Halabja. A quei tempi io mi trovavo in Iran per seguire le conseguenze della fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie ritenuto autore di un libro blasfemo (I versi satanici). Avevo quindi delle buone informazioni da parte dei miei amici iraniani che mi segnalarono che l’anno prima Saddam si era reso responsabile di quella strage. Pubblicai la notizia, perché mi pareva una notizia, sull’Europeo, che non era proprio l’ultimo giornale del mondo, e la ribadii in un pezzo del 1991, sempre pubblicato dall’Europeo (‘Chi si ricorda dei poveri curdi?’, 22.2.91). Non credo proprio che fossi l’unico inviato a sapere di Halabja, ma la stampa occidentale passò il tutto sotto silenzio perché allora Saddam era un nostro cripto alleato, sempre in funzione anti curda e anti iraniana. Altrimenti dopo la guerra del 1990 per il Kuwait non lo si sarebbe lasciato in sella insieme alla sua guardia repubblicana.
Solo che quando nell’estate del 2002 gli americani accusarono Saddam di possedere ‘armi chimiche’ costui non le aveva più. Perché le aveva già usate. Saddam si dichiarò disponibile a ispezioni dell’Onu sul suo territorio. Le ispezioni non portarono a nulla. Allora da parte americana si disse che il rais le teneva nascoste nei suoi tenebrosi palazzi imperiali. Saddam si lasciò frugare anche nel frigorifero di casa. Ancora nulla. Ma messo Saddam Hussein nell’improbabile parte dell’agnello, Lupo Bush disse qualcosa di molto simile alla favola esopiana (“se non sei stato tu, saranno stati i tuoi genitori”): non importa, noi siamo convinti che tu quelle armi ce le abbia lo stesso. Quando gli americani, dopo aver eliminato Saddam e istaurato un governo fantoccio divennero padroni dell’Iraq, ebbero la possibilità di rastrellare tutto il Paese alla ricerca delle famose ‘armi chimiche’. E non le trovarono. Io avevo pubblicato un articolo ‘Saddam Hussein e le notizie del diavolo’ già nell’agosto del 2002 sul Quotidiano Nazionale (23 agosto 2002) e in seguito ho dedicato altri 45 pezzi dal 2002 al 2011 pubblicati dal Quotidiano Nazionale e dal Gazzettino di Venezia sulla tragica farsa irachena (in realtà sono ben più di 45, sono solo quelli raccolti nel mio libro La guerra democratica). Non mi risulta che nessun giornale americano, europeo e tantomeno italiano e che nessun partito o movimento, nemmeno, da noi, i Radicali si siano mai opposti all’attacco angloamericano, ma sarebbe più corretto dire americano e, in subordine, inglese all’Iraq (i Radicali si distinsero solo a cose fatte nel chiedere che Saddam non fosse condannato a morte ma esiliato il che è tutt’altra cosa).
Adesso, qui in Italia, ci si accanisce su Tony Blair e si dribbla acrobaticamente sulle ben più pesanti responsabilità americane (la teoria della ‘guerra preventiva’, poi proseguita in Somalia e in Libia, non se l’è inventata Blair ma George W. Bush).
L’impressione è che oggi da noi si attacchi Blair perché Matteo Renzi gli ha dichiarato la sua simpatia. E’ destino che in Italia anche le storie più tragiche diventino motivo di zuffe da pollaio.



mercoledì 28 ottobre 2015

MotoGp e vittimismo complottista: Vale tutto



In gita premio in Perù, Matteo Renzi è stato a lungo incerto se telefonare a Rossella Orlandi, scriteriatamente scaricata dal suo sottosegretario Zanetti, oppure a Orfini e Marino, per mettere fine alla pochade che sta coprendo di ridicolo il Pd, Roma e l’Italia. Alla fine ha chiamato Valentino Rossi, portando il fondamentale contributo del governo al grande piagnisteo nazionale sul complotto planetario ai suoi danni. Quel che è accaduto domenica nel penultimo Gran premio di Sepang in Malesia l’han visto e rivisto tutti: con Pedrosa e Lorenzo in fuga, Rossi è impegnato in una serie di sorpassi e controsorpassi con Marquez, finché al settimo giro rallenta all’improvviso e cambia traiettoria all’uscita di una curva, allargandosi in cerca del contatto col rivale spagnolo. Questi lo sfiora e lui lo allontana col piede o con la gamba facendogli perdere l’equilibrio. Nella peggiore delle ipotesi è una scorrettezza gratuita, nella migliore un fallo di reazione. I direttori di gara sanzionano Valentino con tre punti in meno sul patentino e con l’obbligo di partire ultimo nel decisivo Gp di Valencia, dove lo sfidante Lorenzo – anche lui spagnolo, indietro di 7 punti – ha molte possibilità di recuperare e scavalcarlo in vetta alla classifica. Sanzione piuttosto blanda rispetto al massimo della pena previsto in questi casi (tipo la squalifica al Gp successivo: lo spiega Scanzi su il Fatto Quotidiano di oggi). Senza entrare nella diatriba calcio sì-calcio no, la direzione motiva la sanzione con la “guida irresponsabile di Rossi che ha deliberatamente provocato il contatto”.


