venerdì 16 dicembre 2016

Crolla tutto, ma quando tocca ai talk?

 
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nei giorni scorsi ha ricevuto al Quirinale per le consultazioni Silvio Berlusconi. Un pregiudicato, uno che è stato definito con sentenza definitiva “un delinquente naturale” (che è cosa diversa e più grave del ‘delinquente abituale’ perché è uno che delinque anche quando non ne ha alcun bisogno), che non ha nessun ruolo istituzionale. E infatti Beppe Grillo, sulla base di quest’ultima considerazione, non si è presentato al Quirinale, ma ci sono andati parlamentari dei Cinque Stelle. Se le cose stanno così Mattarella avrebbe potuto ricevere anche Renato Vallanzasca che almeno una sua etica, per quanto malavitosa, ce l’ha. Mi chiedo in quale Paese normale, mi spiace usare una definizione cara a Massimo D’Alema, una cosa del genere sarebbe possibile. 

Lo scorso venerdì sono stato invitato al programma pomeridiano di Sky Tg24 condotto attualmente da Federica de Sanctis (prima c’era Paola Saluzzi, che mi sembrava più centrata, ma adesso è stata esiliata o promossa, non so, al mattino). Il programma iniziava alle quattro e finiva alle cinque. Per il mio solito doverismo imbecille sono partito dalla mia abitazione alle 15 e 20 e sono arrivato agli studi di Sky con largo anticipo. Ho potuto quindi vedere Vittorio Sgarbi che furoreggiava con la solita sequela di insulti nei confronti di chi non era d’accordo con la sua tesi, peraltro un tantino azzardata: il Referendum l’ha vinto Renzi. In particolare l’eterno critico d’arte se la prendeva, con contumelie e le solite parolacce, con Licia Ronzulli deputato europeo di Forza Italia, l’anello più debole di coloro che erano presenti alla trasmissione (con Gianni Barbacetto è stato più cauto salvo definirlo la sera, in sua assenza, alla Zanzara, “un frocetto”. Un comportamento non esattamente coraggioso). La poveretta non poteva aprir bocca che veniva subito zittita dall’energumeno. Ha potuto solo balbettare: “Questa trasmissione è vergognosa”. La conduttrice, che sembrava aver perso il controllo della situazione, ha detto: “Non le permetto di dire che la mia trasmissione è vergognosa”. Invece era vergognosa.

Intanto si erano fatte le 16 e trenta, sforando di mezz’ora la prima tranche del programma. Ho chiesto lumi a un assistente di Sky. “Fa share”. Quando è venuto il mio turno ho potuto solo dire che mi sembrava curioso che in un’ora di trasmissione, che seguiva di pochi giorni i risultati del Referendum, non fosse stata spesa una sola parola per i Cinque Stelle che di quel Referendum sono gli indiscutibili vincitori. La conduttrice ha replicato che avevano invitato più volte i rappresentanti dei Cinque Stelle ma quelli si erano negati. “La questione non è questa - ho risposto- voi avete il diritto di invitare chi volete e chi è invitato di rifiutarsi. La questione non è la mancanza di rappresentanti dei Cinque Stelle ma il fatto che nella trasmissione non sono mai stati citati”. Ho poi aggiunto quello che dicono tutti e cioè che bisogna andare a elezioni subito per verificare qual è la reale consistenza delle forze in campo. Perché ci sono partiti che non esistono più o quasi, come Forza Italia. Qui ho capito che la mia partecipazione, durata circa un minuto e mezzo, era finita. Intanto si erano fatte le cinque. Un assistente mi ha chiesto se volevo restare: la seconda tranche era stata prolungata alle cinque e mezza. Ho risposto che rimanevo se avessi avuto un tempo ragionevole per argomentare. Intanto però era uscito dalle consultazioni un rappresentante, mi pare, di Ala. Il quale, senza sprezzo del ridicolo, ha parlato per una quindicina di minuti sottolineando l’importanza e la responsabilità del suo gruppo. Ci sono stati anche un paio di giornalisti che gli hanno fatto delle domande. Siamo arrivati così alle 17 e 15. Mancavano quindici minuti alla fine. Pensavo che sarebbero stati interpellati quelli che erano nello studio di Milano (oltre a me c’era un onorevole del Pd). Ma a questo punto è spuntato, indovinate chi: Massimo Cacciari. Nello spettacolo teatrale Perché No Travaglio fa un esilarante sketch su Cacciari. Lo descrive che dorme sotto vuoto spinto in qualche studio televisivo, a Venezia. Poi al mattino, quando iniziano i talk, gli danno una spolverata e da lì trasmigra, sempre da Venezia, da una trasmissione all’altra fino a sera,

