domenica 27 marzo 2016

Giulio Regeni, una verità che l’Italia non può permettersi

Adesso che i finti colpevoli sono stati uccisi dalla polizia egiziana è venuto il momento di domandare a tutti un po’ di silenzio. Basta per favore con le richieste di verità sulla morte di Giulio Regeni. Basta con la promesse di indagini approfondite. Basta con le interviste al generale Abdel Fattha Al Sisi pronto a garantire che “farà luce” e “darà giustizia”. Basta con il premier Matteo Renzi fermo nell’assicurare che non accetterà “una verità di comodo, artificiale e raccogliticcia”. Basta con l’interessamento inutile del presidente Mattarella. E basta pure con le proteste delle opposizioni che chiedono l’interruzione delle relazioni diplomatiche con il Cairo. Intanto la verità su Regeni questa Italia non se la può permettere. E dopo due mesi di bugie è più corretto e meno ipocrita prenderne atto.
Con l’Europa atterrita dagli attentati dell’Isis, con Roma sempre più preoccupata per l’avanzata dello Stato Islamico nella vicinissima Libia, il governo Renzi si comporta con l’alleato egiziano nello stesso modo in cui si sono sempre comportati gli esecutivi italiani con chi è più forte o è particolarmente utile: fa ammuina. Dice che “la verità per Giulio non è un optional”, assicura che non “c’è business o realpolitik che tenga”, ma poi piega la testa. Come, con tutta probabilità, piegherebbe la testa qualsiasi altro esecutivo fosse oggi al potere. Abbiamo troppa paura del terrorismo e troppi affari in corso con l’Egitto perché le nostre classi dirigenti trovino il coraggio di prendere una strada diversa. Perché, secondo il nostro establishment, per il generale Al Sisi valgono le parole che il presidente americano Franklin Delano Roosevelt usò per descrivere il dittatore nicaraguense Somoza: “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”.
Non per niente l’Italia è stato il primo paese a riceverlo nel luglio 2013 subito dopo la sua presa del potere. E Renzi è stato il primo leader europeo a rendergli visita. Tutti, o quasi, hanno fin qui sempre ossequiato il generale lodando il suo contributo “alla stabilizzazione del Cairo” e hanno fatto finta di non sapere che i diritti umani in Egitto vengono regolarmente violati. Delle “violenze sessuali” utilizzate quasi sistematicamente durante gli arresti e le detenzioni nessuno, fino alla morte di Regeni, ha mai parlato. Così come sono sempre state ignorate le inchieste da cui risulta che il caso dell’assassinio del giovane ricercatore italiano ha centinaia di precedenti.
Ma si sa come vanno queste cose. L’Eni ha impianti nel delta del Nilo, estrae petrolio nel deserto, ha appena scoperto un enorme giacimento offshore con riserve di gas per 850 miliardi metri cubi. Altre 130 aziende italiane fanno affari al Cairo. C’è il turismo, c’è Intesa San Paolo, c’è Edison e ci sono tutti i grandi costruttori: Caltagirone, Techint, Italcementi. Del mercato egiziano dicono che non possiamo fare a meno. Anche perché Al Sisi ha promesso che nei prossimi anni investirà 100 miliardi nell’edilizia.
E allora perché non smettere di dire e dirci bugie? Il dittatore non ci spiegherà mai come sono andate le cose. I nomi dei veri colpevoli non ce li fornirà nessuno. Quello che però abbiamo in mano basta già per capire. Le autopsie ci raccontano che Giulio Regeni è stato torturato da dei professionisti per giorni. La cronaca ci ricorda che sulla sua morte le autorità hanno fornito una dopo l’altra versioni false e diverse tra loro: l’incidente stradale, i Fratelli Musulmani, la criminalità comune. Giulio, il figlio di questa piccola e impaurita Italia, è stato ucciso dal regime. Lo dicono i fatti e le facce. Ammetterlo e chiedere scusa è l’unica cosa che oggi chi sta a Roma può e deve fare.

Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2016)


mercoledì 23 marzo 2016

Esasperatismo - La logica del bidone


Nel Novecento e, specificatamente, negli ultimi decenni di esso si è verificata una vera e propria rivoluzione nell’ambito delle comunicazioni; l’uomo contemporaneo può raggiungere con facilità ogni parte del globo terrestre impiegando tempi ridotti, inimmaginabili nei secoli precedenti, riesce a comunicare velocemente con ogni altro essere del mondo non soltanto mediante missive cartacee, ma anche a viva voce e/o mostrandosi visivamente, può sapere e vedere in tempo reale tutti gli eventi che accadono in ogni parte del mondo (anche agli antipodi) ed oltre (Luna, Marte, Giove, …). 
È proprio la stessa vita odierna ad imporre all’uomo (la cui sfera di azione da pochi chilometri quadrati è diventata di centinaia o migliaia di chilometri quadrati) un dinamismo esasperato che, a volte, si riduce ad un sfrenato tourbillon a causa del quale lo stesso uomo perde di vista la finalità del proprio agire, perché troppo intento a seguire tutte chimere prescritte dalla moda del momento.
Lampante esempio è la ricerca affannosa di essere turisti in mondi sempre più lontani; Parigi, Londra, New York, Tokio, Rio de Janeiro non sono più sufficienti, oggi si cercano Pechino, Seul, Nuova Dheli, le Maldive, le Seicelles, Cuba, i Carabi e, ultimi miraggi, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’isola di Pasqua o le Galapagos. 
Ma vi è da chiedersi: un cittadino cosa sa del suo paese? Un italiano conosce l’Italia? La sua cultura? Le sue tradizioni?
Ed anche: l’uomo è in relazione con il suo vicino? In che modo approfondisce i contatti con le realtà a lui più vicine? 
L’incomunicabilità, argomento centrale di molti film del celebre Michelangelo Antonioni, sottolineava nella seconda metà del Novecento la difficoltà dell’uomo contemporaneo di comunicare e di rapportarsi con gli altri. Oggi è ancora peggio!
Purtroppo anche i governanti di tutti i paesi di tutto il mondo, nell’inseguire mete ambite da raggiungere a tutti i costi, hanno perso di vista le verità esistenziali primarie, inoltre non riescono più a relazionarsi con i cittadini, con gli altri potenti e, cosa ancora più grave, trascurano e non tengono nel dovuto conto le conseguenze del loro comportamento sia relativamente agli altri popoli oltre che ai loro cittadini, sia per quel che riguarda la madre terra, la natura. 
La Terra, infatti, in crisi per le continue azioni sconsiderate dell’uomo, sta avviandosi verso il tracollo totale, verso un punto di non ritorno, ma i governanti e, purtroppo, la maggioranza dei cittadini, sembrano non accorgersene e si barricano in posizioni difficilmente sostenibili. Infatti, lo spettro dell’irreversibilità (parola troppo spesso sottovalutata o per niente considerata non solo dalle industrie e dalle città, dai cavatoli e dai predatori di frodo, dagli incendiari e dai deforestatori, da coloro i quali inquinano a vario titolo l’habitat, ma anche dai drogati, dai fumatori, dagli alcolisti) ha un significato grave e sconvolgente: significa che, per quanto si voglia proseguire in quel atteggiamento e si tenti di correre ai ripari, ciò non è più possibile perché definitivamente si sono instaurate condizioni, che progressivamente possono solo evolversi verso altre condizioni di vita (per le quali si può persino prevedere la possibilità di esistenza dell’animale-uomo), realtà ben diverse da quelle attuali alle quali siamo abituati e che crediamo nella nostra tracotanza essere inalterabili.
Il rapporto tra scienza e Natura, umanità, coscienza, etica e, perché no, religione, a volte armonioso, tante altre conflittuale, fino al XX secolo era sempre supportato da un “senso morale” superiore, da quell’Umanesimo quattrocentesco che ha istituito e valorizzato le componenti più valide e costruttive dell’umanità; da qualche tempo tutto si è dissolto di fronte ad un nuovo “uomo-creatore” non più faber fortunae suae1, volto alla ricerca continua dei propri e meschini interessi del momento (hic et nunc2 dei romani). 