Apriti cielo. Anziché accettare il verdetto, atteso e dovuto, l’Italia che conta si scatena nell’unico vero sport nazionale: il vittimismo complottista. Come ai tempi di Calciopoli con ampio stuolo di prefiche piangenti per la povera Juve, il povero Milan, la povera Lazio e la povera Fiorentina. Marquez è cattivo perché si ostinava a superare il nostro campione, anziché fermarsi sul ciglio della pista e lasciarlo passare. Sarà certamente d’accordo con Lorenzo, pure lui spagnolo, per sabotare l’italiano. Ingrato che non è altro: dopo aver beneficiato dell’amicizia di Valentino, l’ha tradito nel momento del bisogno. Gli stessi che strillavano per la testata del feroce Zidane al mite Materazzi nella finale di Germania 2006, ignorando che il francese aveva perso il controllo reagendo alle provocazioni del nostro difensore, oggi puntano il dito sulle provocazioni di Marquez (reo di mettercela tutta per arrivare davanti a Valentino), mentre la reazione di Rossi non conta.

C’è chi mette in burletta il verdetto: non per dire che andava punito anche Marquez (il che non sposterebbe di un millimetro le sorti del Mondiale), ma che non andava punito Rossi. Il quale è innocente perché – tenetevi forte – non è la sua gamba a scalciare Marquez, ma la testa dell’astuto spagnolo a colpire la sua gamba. Una barzelletta che ricorda Servi della gleba di Elio e le Storie tese: “Non sono stato molto bene. Mi han detto che c’ho il gomito che fa contatto col ginocchio”.


Non sappiamo a quale scuola di pensiero s’iscriva Renzi che, con tutti i casini che ha, perde tempo prezioso a impicciarsi di gare sportive che non lo riguardano. Sappiamo invece da un apposito tweet che, per il senatore renziano Andrea Marcucci, “i campionati vanno decisi in pista, non con decisioni arbitrarie a tavolino”: se ne deduce che un corridore è autorizzato a scendere in pista armato di kalashnikov senza che nessuno si permetta di sindacare con decisioni arbitrarie a tavolino. Il presidente del Coni Giovanni Malagò osserva: “Valentino ha riconosciuto di essere cascato nella provocazione” (e con ciò?), “c’è una responsabilità da parte sua, però io voglio assolutamente difenderlo e non per un fatto istituzionale”, bensì per “la poca sportività dimostrata da Marquez” (quando? come? perché?), insomma “si è falsato il Mondiale e questo non lo trovo giusto”. Quindi aboliamo la giustizia sportiva e d’ora in poi vale tutto? Mirabile lezione di sportività dalla massima autorità sportiva. 

Il Foglio, noto per aver beatificato tutti i vip violatori di leggi dalla preistoria a oggi, arricchisce la collezione: “Non si chiama ‘calcio’, quello di Vale Rossi, si chiama solo legittima difesa”, scrive Claudio Cerasa, convinto che Lorenzo fosse armato. Poteva mancare l’illuminato parere di Jovanotti? Non poteva. Eccolo, sempre molto lucido: “È abbastanza chiaro quello che è successo”. Mica tanto: “I primi giri mostravano una situazione insostenibile e nel momento in cui Vale ha allargato la curva per rallentare l’attività e l’incursione legittima dell’avversario, ma forse un po’ al limite, era naturale che succedesse quello che è lì da vedere”. Cosa? “È un atteggiamento comune negli esseri umani attaccare per poi fare la vittima”. Ecco: Marquez fa la vittima perché cade, mentre Rossi è la vittima perché resta in piedi e viene proditoriamente colpito da “penalizzazione eccessiva, anzi ingiusta”. Perché lui “è bravissimo, un grandissimo sportivo, leale e giustamente vuole vincere”, mentre Marquez non ne ha il diritto. Tiè. Stringente anche la logica di Arrigo Sacchi: “In Marquez si percepivano odio ed astio”: Rossi invece è del partito dell’amore.