Sgarbi + Cacciari. Per me era troppo e me ne sono andato. Fra anda e rianda ho perso tre ore della mia vita. Ma la colpa è solo mia. Diceva Montanelli: “Certe onorificenze non solo non devono essere accettate, ma non si deve nemmeno meritarsele”. Parafrasandolo, si potrebbe dire che certi inviti non solo non bisogna accettarli ma non bisogna nemmeno meritarseli. 

Questi conduttori televisivi, che fanno il bello e il cattivo tempo e si sentono i padroni del mondo, non hanno capito che il vento è cambiato. Che il No al referendum così come la ben più importante vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane sono un no all’establishment, del quale fanno parte a pieno titolo i network televisivi. Del resto questo movimento contro l’establishment mediatico, in Italia è già in atto da tempo. Mi ha detto Aldo Grasso, autorevole critico televisivo del Corriere della Sera, che i talk sono arrivati a 30 ma l’audience complessiva si è dimezzata. I cittadini non credono più a quei programmi e ai politici che li infestano. Prima o poi gli uni e gli altri saranno spazzati via. 

Ma per tornare alle aggressioni verbali di Sgarbi e anche al trattamento al limite dell’offesa che mi è stato riservato, io credo che la prima, urgente, urgentissima riforma, lasciando perdere per il momento cambiamenti poderosi e utopici, è il ritorno alla buona educazione.



domenica 11 dicembre 2016

Se ci provano con il "bis" provocano l'insurrezione


Renzi ci è ricascato subito. La sberla presa il 4 dicembre da circa 20 milioni di italiani non sembra avergli insegnato nulla. Si è riproposto con la solita arroganza. Il che fa venire qualche dubbio anche sulla sua intelligenza. Alla Direzione del Pd ha parlato solo lui, sorvolando sul fatto che era stato proprio lui, o soprattutto lui, a portare quel partito alla debacle. Ma di questo potremmo anche infischiarcene perché i partiti sono delle associazioni private, non diversamente da una bocciofila, e quel che avviene al loro interno dovrebbe interessare solo gli affiliati e non far parte nemmeno del dibattito pubblico che invece ci viene quotidianamente ammannito dai media e dalle Tv. Però Renzi non si è limitato solo a questo. Con la complicità di Sergio Mattarella, questo scialbo e ameboide democristiano che in cinquant’anni di carriera politica non aveva mai dato alcun segno di vita, come la sonda caduta su Marte, e che adesso è improvvisamente assurto al rango di “uomo di grande competenza e saggezza”, ha preteso anche di dettare le linee-guida di un futuro di cui, a rigor di logica e di voti, non dovrebbe far più parte, almeno per un bel po’. Le sue indicazioni sono: o una ‘grande ammucchiata’ o elezioni subito.

In realtà le elezioni Renzi, contrariamente, come sempre, a ciò che dice, le teme come la peste, perché sa che il knock down del 4 dicembre ridurrebbe pesantemente quel 40 per cento che gli hanno regalato le elezioni europee.

Noi abbiamo fatto male a rendere a Matteo Renzi l’onore delle armi. Perché sottintende un patto di lealtà per il quale gli sconfitti non usino, alla prima occasione opportuna, quelle stesse armi che i vincitori gli hanno generosamente lasciato. Renzi resta quello sleale, slealissimo, di sempre, che rifila all’’amico’ Enrico Letta lo “stai sereno”. E’ un uomo di cui non ci si può assolutamente fidare.

Naturalmente adesso, alla faccia di ogni sbandierata trasparenza, i partiti hanno già cominciato a tessere le loro trame segrete. Gli unici a parlare con lingua dritta sono stati i Cinque Stelle e Salvini che vogliono elezioni immediate. Per capitalizzare, legittimamente, la vittoria, che sia pur in proporzioni assai diverse, hanno ottenuto il 4 dicembre.