La vita dell’uomo ha raggiunto un grado di esasperazione elevato; per lui è diventato essenziale e, potremmo dire, esistenziale la realizzazione dei propri bisogni veri e/o illusori, l’elevazione del proprio tenore di vita, l’ingannevole apparenza esteriore, le prospettive seducenti e false di un personale futuro bellissimo. I ritmi frenetici imposti da questa mentalità egoista e balorda, volti in un’ottica prepotente e meschina capace di violentare la natura e dissolvere il sereno rapporto con il genere umano sulla base di una non-etica gretta, hanno ormai sconvolto l’uomo che con notevole inquietudine ed ansietà vive i suoi tempi nella incertezza e precarietà del domani.
Anche le arti, dirette e regolate da quello che viene comunemente definito il sistema dell’arte, ha prodotto molta confusione e caos al suo interno, tanto sconcerto e disorientamento relativamente ai tanti del pubblico non forniti della competenza necessaria e della capacità di leggere l’opera d’arte senza i condizionamenti derivanti dal critico in auge3, dal gallerista malizioso e spesso in malafede (apparentemente preso dalla sua posizione di profondo conoscitore dell’arte, mentre sta attuando i principi di marketing per vendere il suo prodotto!), dall’artista mediocre che cerca in ambiti incerti ed incomprensibili ed in forme espressive poco o per niente limpide ma in ogni caso non incisive di trovare quella credibilità aspirata ma mai conseguita. 
Oggi è il momento di fermarsi e riflettere. In seguito occorrerà agire … senza perdere più tempo.
Il Movimento artistico “Esasperatismo - Logos & Bidone”, partito da Napoli ove è stato fondato da Adolfo Giuliani nel 2000 con la pubblicazione di un Manifesto, con la sua denuncia dei mali del mondo contemporaneo volge principalmente la sua attenzione all’umanità tutta ed a quell’umanesimo che seppe conciliare società, arte e scienza nel nome dell’homo artefix4.
Anche il simbolo scelto, il bidone, è sintomatico perché non è inteso come recipiente di materiali o come tradizionale metafora dell’imbroglio, ma come contenitore della vita stessa e di tutti i valori eterni dell’umanità. È un bidone che tutti ricevono alla nascita secondo forme e modalità diverse, siano esse scientifiche, sociali, economiche, culturali o estetiche; esso è ammaccato, sofferto, consumato, pieno di esperienze, di delusioni, di tradimenti, di dolori … e, dopo aver perso definitivamente la sua base, lamiera inerte, inutile, abbandonata da tutti.
Ecco perché è importante e significativo vedere che, dopo aver rotto gli indugi, un gruppo di artisti all’inizio sparuto ma ricco di fermenti, folto e consapevole della missione dopo, si sta muovendo per sensibilizzare i cittadini e chi ci governa affinché lo sviluppo della esistenza dell’uomo si svolga positivamente, con impegno consapevole, estrema responsabilità, senso della vita, rispetto verso la Natura; quel loro proporre l’inquietudine del “reale-divenire”, le loro denunce dei mali del mondo contemporaneo frutto di un intenso travaglio spirituale, la presentazione di situazioni drammatiche riguardanti l’attuale momento storico, il palesamento delle tante emergenze del pianeta Terra e, quindi, della vita stessa dell’umanità stimola la speculazione di tutti su questa situazione ormai diventata insostenibile e li incitano a ipotizzare la possibilità di un superamento delle problematiche esistenti al fine di ristabilire un equilibrato ed armonico rapporto dell’uomo con il mondo circostante, sia umano che naturale. 
Lentamente ma progressivamente il movimento si sta accrescendo con gli impulsi propositivi di artisti provenienti da ogni parte del mondo, tutti convinti della validità dell’azione dell’esasperatismo, ed oggi è diventato una realtà imprescindibile non soltanto tanto del panorama artistico e culturale europeo, ma soprattutto di quella umana.
A tutti non resta che appoggiare con veemenza il movimento e le sue iniziative, entrare a farne parte a vario titolo augurandosi di poter produrre effetti rilevanti e, soprattutto, sperando in un cambio radicale della mentalità di approccio di ogni problema.