Nello sport ridotto a succursale della politica, nessuno deve permettersi di ricordare che le regole valgono per tutti, anche per chi è simpaticissimo come Valentino. È l’Italia di Cetto La Qualunque: “Figlio mio, quante volte ti ho detto di non mettere mai il casco: potrebbero pensare che sei timido! Si comincia dando la precedenza a un incrocio e finisce che ti prendono per ricchione”.


martedì 20 ottobre 2015

“I nostri figli crescono, non possiamo più aspettare”



Marilena Grassadonia, nasce a Palermo 44 anni fa e vive a Roma da più di 10 anni con la sua famiglia. È sposata con Laura (con cui sta da più di 18 anni) e insieme hanno tre figli: Flavio 7 anni, Diego e Jordi 2 anni. La Spagna è stato il paese che hanno scelto per coronare i loro sogni e l’Italia è il paese dove vivono a testa alta, con orgoglio, raccontando con il sorriso la loro storia. Fanno parte dell’Associazione Famiglie Arcobaleno dal 2006 e lottano ogni giorno affinché i “figli dell’arcobaleno” abbiano gli stessi diritti di tutti gli altri bambini.

"Avevo 26 anni quando finalmente mi fermai ed ebbi il coraggio di volermi bene fino in fondo; ricordo ancora quel pomeriggio in cui decisi che non potevo più stare ferma ad aspettare che gli eventi accadessero per caso.
Dovevo prendere per mano la mia vita e con coraggio guardarmi allo specchio e dirmi chi ero.
Fino a quel momento ero semplicemente una giovane donna con tanti progetti e voglia di vivere, concentrata a “riuscire” e perché no a fare “bella figura”.
E forse stava proprio lì il punto …. compiacere la gente, dimostrare alla gente di esser in gamba, farsi apprezzare; tutto questo per me era troppo importante.
Ma quel pomeriggio decisi che era arrivato il momento!

L’incontro con Laura fu meravigliosamente devastante e l’energia che scoppiò dentro di me, per fortuna, fu più forte di qualsiasi timore o di qualsiasi riflessione razionale.
Le scelte, quelle più importanti, si fanno col cuore, con la forza dell’amore… per la testa, in quei momenti, c’è poco spazio.
Fu così che mi appropriai della mia vita e mi conobbi veramente; ero una giovane donna lesbica, era questa la verità ed ogni cosa andò velocemente al suo posto.
Due persone che si innamorano cominciano a conoscersi piano piano, cominciano a condividere pensieri, esperienze, desideri.
Andare a vivere insieme fu la cosa più naturale di questo mondo e i desideri presto diventarono progetti di vita comune.
Arrivò la casa, arrivò il lavoro, arrivò la condivisione con i genitori e gli amici della nostra storia e piano piano arrivò anche la gente, quella gente che volevo continuare a compiacere e da cui ora pretendevo rispetto.

La visibilità per noi omosessuali è un percorso complesso; devi costruirti delle basi molto forti per “rischiare”, aprirti al mondo e raccontare la tua storia.
I segnali che ci arrivano dall’esterno non aiutano, non sono segnali incoraggianti; la legge non ci vede, la gente pensa sempre che siamo degli ufo che vivono lontani dalle loro vite.
È necessario abbattere il muro del pregiudizio e sensibilizzare la politica affinché ci veda e per fare questo non possiamo far altro che metterci la faccia, ogni giorno, camminando a testa alta e raccontando la nostra storia col sorriso, con orgoglio e semplicità.

La gente ha bisogno di capire, di conoscere, di confrontarsi.
In Italia i ragazzi più grandi, figli di genitori omosessuali, hanno quasi 18 anni, la più piccola è nata ieri.
In tutti questi anni, soprattutto grazie al nostro raccontarci senza veli ovunque e in qualsiasi occasione, abbiamo riscontrato all’interno della società un profondo cambiamento culturale e un atteggiamento molto più maturo e consapevole nei confronti delle nostre famiglie.
Siamo partiti col fornire alla gente una corretta informazione e passando attraverso il rispetto delle nostre scelte, siamo arrivati oggi alla condivisione delle nostre battaglie.