Quasi tutti gli altri parlano con lingua biforcuta: dicono di volere elezioni il più presto possibile ma sottobanco le temono. Berlusconi –perché di Berlusconi ci tocca ancora parlare, nonostante il ‘delinquente naturale’ sia stato espulso con ignominia dal parlamento e, fra le altre cose, sia corresponsabile del disastro economico ed etico italiano- in un gioco delle parti manda avanti Brunetta ad affermare che Forza Italia vuole le elezioni subito, subitissimo, ma in segreto tresca perché arrivino il più tardi possibile. Perché se le elezioni si facessero ora diventerebbe palese quello che già tutti sanno: che Forza Italia può contare solo sul voto del suo capo e dei suoi cari. Lo stesso si può dire, ad eccezione di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, per quella miriade di partitini, Ncd, Udc, Ala, che formano il cosiddetto centro destra.

Dalla situazione attuale, in cui è entrato a gamba tesa anche il solito Napolitano (poteva mancare?), può uscire di tutto, e tutto in barba ai risultati del Referendum del 4 dicembre, cioè alla volontà degli italiani.

In una situazione eccezionale come questa bisognerebbe fare come facevano i Romani quando si trovavano in circostanze analoghe: nominare un ‘dictator’ temporaneo, con le mani libere (a cuccia quindi anche la Corte Costituzionale), un uomo non compromesso con la politica italiana degli ultimi trent’anni (vallo a trovare, forse bisognerebbe ricorrere a un tedesco o a uno svizzero) col compito di sbrigare le pratiche di normale amministrazione e di portare l’Italia al più presto possibile a quelle elezioni che ci darebbero finalmente la reale consistenza delle attuali forze in campo.

Comunque una strada non è in alcun modo percorribile: un reincarico a Renzi o a una sua fotocopia. Il quale rinvierebbe le elezioni alle calende greche, un rinvio che gli strumenti di una democrazia marcia, corrotta e decotta come la nostra, una parodia di democrazia, rendono possibile. Contando anche sul fatto che, notoriamente, gli italiani, anche quelli giovani e anziani che hanno fatto pazientemente la fila per dire No all’attuale premier finto dimissionario, in politica hanno la memoria molto corta.

Qualora ci fosse un reincarico a Matteo Renzi, gli italiani se hanno ancora un senso di sé e della propria dignità dovrebbero dar vita ad una insurrezione popolare. Violenta.

 

lunedì 28 novembre 2016

Caccia al voto dei giovani, com'è difficile la rincorsa di Renzi




È il governo con l'età più bassa nella storia della Repubblica. Eppure non riesce a sedurre gli under 35. Che al referendum rischiano di diventare il tallone d’Achille del premier. E qualche ragione per essere arrabbiati, i “nuovi adulti”, ce l’hanno.


Se da tre settimane gli incubi di Hillary Clinton sono popolati dagli operai bianchi del Midwest che hanno votato Donald Trump, quelli di Matteo Renzi sono gremiti di giovani precari meridionali furiosi. Il premier ha capito che sarà il voto degli under 40 a decidere chi vincerà il referendum. E che sono gli arrabbiati e i delusi, il tallone d’Achille su cui ha deciso di concentrare gli sforzi finali suoi e dei comitati del Sì. «Se non convinciamo i giovani a cambiare idea e votare per noi, il 5 dicembre andiamo tutti a casa», ripete il premier tre volte al giorno a chi gli capita davanti. Ecco spiegate le ultime mosse: Matteo che si lancia sulla copertina della rivista Rolling Stone (titolo “The young pop”, dove discetta di Fedez e Dj Ax, «almeno ha evitato di rimettere il chiodo» ironizzano gli antipatizzanti), Matteo che annuncia «una decontribuzione totale per chi assumerà giovani al Sud nel 2017», Matteo che applaude «il bonus di 500 euro per i diciottenni», che da inizio novembre possono scaricarsi la paghetta di Palazzo Chigi da una app del governo (“18App”, si chiama). Un plafond da spendersi in ebook e spettacoli teatrali, musei e concerti, pure di musica techno, che era stato approvato già un anno fa e che diventa operativo solo adesso. «Renzi sta diventando ridicolo anche nel dispensare le sue marchette», ha reagito Giorgia Meloni. «Evidentemente sa che questo referendum lo perderà».