Carlo Roberto Sciascia 
      
1 Artefice della propria fortuna       
2 Questo e subito
3 In voga
4 Uomo artefice 

I "coach aziendali" e Al Baghdadi

Parecchi anni fa un caro amico, un collega cui, quando eravamo all’Europeo avevo fatto, per così dire, un po’ di ‘educazione sentimentale’, perché ha sette anni meno di me e quando si è giovani certe differenze di età hanno il loro peso, mi invitò a una festa a casa sua. Lui, dopo l’Europeo, era diventato un giornalista importante e dirigeva un grande settimanale. Gli invitati erano quindi di un certo livello sociale. Gli uomini yuppie (siamo verso la fine degli anni Ottanta), le donne impellicciate e, spogliatesi di quell’ingombrante indumento non ancora messo definitivamente all’indice dagli animalisti, ingioiellate, griffate e insomma pistolate. Sapendo che avevo una collezione di vecchi ’45 giri’ il mio amico mi aveva chiesto di portarli per animare un po’ la festa. Facevo insomma il disc jockey inanellando sul bussolotto una decina di dischi (di più non ne conteneva, la tecnologia digitale era di là da venire) e poi li sostituivo con altri dieci, fra l’indifferenza generale. Siccome mi annoiavo a morte e non vedevo in giro nessuna ragazza interessante ad un certo punto tirai fuori di tasca un ‘centomila’ e dissi ad alta voce: “Questo è il premio per chi indovina il titolo della prossima canzone e chi la canta”. Il brusio cessò immediatamente. Gli uomini drizzarono le orecchie, che divennero appuntite come quelle delle volpi, e qualcuno si avvicinò cercando di sbirciare. Ma i ‘45’ girano veloci e nessuno indovinò. Era Forty days di Ronnie Hawkins, il rock più scatenato che mi sia mai stato dato di sentire, da far invidia al Little Richard di Lucille, a Jerry Lee Lewis per non parlare dell’imbrillantinato Elvis Presley che aveva un piede nei ’60, ma l’altro gli era rimasto nei ’50, nel melodico (Fame and fortune per esempio. Eppoi ‘Elvis the pelvis’? Ma ‘a mossa’ non era un’antica usanza delle donne e dei ragazzi napoletani?).
Recentemente ho conosciuto una donna che si occupa di ‘coaching aziendale’. Cosa sia il ‘coaching aziendale’ è difficile da spiegare a una persona che sia rimasta sana di mente. Sostanzialmente si tratta di questo: insegnare ai manager, già inseriti ad alto livello nella graduatoria aziendale e persino al mitico AD, come si fa il manager. I poveretti vengono aviotrasportati, in gruppo, in qualche posto esotico ma non pericoloso, poniamo Abu Dhabi o Dubai, e qui sodomizzati con i soliti ‘giochi di ruolo’, il domino, le biglie, le palline colorate e altre cose del genere. Ma la cosa più curiosa è un’altra. Si mette il manager davanti a un cavallo (non in groppa, davanti) e dalle reazioni che ha di fronte all’animale si valutano le sue capacità decisionali e di comando. Non credo che Al Baghdadi per conquistare la leadership abbia avuto bisogno di stare davanti a un cavallo, tutt’al più l’avrà montato o, più probabilmente, avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno. “Kalashnikov! Kalashnikov!” è l’inno dedicato a quest’arma, l’arma di tutte le guerriglie moderne, dal serbo Goran Bregovic, l’autore delle colonne musicali di molti film di Kusturica a cominciare dallo splendido Papà è in viaggio d’affari ambientato nella Jugoslavia di Tito che fece il miracolo di tenere insieme tre comunità, serbi, croati, musulmani bosniaci, che si sono sempre detestate. Ah, la nostalgia della violenza, per noi costretti a vivere in democrazia e a sorbettarci oltre alle elezioni politiche, quelle amministrative, comunali, provinciali, regionali e adesso, per non farci mancar nulla, anche le ‘primarie’, angosciati dall’amletico dilemma se scegliere fra Giacchetti e Morassut, fra Bertolaso e il nulla, fra la Meloni e la Meloni, mentre dobbiamo assistere a grottesche polemiche sull’idoneità della donna a fare politica, mentre altrove, in culture diverse, quelle si fanno saltare per aria –anche questa è politica, sia pur non democratica- coraggiose quanto gli uomini, anzi forse di più perché la donna antropologicamente è colei che dà la vita e quindi la ama, mentre il maschio, fuco transeunte e malinconico, è animato da un oscuro istinto di morte.
