Due giorni
fa avete avuto la fortuna di tornare giovani, di fare un salto indietro nel
tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l'avevo mai
sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare
le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il
giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un
dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me
più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e
difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la
rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica
hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad
alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano
società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna.
Non abbiamo
ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di
lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida
terroristica che ci siamo trovati in casa.
La reazione più sconcertante è la "grande banalizzazione" in cui
viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio
Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le
teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e
comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato
di un'epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per
le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che
differenze.
Un
manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto
fatalmente dall'idea che esistano solo bianco o nero. L'alternativa però non
sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore
alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi
ogni giorno, antidoto al veleno dell'apatia e viatico per la speranza. È qui
che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché
ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e
indispensabili per leggere la complessità.
Un giornale
come Repubblica deve avere ogni giorno l'ambizione di camminare accanto
al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore
di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere
con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come
nell'Italia sbandante di quel primo giornale di quarant'anni fa non abbiamo
bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma
di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola
la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva
Montaigne, "è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena".
Così se
dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti
abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di
persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo
sapere che è pieno di sindaci che si alzano all'alba e provano a cambiare le
cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della
scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli
insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l'istruzione
italiana, con creatività, talento e coraggio.
Per non
cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di
alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande
giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le
distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli
stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: "Il modo in cui
immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà".
Possiamo
davvero pensare che basti svelare ciò che è sbagliato perché la nostra società
diventi migliore? O forse possiamo sperare nel cambiamento se accanto alla
denuncia proviamo a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente? Un
collega che scrive sul New York Times, David Bornstein, mi ha regalato
un esempio perfetto: "Immaginate di leggere un'inchiesta su una serie di
ospedali che hanno il record di parti cesarei, dove si evidenzia come ciò
accada per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute di mamma e bambino
ma siano determinati dai rimborsi sanitari, dalla programmazione dei turni dei
medici o dal fatto che preferiscono non lavorare il fine settimana. Alla fine
dell'articolo avrete l'amaro in bocca e avrete aggiunto un tassello a quel
senso di frustrazione che da anni cresce in voi. Immaginate invece che accanto
a questo pezzo ce ne sia un altro che racconta anche gli ospedali che hanno il
record di parti naturali, spiegando che un altro mondo è possibile. Non solo la
vostra reazione sarà diversa ma avremo anche tolto un alibi a chi dice che non
si può fare diversamente". Vi prometto che ci proveremo.
La nostra
società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra
conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la
sua agenda. Sono emersi diritti che non hanno avuto tutela storica e organizzata:
le nuove libertà civili, le difese delle minoranze, dei bambini e degli anziani
e i diritti dei cittadini consumatori. Su questa frontiera Repubblica deve
essere presente ogni giorno coltivando l'inclusione, il rispetto delle
differenze, la convivenza, ma con razionalità e una mentalità illuminista che
rifugga dalle derive oscurantiste e antiscientifiche.
È necessario
rimettere al centro i diritti umani, ci siamo assuefatti alla loro violazione,
al massimo bofonchiamo una piccola protesta quando in Arabia Saudita un
dissidente viene decapitato per avere espresso posizioni non ortodosse o in
Cina un avvocato incarcerato per pochi tweet di protesta. La conseguenza
peggiore della crisi è di aver fatto trionfare una ragione economica che
imbavaglia Stati e opinioni pubbliche spaventate e fiaccate, anche di fronte
all'uso della tortura, delle lunghe detenzioni e della pena di morte per
colpire la libertà di stampa e di espressione. Ci infiammiamo se qualcuno se ne
esce con una battuta infelice o poco politicamente corretta ma risultiamo
distratti mentre si sgretola quel corpus di valori che ci definisce.
Ieri mattina
ho ricevuto il testimone da Ezio Mauro, un direttore che è stato capace di
garantire a questo giornale una seconda vita dopo la stagione del suo
fondatore, di dargli solidità e tenuta per vent'anni e di traghettarlo nel
nuovo secolo. Ezio per me è stato esempio di dedizione, metodo e di passione
per le cose fatte bene. Lasciandomi il suo posto mi ha parlato della solitudine
di cui soffre un direttore nelle sere delle scelte difficili e del valore di
una redazione affiatata e di una comunità di lettori fortissima. Iniziando
questo viaggio ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario a
combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l'informazione:
capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di
coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita.
Mario Calabresi (La Repubblica – 16 gennaio 2016)
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