«Non è detta l’ultima parola», pensa invece Renzi. Che sta tentando il tutto per tutto per affabulare i ragazzi d’Italia: i trend fotografati dalla categoria più sbeffeggiata dell’anno, quella dei sondaggisti, varranno anche poco, ma tutte le rilevazioni segnalano che per ora il No è in predominio schiacciante soprattutto tra chi ha meno di quarant’anni. Che votano “contro” non tanto per difendere la Costituzione del 1948, ma per mandare a casa un governo che non li ha mai rappresentati. «Tra i ragazzi c’è un sentiment antisistema, frutto anche di un’insoddisfazione che continua a essere molto violenta», ragiona Giuliano Da Empoli, uno dei consiglieri più ascoltati da Renzi, preoccupato dal fatto che i giovani elettori abbiano abbandonato il Pd in blocco, rivolgendosi all’offerta politica del Movimento 5 Stelle.


Un vero paradosso, per il governo più “young” della storia della Repubblica. Un esecutivo riempito di ministri e ministre di primo pelo, che ha fatto della rottamazione, del cambiamento, della novità a tutti i costi il perno della sua comunicazione. Il punto, probabilmente, sta proprio qui. Nello spread tra quello che è stato annunciato dallo storytelling renziano e quello che è stato davvero realizzato.


Analizzando documenti ufficiali della Banca d’Italia, dell’Istat, dell’Ocse, scartabellando le misure dei primi mille giorni dell’esecutivo, ecco che il quadro si fa più chiaro. Mostrando come l’insoddisfazione e la rabbia si basano su uno status quo che Renzi ha certamente ereditato, ma che non sembra aver affrontato con vigore sufficiente per tentare di ribaltare. Anzi: le diseguaglianze generazionali sono aumentate, e di riforme importanti per ridurre il gap di opportunità tra giovani e anziani, in questi primi tre anni dell’era di Rignano sull’Arno, non s’è vista l’ombra.


Partiamo dal lavoro, pietra miliare di ogni polemica. «I dati dell’Istat pubblicizzati dal governo raccontano che da febbraio 2014 ad oggi ci sono 656 mila posti in più», ha detto Renzi qualche giorno fa. In realtà, il tasso di disoccupazione giovanile è sì migliorato di qualche decimale, ma resta inchiodato a un mostruoso 37,1 per cento, con punte che vanno dal 60 all’80 per cento in regioni del Sud come Campania, Calabria e Sicilia. I nuovi occupati, dati alla mano, sono infatti in gran parte over 50, una crescita esponenziale dovuta alla stretta sull’età pensionabile voluta dall’ex ministro Elsa Fornero.


Le nuovi assunzioni a tempo indeterminato sono state pagate in larga parte dallo Stato, e hanno riguardato soprattutto lavoratori maturi: nel 2015 grazie al Jobs Act le imprese hanno potuto assumere ottenendo sgravi fiscali da favola, foraggiati di fatto dai contribuenti, e la bolla è scoppiata appena il governo ha chiuso i rubinetti degli incentivi. «Questo Paese ha speso ad oggi circa 18 miliardi per poter permettere al presidente del Consiglio di dire che ha qualche centinaio di migliaia di occupati in più. Una spesa straordinaria, con un risultato minimo», ha attaccato Susanna Camusso, leader di un sindacato, la Cgil, che non si è recentemente distinto come campione dei diritti dei giovani. «Un risultato che peraltro, con tutto il rispetto per le persone, riguarda prevalentemente la fascia over 50».


Il refrain è sempre lo stesso. Renzi, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Luca Lotti, i “ragazzini” di Palazzo Chigi non hanno cambiato una tendenza che dura da tre lustri: quella dell’impoverimento strutturale delle nuove generazioni, che la Banca d’Italia ha individuato come i soggetti più colpiti dalla crisi iniziata nel 2008. Non solo. Nell’ultimo rapporto annuale dell’Istat si dice che un ragazzo su tre sotto i 34 anni è «sovraistruito», cioè troppo qualificato per il lavoro che svolge. Significa che lui e la sua famiglia hanno investito tempo e denaro per una formazione che l’ha portato, come primo lavoro, a fare «il commesso, il cameriere, il barista, l’addetto personale, il cuoco, il parrucchiere, l’estetista», scrivono nel maggio 2016, sconfortati, gli esperti dell’istituto.