Poche sere fa sono stato a cena da una mia amica. Bella casa borghese, con tutte le sue cosine a posto, i centrini, i comodini, i divanini, i quadrettini. Aiuto cuoco in cucina. Mancava solo la domestica in grembiule bianco, crestina e guanti bianchi. I commensali sembravano di una certa levatura culturale. Per un’ora e mezza hanno parlato solo di cibo. Ora, io non sono un asceta, pure a me piace mangiare, anche se preferisco bere, ma dopo un’ora e mezza di questa solfa sul cibo mi è venuto il voltastomaco. Anche pensando –ma sì, facciamo pure un po’ di retorica- a quanti, intorno a noi, cibo non hanno. Mi sono alzato, ho detto “vi lascio alla vostra ‘grande bouffe’ “ e me ne sono andato. Ma era troppo presto. Ho girovagato per qualche ora in una Milano spettrale, quella che ruota intorno alla piazza Gae Aulenti, ammiratissima per i suoi ‘boschi verticali’. Io sarò del pleistocene ma a me sembra che nei boschi ci si vada per passeggiare, non per guardare alberi impiccati a pareti di vetrocemento. Poi mi sono fatto portare alle Capannelle, l’unico ristorante che a Milano tiene aperto fino alle sette del mattino. Pare che sia una ‘grida’ del comune, forse di Pisapia, il sindaco che voleva impedire di sbocconcellare i coni gelato in strada, che impone ai ristoranti di chiudere entro le due (a Bari, oltre quell’ora, ci sono almeno quattro pizzerie aperte). Ma Le Capannelle, che non a caso sta vicino a San Vittore, ha delle regole tutte sue, fuorilegge. L’ora ideale per andarci è fra le tre e le quattro di notte. Vi si trova quel che resta della vecchia, cara, onesta ‘mala’ milanese, quella cantata dalla Vanoni, il cui ultimo epigono è stato Renato Vallanzasca, e la fauna inesausta degli inquieti, degli insonni, dei nottambuli, degli irregolari, dei senzadio. I gestori, come sempre accade in questi posti, come nei pochi baracchini ancora rimasti, hanno molto garbo e tratto. Perché bisogna essere abili per gestire una clientela non sempre raccomandabile.
Ma questo mondo popolano è ormai di nicchia. La maggioranza degli italiani fa parte, come ho cercato di raccontare, di un ceto che non saprei se definire piccolo o medio borghese, indifferente a tutto ciò che gli sta intorno tranne il denaro, eternamente basculante fra bulimia e diete nutrizioniste, fra ‘coaching aziendali’ e ‘personal trainer’, fra un orientalismo ridicolo e una totale mancanza di valori, molle, imbelle, svirilizzato. E mi è venuto da pensare che sia una fortuna che fra la Libia e noi ci sia di mezzo il mare (“quant’è profondo il mare”) quel mare che oggi tanto ci inquieta perché traghetta i migranti. Se Libia e Italia fossero unite dalla terraferma i guerrieri di Al Baghdadi ci metterebbero tre settimane per arrivare a Roma (il che, almeno per un po’ tempo, offrirebbe qualche vantaggio: spazzar via il Vaticano e Papa Francesco che non perde occasione per entrare coi piedi a martello negli affari interni dello Stato italiano -se si ha da essere una teocrazia, almeno lo si sia ufficialmente). Certo poi la risalita dell’Italia sarebbe più lenta, come lo fu per gli Alleati nel ‘44/45, ma sfondata la linea gotica e poi quella del Po gli uomini del Califfo si prenderebbero tutto il Nord e verrebbero fermati solo ai confini del Canton Ticino. Perché gli svizzeri saranno anche noiosi, ma le palle (Il formidabile esercito svizzero, John McPhee, Adelphi) almeno quelle, le hanno conservate.