La società è molto più avanti di quello che la politica ci vuole far credere.
Molta gente ha solo paura di ciò che non conosce; l’immaginario comune riconduce il mondo Lgbt alle immagini televisive dei Pride dove vengono trasmesse solo le situazioni più eccentriche.
Bisognerebbe pretendere una telecamera fissa che riprenda tutto il corteo di un Pride al suo passaggio, che riprenda tutte le realtà colorate che rappresentano il mondo lgbt con orgoglio e trasparenza.

La storia del Pride nasce da lontano: Il 28 Giugno del 1969, per la prima volta, gay lesbiche e trans si ribellarono all’ennesimo controllo ingiustificato della polizia in un bar gay di New York, lo Stonewall Inn. I “moti di Stonewall” durarono tre giorni e furono il prologo alla nascita del Movimento di Liberazione Omosessuale.
Da quel giorno in giugno si celebra l’orgoglio di essere semplicemente se stessi, si rivendicano diritti uguali per tutti e contemporaneamente si fa festa.
Avete mai visto una festa senza colori, musica, palloncini e parrucche?
Da qualche anno insieme a parrucche, brillantini e paillettes sfilano anche le Famiglie Arcobaleno, una realtà dirompente sia all’interno del mondo lgbt sia all’interno della società tutta.

Le Famiglie Arcobaleno sfilano al Pride con la loro gioia, la loro positività e il loro carico d’amore che tocca le corde delle emozioni più intime.
Fino a poco tempo fa era impensabile che il connubio “omosessuale – genitore” potesse essere possibile.
La generazione precedente alla mia (io sono classe ’70) ha dovuto fare i conti con quella “sterilità sociale”, imposta ai gay e alle lesbiche, che ha fatto sì che molti si unissero in relazioni eterosessuali solo perché non riuscivano a pensarsi “non genitori”.
Le Famiglie Arcobaleno hanno invece fatto un enorme salto culturale dimostrando a tutti che gli omosessuali non sono sterili.

I gay e le lesbiche “funzionano” e possono essere dei “buoni genitori” esattamente come una coppia eterosessuale che si ama e desidera un figlio.
Le ricerche scientifiche dimostrano che un bambino per crescere bene ha bisogno solo di amore e di una, due o più persone che si occupano di lui in maniera responsabile e attenta.
I nostri figli sono discriminati dalle leggi di questo stato non dall’omosessualità dei loro genitori o dalla gente con cui condividono la quotidianità.
È proprio dalle ricerche scientifiche che io e Laura siamo partite quando abbiamo per la prima volta parlato di figli. 

Come crescono questi bambini? Bene.
I ruoli genitoriali sono necessariamente legati al genere? No.
L’identità di genere dei bambini è legata all’omosessualità dei genitori? No.
La società potrebbe discriminarli? Sì.
Tutte le nostre domande trovavano risposte; bastava leggere e studiare, cosa che purtroppo non fanno tutti coloro che (politici, finti esperti, opinionisti..) “pontificano” ogni giorno sulle nostre famiglie e si ergono a paladini in difesa della famiglia.
Ma quale famiglia??? La famiglia “naturale” dicono loro, quella composta da un uomo e una donna.
Per me la famiglia naturale è quella formata da persone che si amano naturalmente con rispetto e che condividono la loro vita insieme nell’amore.
Punto. È questa la naturalità dell’amore.
Famiglie adottive, famiglie ricomposte, famiglie con genitori single, famiglie tradizionali, famiglie omogenitoriali. Tutte queste famiglie (quando parliamo ovviamente di famiglie sane) hanno una sola cosa in comune: l’amore per i propri figli.