Ovvio che il sentimento dominante, anche per coloro che un lavoro ce l’hanno, sia quello della frustrazione. E della consapevolezza che l’istruzione non è più la chiave di volta per la mobilità sociale: se Almalaurea racconta che gli stipendi dei neolaureati italiani sono i peggiori del continente, a tre anni dal titolo di studio e dalla bicchierata fuori l’ateneo con nonne e parenti solo la metà dei rampolli italiani ha trovato un contratto standard e un posto degno corrispondente agli studi fatti.


«La vecchiaia non è così male se considerate le alternative», diceva Maurice Chevalier. Mai aforisma fu più azzeccato, almeno sotto le Alpi: è un fatto che la Generazione X e quella successiva dei Millennial abbiano ormai la certezza che le loro condizioni economiche e il loro stile di vita saranno peggiori di quello dei loro padri. È la prima volta, dal Dopoguerra, che si registra un fenomeno di questo tipo: l’ascensore sociale, quello che consentiva di migliorare attraverso lo studio, il merito, l’iniziativa individuale, è bloccato da anni. E quando si muove lo fa in un’unica direzione: il basso.


La Boschi, ministro per le Riforme e architetto del referendum, invita i giovani a votare Sì «per non farsi rubare il futuro». Il rischio è che votino No perché Renzi non ha saputo rispondere alle emergenze del presente. Oltre che sul Jobs Act, il governo ha puntato sul progetto europeo “Garanzia giovani”, un programma nato per aiutare gli under 30 a trovare un posto decente. È un flop clamoroso: secondo l’Isfol, ente pubblico del ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti, su quasi un milione di italiani iscritti al programma solo 32 mila (quindi il 3,7 per cento) hanno trovato un’occupazione vera e un contratto decente. Gran parte dei denari investiti, 1,5 miliardi di euro arrivati dalla Ue, è scomparsa nei rivoli della burocrazia. Molti iscritti non hanno mai ricevuto una risposta dai centri per l’impiego, che si sono affannati a smistare qualche migliaio di ragazzi in tirocini, corsi professionali e perfino nel servizio civile. «Che un milione di giovani si siano attivati e registrati a Garanzia giovani è un dato di grande rilievo», aveva detto Poletti qualche giorno prima che il suo Isfol mettesse una pietra tombale sull’esperienza, costringendo Renzi ad ammettere che i risultati sono «così così, poteva andare meglio».


Non stupisce, dunque, che nell’anno di grazia 2016 sette milioni di under 35 siano costretti a vivere ancora con i genitori: si tratta di studenti e disoccupati, dei cosiddetti Neet (oltre due milioni di giovani che non studiano e non lavorano: in Sicilia e Calabria restano nel limbo della loro vecchia cameretta 4 ragazzi su 10), ma anche di persone che hanno lavori saltuari o malpagati, che non permettono loro di emanciparsi dalla famiglia d’origine, fare a meno del welfare elargito da papà, affittarsi o comprarsi una casa propria, sposarsi e fare figli. Anche Eurostat spiega che nel 2015, «i giovani adulti» entro i 34 anni che vivono con almeno un genitore sono il 67 per cento, un esercito di “bamboccioni per forza” in netta crescita rispetto alla rilevazione precedente. Siamo i peggiori in Europa, di gran lunga.


Il 7 novembre Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, in un’audizione alla Camera sulla legge di Bilancio 2017, lo ha ribadito: «I giovani sono oggi una delle categorie più svantaggiate: si tratta di generazioni che, dopo anni di istruzione e formazione, faticano a trovare lavoro, con ricadute che interessano i comportamenti, le condizioni economiche, le scelte riproduttive e di vita».