martedì 22 marzo 2016

Botero a Palermo - Fondazione Federico Secondo:"Via Crucis - La pasiòn de Cristo"



“Via Crucis, la pasiòn de Cristo” di Fernando Botero è una mostra fantastica, assolutamente da non perdere.

Una delle domande più frequenti fra i credenti e non credenti è sempre stata: “Ma se Cristo ritornasse ai nostri giorni tra gli uomini, cosa accadrebbe?”. Ecco, Botero, con la sua splendida mostra “Via Crucis – La pasiòn de Cristo”, ha risposto a questo quesito oltre ogni immaginazione.

Una mostra unica che, sgombrando il campo da ogni bigotto preconcetto, mostrandosi con infinita apparente leggerezza, risulta intensa e, a mio parere, piena di un misticismo assai lontano dalla chiesa cattolica e da qualunque altro “fondamentalismo umano".

Visto il successo di pubblico e critica,  la chiusura della mostra, programmata per il prossimo 21 giugno, è stata posticipata a fine settembre.

Essec


giovedì 17 marzo 2016

Mio padre dimenticato e la Resistenza al "Corriere"

Caro Direttore,
come sai il Corriere della Sera ha celebrato con un numero speciale i 140 anni della sua storia. Che potrebbe essere riassunta in poche parole: fu sempre un giornale governativo. Particolarmente imbarazzato è l’articolo, a firma di Dino Messina, che parla della Resistenza all’interno del Corriere della Sera. Questa Resistenza fu una cosa minima ma ci fu. E due ne furono i protagonisti che cito non in ordine alfabetico ma per l’importanza del ruolo che ebbero: Benso Fini e Gaetano Afeltra. Curiosamente il nome di mio padre non compare in questa cronaca, quello di Afeltra viene appena sfiorato mentre vengono citati giornalisti che con la Resistenza all’interno del Corriere non ebbero nulla a che fare.
Leggiamo la testimonianza di un testimone del tempo, quella di Emilio Radius che stava sulla barricata opposta dei collaborazionisti (Gli anni drammatici capitolo inserito in Cinquant’anni di giornalismo, Editore Guido Miano). Radius sta parlando dell’ultimo direttore ultrafascista del Corriere, Ermanno Amicucci e così scrive: “Sapeva (Amicucci, ndr) che nell’interno del giornale esisteva un nucleo o cellula del Comitato di Liberazione in contatto con altre cellule? E che ne era segretario o fiduciario Benso Fini? Anche Fini era un giuocatore. Ma un piccolo giuocatore che pelava i fascisti senza farli strillare. Andava e veniva da Milano a Canzo e da Canzo a Milano con la sua logora cartella di piazzista della Liberazione, attento a dove metteva i piedi e con chi parlava, a che cosa diceva, a che cosa dicevano gli altri. Miope, pareva non vedere né nemici né amici. Faceva della cospirazione come si fa della contabilità. Destava sospetti meno di chiunque altro. Sfiorava le reti di tante polizie, senza inciamparvi mai. Al giornale sbrigava il suo lavoro con destrezza e rapidità, teneva i contatti con l’interno e con l’esterno... Con ciò, idee chiare sulla situazione, sui suoi sviluppi prossimi e lontani, sulla conclusione di quell’altra ed estrema avventura. Speranze non eccessive, nessuna infatuazione, nessun rancore. Si sarebbe anche detto, nessuna paura… Rischiò con circospezione per un anno e mezzo; e gli andò bene. Distingueva perfettamente i colleghi che la pensavano come lui da quelli che, pur non avendo le stesse idee, non lo avrebbero denunciato in nessun caso e da quelli, pochi o pochissimi, di cui doveva invece diffidare… Il Fini con la sua logora cartella non era solo nella notte”.
Nel libro di Radius c’è un altro episodio interessante. Aldo Palazzi, amministratore del Corriere, aveva stretto un accordo segreto col CLN, come molti altri grossi personaggi che, intuendo che il Fascismo era alla fine, stavano cambiando campo (si pensi, come esempio per tutti, agli Zorzi Vila, grandi proprietari terrieri riparati al momento opportuno in Svizzera da dove finanziavano il CLN, come ci racconta Antonio Pennacchi nel suo splendido Canale Mussolini). Ma pochi sapevano di quell’accordo segreto. Racconta ancora Radius: “Palazzi per poco non fu fucilato. Fini, Afeltra e Fallaci accorsero a strapparlo dalle mani degli uomini che lo avevano arrestato… Fini, Afeltra, Fallaci (lo zio dell’Oriana, ndr) erano al centro di quell’agitazione”.
La più stringata e meno emotiva cronaca pubblicata nel volume Storia del Corriere della Sera edito da Rizzoli nel 1976, a cura di Glauco Licata così si esprime: “A Milano era frattanto tornato Benso Fini, che dal 1933 al giugno del 1940 aveva lavorato presso la redazione di Parigi del giornale e che, dopo l’8 settembre, operò nel Corriere per la Resistenza… Quanto ai redattori era rimasto sì qualche antifascista dopo le fughe avvenute nel settembre 1943, ma salvo poche eccezioni non risulta che vi siano stati giornalisti impegnati nella Resistenza all’interno del Corriere. Chi fece qualcosa furono Benso Fini, Fiorio e Poch”. Scrive ancora Licata parlando degli ultimissimi momenti del regime fascista: “Il telefono di redazione comincia a squillare. Ordine di non rispondere. Il trillo continua lamentoso e infonde inquietudine e fastidio; non lo si può sopportare. Benso Fini si avvicina all’apparecchio, stacca il ricevitore. ‘Qui parla un fattorino del Corriere’, dice. E dall’altro capo del filo, da Como, è il ministro Mezzasoma che parla: ‘Tutto calmo a Milano? E Amicucci?’. ‘Scappato’. Altri nomi di giornalisti fascisti. ‘Scappato, scappato’, ripete Fini. ‘Buona notte’. Sarà questa una delle sue ultime telefonate prima di Dongo”.
Messina dedica giustamente una parte importante a Mario Borsa che fu il primo direttore del Corriere dopo la Liberazione. Ma anche lui, in quei momenti convulsi del passaggio da un regime a un altro, ebbe bisogno della protezione e dell’avallo di Benso Fini. Radius: “ Palazzi tornò con la sua automobile. Da un’altra macchina, una Topolino, scesero contemporaneamente davanti al giornale Benso Fini e un gran vecchio diritto, Borsa”. Comunque fu sotto la direzione tecnica di Benso Fini che fu pubblicata, al nord, la prima edizione dell’Unità dell’Italia liberata.
Benso Fini, che era un uomo estremamente pudico e riservato, non si vanterà mai della sua partecipazione alla Resistenza a differenza di tanti altri che la Resistenza non la fecero affatto, né al Corriere né altrove. La ricompensa a questa riservatezza è il silenzio che oggi si cala su di lui. C’è anche da tener presente che Benso Fini era in una posizione particolarmente delicata, perché sua moglie era ebrea e, più anziano degli altri, aveva due figli piccoli. Ma questo non incise sulla sua determinazione di antifascista, pagata, fra l’altro, con quindici anni di esilio.
Rispettando la riservatezza di mio padre io, in quarant’anni di carriera, non ho mai parlato del suo ruolo nella Resistenza. Ma adesso questa sorta di damnatio memoriae del tutto ingiustificata che colpisce mio padre (come per decenni ha colpito me da quelli che tu, Marco, chiami ‘i giornaloni’, ma io, allo stato, sono ancora vivo e mi posso difendere) mi manda fuori dai gangheri.
Caro Marco, capisco bene che una storia del genere può interessar poco o pochissimo i lettori del Fatto. Ti ringrazio, sensibile come sei sempre alla verità, di averla, nonostante tutto, pubblicata.



