Ascoltavo l’altra sera “Put your head on my shoulder”. Paul Anka, insieme ai Platters (Only you),
è stato il primo dei grandi cantanti o complessi americani che hanno
cambiato la storia della musica leggera ad arrivare in Italia perché, in
una curiosa inversione dei tempi, precedette Presley, Jerry Lee Lewis,
Little Richard, cioè i campioni del rock, che negli States erano nati
prima. Con Diana vendette 9 milioni di copie, una cifra enorme per allora perché il mercato era molto più ristretto. Poi vennero i successi di You are my destiny e di Crazy love.
Anka sbarcò fisicamente in Italia nel 1961, al Lirico di Milano. In
quel teatro zeppo fino all’inverosimile noi ragazzi assistemmo ad una
scena sbalorditiva: mentre cantava Crazy Love le nostre compagne
del liceo, che in classe portavano ancora il grembiule nero (il burqua
di quei tempi) trafficando sotto le loro caste camicette tirarono fuori i
reggiseni e li gettarono sul palcoscenico ai piedi del cantante, tra
l’altro piuttosto bruttino.
Invece
chi in Italia, in contemporanea con Anka e i Platters, ci sbarazzò
della dittatura dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli, delle Nille Pizzi
è stato il dimenticato Tony Dallara che con i suoi Campioni si esibiva
al Santa Tecla, vicino alla Statale, dove è passata tutta una
generazione di cantautori, di menestrelli, di comici da Jannacci in giù.
Dai Platters Dallara aveva preso il singhiozzo (“Co-ome prima”,
“Ti-idirò”), di suo ci aveva messo l’urlo. Erano nati gli ‘urlatori’ con
grande scandalo delle nostre mamme. La prima Mina (Tintarella di luna) e il primo Celentano imitavano Dallara.
A
cambiare tutto fu il juke box. Mentre prima era il gestore della
discoteca, che non si chiamava ancora così, e dei Bagni, quelli dei
Vanzina con la rotonda umbertina, a mettere i dischi cercando di intuire
i gusti dei ragazzi, adesso eravamo noi a scegliere inserendo una
moneta da 100 lire in quella magica fessura che dava diritto a
selezionare tre canzoni. E in quel 1958 noi ne gettonavamo,
ossessivamente, solo tre: Diana, Only You e Come prima.
Stavo
quindi ascoltando, l’altra sera, “Put your head on my shoulder”.
Dolcezza di quel tenero abbandono sulla spalla di lui. Erano tempi in
cui le ragazze, sempre quelle del grembiule, sferruzzavano per regalarti
un maglione fatto con le loro manine sante, pegno di un innamoramento
eterno (“Il pullover che mi hai dato tu/sai mia cara possiede una
virtù”, Gianni Meccia) che sarebbe svanito di lì a poco, com’è in ogni
amore adolescenziale. Ascoltavo e mi passavano per la mente pensieri
proibiti. Mi chiedevo se quello stesso gesto, il capo di un ragazzo
abbandonato sulla spalla del compagno, abbia oggi lo stesso senso. Tutti
i razzisti premettono ai loro discorsi che non sono razzisti. E così
gli omofobi. Io però spero di non essere sospettabile, ho dichiarato la
mia parte di omosessualità (del resto, come è noto, in ogni persona,
uomo o donna che sia, c’è un maschile e un femminile, sia pur combinati
in proporzioni diverse) nella mia autobiografia, Una vita. Mi è
sempre piaciuto osservare anche i bei ragazzi e se mi sono
platonicamente innamorato di Nureyev, di Delon, di Laurent Terzieff (Peccatori in blue jeans, Kapò, Il deserto dei tartari)
non è solo per la loro bravura ma anche per il loro fascino. Dovrebbe
essere ovvio che ognuno ha il diritto di agire la propria sessualità
come meglio crede, seguendo i propri istinti, i propri gusti, i propri
sentimenti. Oserei anzi dire che, in una cultura occidentale, quello
alla libertà sessuale è il primo, il più basico, dei diritti.
Tuttavia
mi pare che nell’evidente ed esponenziale aumento dell’omosessualità,
sia maschile che femminile, proprio in Occidente, vi sia qualcosa di
anomalo e di preoccupante. Molte non sono omosessualità naturali ma, per
così dire, ‘di ritorno’. L’uomo, che per quanto si vanti e si glori ha
sempre avuto paura della donna per quella fenditura da cui nasce la vita
e il mistero, è oggi ulteriormente intimorito dall’aggressività di lei.
Che non ti appoggia più teneramente la testa sulla spalla e tantomeno
ti fa un maglione. Da che mondo è mondo la donna non seduce ma si fa
sedurre. Insomma è stata sempre lei a condurre il gioco, ma in modo più
malizioso e meno sfacciato. Una donna che si offre spudoratamente fa
cadere ogni libido.
L’omosessualità
delle donne è più nascosta, come più nascosto è il loro sesso (alzi la
mano l’uomo che nel suo immaginario onirico non ha sognato di vedere,
dal buco della serratura, due donne che si fanno, e gli sarà
immediatamente tagliata). Comunque anche l’omosessualità femminile è in
crescente aumento e non solo perché, come quella maschile, è stata
sdoganata (vedi la nuotatrice Rachele Bruni alle recenti Olimpiadi).
Credo che si tratti di un gioco di controspecchi. L’uomo, sempre più
innamorato di sé, sempre più narciso, si è eccessivamente
femminilizzato. Tien cura del proprio corpo come una donna, si depila,
si deodora, si cosparge di creme, frequenta, al pari di lei, le beauty
farm. Inoltre non ci sono più le occasioni per dimostrare la propria
virilità e il proprio coraggio (la donna non ha bisogno di dimostrare
coraggio, ce l’ha quando occorre, essendo antropologicamente preparata
al parto), non fa più la guerra, non esiste più un orgoglio nazionale,
la forza fisica, sostituita dalla tecnica, ha perso ogni importanza,
serve al più per svitare i tappi delle bottiglie di acqua minerale o per
mettere le valigie sulle reticelle dei treni. Ha perso vitalità. Un
uomo-femmina interessa molto poco le donne dal punto di vista sessuale.
Tanto vale, per dirla brutalmente con Céline, che “se la divorino tra di
loro”.
Ma
in fondo che importanza ha questo aumento ambosessi dell’omosessualità
se ognuno ci trova il proprio gusto? Ce l’ha. Perché i figli hanno il
brutto vizio di nascere come sempre e le modalità per procrearli, a
parte qualche tecnica algoritmica che può essere alla portata solo di
pochi, risalgono all’alba del mondo. La natività occidentale è scesa a
livelli bassissimi (l’Italia, se non mi sbaglio, è agli ultimissimi
posti in questa speciale classifica). Gli altri, quelli che tanto
temiamo, fanno figli come conigli ed è impensabile di spazzarli via
tutti a colpi di droni. Prima o poi ci sommergeranno.
“L’estate
sta finendo” (ma chi la cantava?) e induce a pensieri malinconici. Ne
chiedo venia alle lettrici e ai lettori del Fatto.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano del 20 agosto 2016)
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