Il percorso che porta noi coppie di gay e di lesbiche a diventare genitori è lo stesso identico percorso che fa una coppia eterosessuale che si ama.
Ci si guarda negli occhi e si dice…perché no?
I meccanismi che scattano, le emozioni che ti inondano sono identiche, sono frutto dell’amore.
L’unica cosa che ci differenzia dalla maggior parte delle coppie etero è che siamo “coppie sterili” e per procreare siamo costretti ad accedere a quelle tecniche di fecondazione assistita che già esistono e che soprattutto sono nate e vengono utilizzate da decenni da coppie eterosessuali con problemi di sterilità (inseminazione intrauterina, fivet, gestazione per altri, donazione di gameti).
Niente di illegale, niente di inventato; tutto molto semplice, lineare e trasparente.
E forse sta proprio qui il problema, la totale trasparenza dei nostri percorsi, delle nostre storie.

Le Famiglie Arcobaleno tornano ad essere dirompenti raccontando ai loro figli e alla gente storie fatte di amore e di verità.
«Amore mio, ora ti racconto la tua storia… Tu sei nato dal-l’amore delle tue mamme, sei qui perché le tue mamme si amano tanto e ti hanno tanto desiderato. Ma per venire al mondo sai che è necessario avere un ovetto e un semino e siccome le tue mamme sono due femminucce hanno solo ovetti e quindi ci serviva un semino. Siamo andate allora in un paese vicino, in Spagna, dove ci sono delle cliniche e dei signori gentili che regalano i loro semini alle coppie che ne hanno bisogno … a volte anche i papà hanno bisogno di un semino nuovo. La dottoressa ha preso quel semino e lo ha messo dentro la pancia di mammamari e così sei nato tu».
Adesso fate un esercizio: pensate a questa stessa storia raccontata da una coppia eterosessuale sterile che va in Spagna. Verrà raccontata allo stesso modo? Con la stessa “leggerezza”? Con la stessa verità e trasparenza?

Abbiamo incontrato tante coppie etero italiane nelle sale d’aspetto delle cliniche spagnole e l’imbarazzo e il disagio di essere lì era spesso tangibile.
C’è come un senso di vergogna nell’ammettere di avere bisogno di aiuto per procreare, specialmente da parte degli uomini.
La cultura religiosa e maschilista di questo paese non aiuta a vivere serenamente questi percorsi.
Si intrecciano due meccanismi fortissimi; da un lato il non sentirsi dotato di “procreazione naturale”, essere “genitore non di sangue” e dall’altro sentirsi “socialmente diverso”.
La biologia. Per molti tutto ruota attorno alla biologia…

L’ipocrisia di questo paese è incredibile. Un paese costituzionalmente laico che sta sotto scacco del pensiero cattolico.
Credo che la cosa più grave non siano tanto le posizioni della Chiesa (seppur violente e antiche) che fa pur sempre il suo dovere, quanto il fatto che il nostro Stato laico, la nostra politica si lasci così tanto condizionare dallo Stato Vaticano.
Il potere economico della Chiesa passa attraverso il controllo e la gestione delle coscienze di molti cattolici.
La Chiesa entra prepotentemente nelle scelte politiche di questo paese e questo dovrebbe essere ormai inaccettabile per tutti.
Il dovere della politica dovrebbe essere quello di tutelare i propri cittadini, promuovendo azioni e leggi che siano al passo con l’evoluzione della società al fine di garantire a tutti il diritto alla felicità e alla propria affermazione personale e sociale.

La politica fa tutto questo?
L’Italia è uno dei fanalini di coda in tema di Diritti e non riesce a cogliere l’occasione per diventare un Paese civile.
Anche in questo periodo il massimo che la politica ci presenta è una proposta di legge sulle Unioni Civili fortemente discriminatoria.
Il testo presentato in Commissione Giustizia in Senato è “quasi” come il matrimonio e prevede (almeno fino a questo momento, mentre vi scrivo si stanno discutendo i migliaia emendamenti presentati) di dare ai nostri figli e alle nostre famiglie dei “quasi” diritti.
Il nostro Stato si dice pronto a votare una legge (staremo a vedere) piena di “quasi”, dicendo che è il massimo a cui oggi possiamo aspirare.
La verità è che siamo stanchi! Siamo stanche di promesse non mantenute e siamo stanchi di essere considerati ancora cittadini di serie Z.

Vogliamo potere scegliere di sposare i nostri compagni di una vita, vogliamo la reversibilità della pensione per i contributi che stiamo pagando come tutti gli altri e pretendiamo PIENI diritti per i nostri figli.
La stepchild adoption prevede che io debba adottare quelli che già sono i miei figli, prevede che io mi unisca civilmente con l’altra mamma dei miei figli (anche se magari siamo separate) affinché possa essere riconosciuta come genitore legale e prevede che i miei figli possano diventare figli miei ma non nipoti dei loro nonni o fratelli dei loro fratelli nati dalla pancia dell’altra mamma (adozione “non legittimante”).