venerdì 11 marzo 2016

“Anthologia” di Letizia Battaglia presso ZAC – Cantieri culturali della Zisa – Palermo dal 5 marzo all’8 maggio



Sono trascorsi tanti anni, ma quelle immagini sono ancora qui a turbarmi”. Immagini di vita, di cronaca e di morte. Quella che lei, la fotografa Letizia Battaglia, ha vissuto, sviscerato e documentato dal 1974 quando nella sua Palermo diventa fotografa e direttrice del team fotografico del quotidiano L’Ora. Lei, la prima donna europea a ricevere nel 1985 a New York il premio “Eugene Smith per la fotografia sociale”, lei che nonostante i soggiorni a Parigi e il richiamo americano non ha mai del tutto abbandonato la sua città.


Palermitana, classe 1935, Letizia Battaglia inizia la sua attività di fotografa a Milano, nel 1972, per supportare gli articoli che pubblica sulle riviste come freelance. Nel 1974 torna a Palermo come responsabile del servizio fotografico del quotidiano L’Ora. Con lei collaborano diversi giovani, tra i quali Franco Zecchin, che sarà poi per vent’anni suo compagno di lavoro e di vita.
 

Nel 1979 è cofondatrice del Centro di Documentazione “Giuseppe Impastato”.


Nel 1974 crea l’agenzia “Informazione fotografica”, frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Qui si formano i fotografi Luciano del Castillo, Ernesto Bazan, Fabio Sgroi, nonché la figlia Shobha. Nel 1974 si trova a documentare l’inizio degli anni di piombo della sua città, scattando foto dei delitti di mafia per comunicare alle coscienze la misura di quelle atrocità.

Quarant’anni di storia italiana davanti al suo obiettivo, oggi divisi tra “Cronaca”, “Rielaborazioni” e “Gli Invincibili”, progetti con e da Pier Paolo Pasolini a Rosa Parks passando per Falcone e Borsellino, quelli che “non necessitano di ulteriore spiegazione, parlano da sè“, commenta. Una donna e il suo grandangolo, reporter di un’epoca e di una città, che oggi ripensa ai “lunghi 18 anni in cui fotografai tutto il fotografabile di Palermo, per il mio quotidiano. Tutto. Pure le partite di calcio. Ma soprattutto la miseria, i morti ammazzati, gli arrestati, le bombe, i processi, la spazzatura, i feriti, i fascisti, le bambine, le donne, le manifestazioni, gli umiliati. Fotografavo, incamerando dentro tutto il dolore civile possibile, tutta la rabbia accumulati in testa, nel cuore e non so dove ancora”.