La risposta di Renzi e del governo “young” è stata quella di allargare a un altro milione di pensionati la “quattordicesima”, un assegno supplementare dell’Inps pagato ai pensionati con redditi sotto i 10.290 euro l’anno. Chi già la prende, inoltre, vedrà accresciuto l’assegno. Una mossa che di certo dà una mano a chi se la vede male, ma che per l’ennesima volta dimostra che, se ha fiches da investire, Renzi preferisce puntarle sugli anziani e i dipendenti pubblici. Non a caso base elettorale del Pd, e - secondo i sondaggi - più propensa a votare Sì.


Perfino il presidente dell’Inps voluto da Renzi, Tito Boeri, si sta smarcando da mesi dalle scelte di Palazzo Chigi, evidenziando che l’Italia «non può investire solo su chi ha smesso di lavorare», e che la manovra finanziaria che verrà è, ancora una volta, tutta squilibrata: «Per i giovani si fa poco, e un paese che smette di investire su di loro è un paese che non ha grandi prospettive di crescita». Il problema vero è quello dell’equità: «Ci sono delle persone che oggi hanno dei trattamenti pensionistici, o dei vitalizi, come nel caso dei politici, che sono del tutto ingiustificati alla luce dei contributi versati in passato. Abbiamo concesso per tanti anni questo trattamento privilegiato a queste persone». Ora, propone Boeri, bisogna che chi ha prestazioni elevate contribuisca a alleggerire i conti previdenziali, e permettere una redistribuzione alle persone che, la pensione, rischiano di non averla mai. O decurtata, come indicano tutte le analisi, del 50-60 per cento rispetto all’ultimo stipendio.


Il governo, però, non è d’accordo. Tanto che Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e consigliere economico di Renzi, ha risposto secco che le pensioni ricche e i vitalizi «non si toccano». Motivo: «Il rischio di mettere le mani nelle tasche sbagliate è troppo grosso».


È un punto centrale, che dà il segno profondo delle politiche renziane, non disposte a tagliare l’enorme fetta di spesa pubblica (il 32 per cento del totale, secondo dati Ocse del 2014, in media la percentuale è tre volte più alta di Svezia, Norvegia, Regno Unito e Olanda) destinata ai pensionati. «La conseguenza», ragiona la sociologa Chiara Saraceno, «è che abbiamo pochi soldi per altre spese sociali fondamentali, e pochissimo per i giovani: per l’istruzione in Europa spendiamo meno di tutti, per la ricerca idem».


«Giovani e precari: dobbiamo prendere i loro Sì. Al Nord, almeno: il Sud ormai è andato», ripete Renzi ai suoi. Ma se è vero (come è vero) che il referendum del 4 dicembre è diventato, a causa di errori strategici del premier, innanzitutto un voto politico sull’operato del governo, è difficile che chi viene pagato con i voucher non sfoghi nelle urne la sua rabbia su una leadership che ha permesso l’esplosione dei buoni lavoro, usati dalle aziende per pagare gli ex co.co.co. Il piddino Cesare Damiano spiega che alla fine del 2016, se il trend rimarrà costante, «potremmo arrivare a 150 milioni di voucher venduti. Un vero record rispetto ai 500 mila del 2008, un numero 300 volte più basso». Una follia, dicono i sindacati dei precari, visto che i buoni sono stati inventati nel 2003 per far uscire dal nero i lavoretti una tantum, come quelli degli studenti che arrotondano al bar e il babysitteraggio occasionale. Nell’era Renzi, invece, i blocchetti vengono usati a piene mani da commercianti, professionisti, ristoratori per camuffare lavoro nero, contratti stagionali, e stipendi da fame dei dipendenti: secondo l’Inps quest’anno la paga “tipo” di chi viene retribuito con i buoni si aggira in media sui 500 euro. L’anno.


Naturale che la promessa di un reddito di cittadinanza (anche se la copertura economica resta operazione difficilissima) attragga milioni di ragazzi verso il M5S. Stanchi dell’immobilismo di una classe dirigente che sembra incapace di affrontare i costi politici e i prezzi elettorali di una necessaria redistribuzione generazionale del reddito e della ricchezza.


