sabato 16 gennaio 2016

Repubblica e il mondo che vogliamo raccontare


Due giorni fa avete avuto la fortuna di tornare giovani, di fare un salto indietro nel tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l'avevo mai sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna.
Non abbiamo ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida terroristica che ci siamo trovati in casa.
La reazione più sconcertante è la "grande banalizzazione" in cui viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato di un'epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che differenze.
Un manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto fatalmente dall'idea che esistano solo bianco o nero. L'alternativa però non sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell'apatia e viatico per la speranza. È qui che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e indispensabili per leggere la complessità.
Un giornale come Repubblica deve avere ogni giorno l'ambizione di camminare accanto al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come nell'Italia sbandante di quel primo giornale di quarant'anni fa non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, "è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena".
Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all'alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l'istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio.
Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: "Il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà".
Possiamo davvero pensare che basti svelare ciò che è sbagliato perché la nostra società diventi migliore? O forse possiamo sperare nel cambiamento se accanto alla denuncia proviamo a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente? Un collega che scrive sul New York Times, David Bornstein, mi ha regalato un esempio perfetto: "Immaginate di leggere un'inchiesta su una serie di ospedali che hanno il record di parti cesarei, dove si evidenzia come ciò accada per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute di mamma e bambino ma siano determinati dai rimborsi sanitari, dalla programmazione dei turni dei medici o dal fatto che preferiscono non lavorare il fine settimana. Alla fine dell'articolo avrete l'amaro in bocca e avrete aggiunto un tassello a quel senso di frustrazione che da anni cresce in voi. Immaginate invece che accanto a questo pezzo ce ne sia un altro che racconta anche gli ospedali che hanno il record di parti naturali, spiegando che un altro mondo è possibile. Non solo la vostra reazione sarà diversa ma avremo anche tolto un alibi a chi dice che non si può fare diversamente". Vi prometto che ci proveremo.
La nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda. Sono emersi diritti che non hanno avuto tutela storica e organizzata: le nuove libertà civili, le difese delle minoranze, dei bambini e degli anziani e i diritti dei cittadini consumatori. Su questa frontiera Repubblica deve essere presente ogni giorno coltivando l'inclusione, il rispetto delle differenze, la convivenza, ma con razionalità e una mentalità illuminista che rifugga dalle derive oscurantiste e antiscientifiche.
È necessario rimettere al centro i diritti umani, ci siamo assuefatti alla loro violazione, al massimo bofonchiamo una piccola protesta quando in Arabia Saudita un dissidente viene decapitato per avere espresso posizioni non ortodosse o in Cina un avvocato incarcerato per pochi tweet di protesta. La conseguenza peggiore della crisi è di aver fatto trionfare una ragione economica che imbavaglia Stati e opinioni pubbliche spaventate e fiaccate, anche di fronte all'uso della tortura, delle lunghe detenzioni e della pena di morte per colpire la libertà di stampa e di espressione. Ci infiammiamo se qualcuno se ne esce con una battuta infelice o poco politicamente corretta ma risultiamo distratti mentre si sgretola quel corpus di valori che ci definisce.
Ieri mattina ho ricevuto il testimone da Ezio Mauro, un direttore che è stato capace di garantire a questo giornale una seconda vita dopo la stagione del suo fondatore, di dargli solidità e tenuta per vent'anni e di traghettarlo nel nuovo secolo. Ezio per me è stato esempio di dedizione, metodo e di passione per le cose fatte bene. Lasciandomi il suo posto mi ha parlato della solitudine di cui soffre un direttore nelle sere delle scelte difficili e del valore di una redazione affiatata e di una comunità di lettori fortissima. Iniziando questo viaggio ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario a combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l'informazione: capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita.



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