Il suo primo punto di riferimento in ambito fotografico è Diane Arbus, ritenuta una sorta di “maestra assente”; poi scopre altri autori, li incontra, li ama. Si appassiona specialmente al lavoro delle donne fotografe: Mary Ellen Mark, Sally Mann, Lisetta Carmi, Sylvia Plachy. Suoi sono gli scatti all’Hotel Zagarella che ritraevano gli esattori mafiosi Salvo insieme ad Andreotti e che furono acquisiti agli atti per il processo.


Con il passare degli anni Letizia Battaglia diviene una fotografa di fama internazionale, ma non è solo “la fotografa della mafia”. Le sue foto, spesso in un vivido e nitido bianco e nero, si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne (la Battaglia predilige i soggetti femminili), i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria.


Si è occupata anche di politica a cavallo tra la fine degli Anni ’80 e i primi Anni ’90. È stata consigliere comunale con i Verdi, e assessore comunale a Palermo con la giunta Orlando. Nel 1991 è stata eletta deputato, nell’XI Legislatura, all’Assemblea Regionale Siciliana con La Rete. In questa legislatura è vice presidente della Commissione Cultura. Nel 1996 non si ricandida.


Dal 2000 al 2003 dirige la rivista bimestrale Mezzocielo, realizzata da donne e nata da una sua idea nel 1991. Nonostante le sue radici profondamente siciliane, la Battaglia si è trasferita nel 2003 a Parigi, delusa per il cambiamento del clima sociale e per il senso di emarginazione da cui si sentiva circondata, per poi tornare, nel 2005, nella sua Palermo.


Premi:

1985 a a New York, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, l’ Eugene Smith Grant; 1986 il New York Times Award;   1999 a San Francisco il Mother Johnson Achievement for Life; 2007, in Germania, il Dr. Erich Salomon Preis; 2009, ancora a New York, il Cornell Capa Infinity Award


Pubblicazioni:

Fra i suoi libri pubblicati in Italia, si ricordano:

Siciliana (testi di Giovanna Calvenzi, Claudio Fava, Michele Perriera), Belvedere Electa, 2006; – Passione, Giustizia. Libertà (testi di Alexander Stille, Renate Siebert, Roberto Scarpinato, Leoluca Orlando, Simona Mafai, Melissa Harris, Angela Casiglia Battaglia), Federico Motta Editore, 1999;

Dovere di cronaca (con Franco Zecchin), Peliti, 2006.
Giovanna Calvenzi

Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, 2010, pagg. 192, € 17,00.
Testi di: Giovanna Calvenzi, Santi Caleca, Alberto Roveri, Franco Zecchin, Giuseppe Di Piazza, Simona Mafai, Sergio Di Giorgi, Giovanni Sollima, Leoluca Orlando, Giovanni Senzani, Donna Ferrato, Melissa Harris, Anna Winand, MariaChiara Di Trapani, Letizia Battaglia.


Alcune mostre:

Palermo amore amaro, 1986, Palermo.
Fotografie dalla Sicilia, 2002, Cantieri Culturali della Zisa, Palermo.
Sorelle, 2003.
Passione, giustizia e libertà Metis-nl Amsterdam, Olanda.
Omaggio a Letizia Metis-nl, Amsterdam, Olanda.
Expo Fotografe Italiane, Hasseblad center, Germania.
Passione, giustizia e libertà, 2006, Torino.
Siciliana, Galleria Belvedere, Milano, 2006.
Dovere di cronaca,  Festival Internazionale di Roma.
Letizia Battaglia 1974 – 2011, palazzo Chiaramonte, Palermo pride 2011
Attraverso le tenebre: Goya, Battaglia, Samorì, 2010, Raccolta Lercaro, Bologna 
“Anthologia” di Letizia Battaglia presso ZAC – Cantieri culturali della Zisa – Palermo dal 5 marzo all’8 maggio

Creato il 06 luglio 2013 da Sarahscaparone @SarahScaparone