Mentre aspettano una rivoluzione che non arriva mai, i giovani restano esclusi dai gangli del potere pubblico (abbiamo i dirigenti pubblici più vecchi d’Europa), dalle imprese private, dai quadri sindacali (la metà degli iscritti sono pensionati), dalle università (nel 2014, su 13239 professori ordinari nemmeno uno ha meno di 35 anni, e solo 15 - spesso figli di baroni e potenti - sono sotto i 40. «Se va avanti così, con il turn over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei», commenta l’ex capo della Conferenza nazionale dei rettori Stefano Paleari.


Non è un caso, infine, che lo Svimez segnali come pure nel 2016 sia proseguita «la desertificazione del capitale umano meridionale»: in cerca di migliori condizioni di vita, in vent’anni i flussi migratori hanno portato via dal Sud oltre un milione di persone, facendo scomparire in pratica una metropoli grande come Napoli. In pochi hanno notato che per il 2015 l’Istat ha segnalato come il numero delle nascite al Sud abbia raggiunto il livello più basso dai tempi dell’unità d’Italia. La Fondazione Migrantes, della Conferenza episcopale italiana, ha poi messo il carico da novanta, raccontando che in valore assoluto vanno via (con destinazioni privilegiate Regno Unito, Germania, Francia e Svizzera) soprattutto giovani under 35 non dal Sud, ma dalla Lombardia, da Veneto, Lazio e Piemonte. Centosettemila persone nel 2015, il 6,2 per cento in più rispetto al 2014.


Se la Commissione Ue ha detto che la fuga di cervelli dall’Italia «può provocare una perdita netta permanente di capitale umano qualificato a danno della competitività del paese» e che «non si può parlare di scambio di cervelli» perché se molte teste lasciano il paese pochissimi laureati stranieri scelgono di venire a lavorare qui, il giovane-vecchio, Matteo, ha replicato annoiato che la questione «è ormai trita e ritrita: agli scienziati dico di tornare a casa, ma se tornate dovete sapere di tornare in un paese dove la ricerca è fondamentale. Sono orgoglioso di voi. Il mio indirizzo è matteo@governo.it, restiamo in contatto». Il 4 dicembre, però, per Renzi sarà fondamentale riuscire a restare in contatto con i giovani incazzati che non sono ancora partiti.

Emiliano Fittipaldi (L’Espresso - 28 novembre 2016)


domenica 27 novembre 2016

Caso Beatrice Di Maio, e se la cyber-propaganda fosse a Palazzo Chigi?



 
  (in gergo palermitano vuol dire letteralmente: "Salvatore accendi la luce")

Luca Lotti ha presentato denuncia contro il profilo twitter di Beatrice Di Maio sapendo che quel nome celava un’altra identità: quella di Tommasa Giovannoni Ottaviani detta Titti, nonché moglie di Renato Brunetta. È lecito pensarlo. Come è lecito sostenere che la sua denuncia, arrivata sette mesi dopo rispetto al tweet incriminato, è stata recapitata in poche ore al quotidiano La Stampa che l’ha poi divulgata costruendole attorno una “rete di cyber propaganda del Movimento 5 Stelle” sulla quale “la procura indaga”.

Insomma una notizia vera (la denuncia di Lotti) usata per costruire una notizia falsa (indagine su M5S). Notizia falsa poi cavalcata dal Partito Democratico per presentare delle interrogazioni parlamentari contro “la macchina del fango M5S”. Tempi, modi, attori: tutto rientra nel classico schema del “dossieraggio” nel quale sono dunque in qualche modo coinvolti un esponente importante del governo (Lotti), il partito di maggioranza (il Pd) e un quotidiano nazionale. Questo è quanto si può ricostruire e vedere oggi. Altri attori o soggetti sono stati coinvolti nei singoli passaggi ma al momento non sono ancora stati individuati con certezza. Ma è solo questione di tempo perché la “rete” (questa sì, reale) ha commesso alcuni errori.