Fino a poco tempo fa in Italia c’era differenza tra “figli legittimi“ e “figli naturali”, dopo il Ddl Cirinnà ci sarà differenza tra “figli di italiani” e “figli dell’arcobaleno” … che, a parte la bellezza del nome, saranno figli discriminati nei loro affetti e nella loro vita sociale quotidiana; e ci sarà un’altra categoria di figli ancora più discriminati, “i figli arcobaleno di genitori separati”.
Tutto questo per noi è inaccettabile.
Qualcuno ci dice: ma non vi accontentate mai???
No, non ci accontentiamo perché fino ad oggi ogni volta che ci siamo “accontentati” siamo tornati a casa con le mani vuote.
Ma siamo vicini al traguardo, mai come stavolta la sensazione è che si possa ottenere qualcosa, piena di “quasi” ma comunque qualcosa.
E allora l’attacco alla proposta di legge è un attacco feroce!

La paura del diverso, la paura che il diverso possa essere in qualche modo “riconosciuto dalla legge” terrorizza, mina le certezze di quella gente che passa la sua vita davanti la Tv o a farsi indottrinare dal bigotto di turno.
L’attacco allora si fa sottile, attento e utilizza tecniche di comunicazione consolidate.
L’obiettivo è quello di portare in piazza quanta più gente possibile e per farlo si fa leva sul timore che possa accadere nelle scuole qualcosa di non controllabile da parte delle famiglie.

Sono state inventate teorie, è stata distorta la realtà, sono stati diffusi dei volantini che riportano concetti spesso falsi e che nella realtà non hanno un nesso tra loro: teoria del gender (inesistente), linee guida dell’Oms (estrapolate da un documento del 2010) inserite nei programmi scolastici (cosa non vera) e immagini di libri con due mamme e due papà. La confusione più assoluta.
Questa gente sa benissimo che se ad un genitore gli sfiori i propri figli la reazione sarà immediata e non guarderà in faccia nessuno e soprattutto sarà così concentrato a difendere il proprio figlio che anche se provi a spiegargli che sono tutte fandonie, gli resterà sempre il dubbio che possa esserci qualcosa di vero e quindi…. “vabbè intanto in piazza ci vado, che mi costa? L’ha detto anche il prete!”.

E così anche se la Cei non aderisce ufficialmente alla manifestazione (altra genialata comunicativa…. “guardate quanti siamo e senza la Cei”) i manifesti dell’iniziativa campeggiano esposti nelle parrocchie dei nostri quartieri e dalle stesse parrocchie partono i pullman organizzati per provare a riempire la piazza.

Rimaniamo esterrefatti, in quei giorni l’attacco alle nostre famiglie è durissimo.
Si è riusciti a costruire la cultura del sospetto e la paura del diverso.
Quella mattina esco di casa con mia moglie e i nostri tre figli e non faccio altro che guardarmi intorno per provare a capire se le varie famiglie del quartiere nel pomeriggio sarebbero andate in piazza a manifestare contro i miei figli oppure al mare a fare una passeggiata.
Ho sperato con tutta me stessa che molti di loro portassero i loro figli al mare piuttosto che in quella piazza piena di odio.

E noi? Noi abbiamo un altro stile.
Noi non ci limitiamo a riempire le piazze, noi inondiamo le città!
La risposta è arrivata da tutta Italia in occasione dell’Onda Pride dove molta gente si è riversata nelle strade (senza pullman organizzati) per dimostrare solidarietà e manifestare insieme a tutti noi con gioia ed orgoglio.
Eravamo tutti: figli, genitori, nonni, amici, parenti, gay, lesbiche, etero, trans, bisex … TUTTI!
È questa la strada giusta, manifestare tutti e gridare a gran voce che è una questione di Diritti Umani.
Non stiamo chiedendo diritti per una minoranza, stiamo chiedendo diritti uguali per tutti.
Perché una società dove tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e i medesimi doveri, è una società migliore per tutti ed è quella stessa società che consegneremo nelle mani dei nostri figli.
I nostri figli crescono, non possiamo più aspettare .....


Marilena Grassadonia"