Va detto che il quotidiano torinese ha sicuramente agito in buona fede. Forse è stato semplicemente usato, strumentalizzato. Insomma sembra aver preso la più classica delle “polpette avvelenate”. Capita e può capitare. Peccato però che invece di riconoscerlo e impegnarsi a scoprire se un rappresentante dello Stato ha utilizzato strumenti illeciti per individuare un profilo twitter e screditare con una notizia falsa un avversario politico, fa finta di niente e addirittura arriva a scrivere (questa mattina) che il collegamento tra Beatrice Di Maio e la cyber propaganda contro M5S non lo avevano ipotizzato loro, ma i parlamentari del Pd. Già. Si legge nell’articolo: “Nulla a che vedere con il Movimento, come invece avevano ipotizzato i parlamentari del Pd negli scorsi giorni”. Sembra di vivere in 1984 di George Orwell, quando descrive come si modificano i giornali del passato in funzione di ciò che è utile nell’oggi. Ma ognuno fa il proprio mestiere come crede, figurarsi. Privilegio questo che invece non può valere per i componenti del governo e per i parlamentari. Ed è per questo che la vicenda di Beatrice Di Maio non può essere archiviata con una risata.

Andiamo con ordine. Mercoledì 16 La Stampa pubblica un articolo con questa titolazione: “Ecco la cyber propaganda M5S, la procura indaga sull’account chiave. Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione”. Tutte notizie poi rivelatesi false: l’account chiave sarebbe quello di Beatrice Di Maio, che non ha alcun collegamento con M5S; la procura non indaga su nulla e di certo non su una rete di cyber propaganda visto che ancora non è reato fare propaganda politica; Palazzo Chigi non ha denunciato nessuno. L’unica notizia vera si trova nel testo dell’articolo: Luca Lotti ha querelato il profilo twitter di Beatrice Di Maio perché si è sentito diffamato da un tweet che lo definiva indirettamente mafioso. Punto. Nient’altro. E che in quella denuncia non ci sia altro lo rivela lo stesso avvocato di Lotti, Alberto Bianchi, al Fatto. Inoltre, dice il legale, l’atto è stato presentato martedì 15 ai Carabinieri di Firenze. Quindi come può La Stampa il mercoledì 16 scrivere che “la procura indaga”? È materialmente impossibile. Le date rivelano un altro aspetto importante: Lotti querela Di Maio per un tweet pubblicato sette mesi prima, cioè il 7 aprile. Questo. 
Facendo una semplicissima ricerca sia attraverso Google sia su Twitter, in quei giorni l’intercettazione “abbiamo le foto di Delrio con i mafiosi” era apparsa ovunque. Per ovvi motivi. Ma su Twitter tantissimi utenti ci hanno ironizzato o l’hanno usata in vari modi. Non solo Di Maio. C’è chi ha fatto peggio. Il profilo del Secolo d’Italia, il quotidiano web della destra italiana, ha messo la foto di Delrio con Renzi che lo indica ridendo. E tanti altri.

Eppure Lotti chi querela sette mesi dopo? Il profilo di Beatrice Di Maio. Solo lei. Che poi si scopre essere gestito da chi? Dalla moglie di Brunetta, oppositore principale dell’esecutivo Renzi. Quindi diciamo che o Lotti è stato molto fortunato e denunciando un utente a caso (nonostante avesse poco seguito) ha smascherato la consorte dell’avversario politico, oppure è andato a colpo sicuro. Abbiamo tentato di parlarci ma negli ultimi due giorni ha avuto altri impegni. Eppure sarebbe utile sapere direttamente da lui se era al corrente della vera identità dell’account al momento della denuncia. E se sì come l’ha scoperto? Ancora: è al corrente di come la sua denuncia sia passata in poche ore dai Carabinieri a La Stampa? E se è stata accompagnata da altri documenti, studi, relazioni, informative che collegavano Di Maio alla rete di cyber propaganda M5S, come ha scritto il quotidiano torinese? E se sì, sa chi li ha aggiunti e messi in relazione?

Da ultimo aiuterebbe conoscere in quali modi e tempi Emanuele Fiano – e gli altri parlamentari che hanno presentato le interrogazioni sulla base dell’articolo de La Stampa gridando alla “macchina del fango M5S” – sono stati avvisati o spinti ad agire. Perché ancora una volta i tempi lasciano pensare che tutto sia stato ben scandito. Denuncia, articolo, interrogazioni parlamentari, dichiarazioni di esponenti del Pd. E tutto su una notizia falsa, una bufala: l’indagine di una procura sulla cyber propaganda M5S. Notizia falsa spacciata per vera e finita persino su Le Monde e il Guardian. E usata dal Pd per dire che la macchina del fango è quella del movimento di Grillo.