È il
governo con l'età più bassa nella storia della Repubblica. Eppure non riesce a
sedurre gli under 35. Che al referendum rischiano di diventare il tallone
d’Achille del premier. E qualche ragione per essere arrabbiati, i “nuovi
adulti”, ce l’hanno.
Se da tre settimane gli incubi di
Hillary Clinton sono popolati dagli operai bianchi del Midwest che hanno votato
Donald Trump, quelli di Matteo Renzi sono gremiti di giovani precari
meridionali furiosi. Il premier ha capito che sarà il voto degli under 40 a
decidere chi vincerà il referendum. E che sono gli arrabbiati e i delusi, il
tallone d’Achille su cui ha deciso di concentrare gli sforzi finali suoi e dei
comitati del Sì. «Se non convinciamo i giovani a cambiare idea e votare per
noi, il 5 dicembre andiamo tutti a casa», ripete il premier tre volte al giorno
a chi gli capita davanti. Ecco spiegate le ultime mosse: Matteo che si lancia
sulla copertina della rivista Rolling Stone (titolo “The young pop”, dove
discetta di Fedez e Dj Ax, «almeno ha evitato di rimettere il chiodo»
ironizzano gli antipatizzanti), Matteo che annuncia «una decontribuzione totale
per chi assumerà giovani al Sud nel 2017», Matteo che applaude «il bonus di 500
euro per i diciottenni», che da inizio novembre possono scaricarsi la paghetta
di Palazzo Chigi da una app del governo (“18App”, si chiama). Un plafond da
spendersi in ebook e spettacoli teatrali, musei e concerti, pure di musica
techno, che era stato approvato già un anno fa e che diventa operativo solo
adesso. «Renzi sta diventando ridicolo anche nel dispensare le sue marchette»,
ha reagito Giorgia Meloni. «Evidentemente sa che questo referendum lo perderà».
«Non è detta l’ultima parola», pensa
invece Renzi. Che sta tentando il tutto per tutto per affabulare i ragazzi
d’Italia: i trend fotografati dalla categoria più sbeffeggiata dell’anno,
quella dei sondaggisti, varranno anche poco, ma tutte le rilevazioni segnalano
che per ora il No è in predominio schiacciante soprattutto tra chi ha meno di
quarant’anni. Che votano “contro” non tanto per difendere la Costituzione del
1948, ma per mandare a casa un governo che non li ha mai rappresentati. «Tra i
ragazzi c’è un sentiment antisistema, frutto anche di un’insoddisfazione che
continua a essere molto violenta», ragiona Giuliano Da Empoli, uno dei
consiglieri più ascoltati da Renzi, preoccupato dal fatto che i giovani elettori
abbiano abbandonato il Pd in blocco, rivolgendosi all’offerta politica del
Movimento 5 Stelle.
Un vero paradosso, per il governo
più “young” della storia della Repubblica. Un esecutivo riempito di ministri e
ministre di primo pelo, che ha fatto della rottamazione, del cambiamento, della
novità a tutti i costi il perno della sua comunicazione. Il punto,
probabilmente, sta proprio qui. Nello spread tra quello che è stato annunciato
dallo storytelling renziano e quello che è stato davvero realizzato.
Analizzando documenti ufficiali
della Banca d’Italia, dell’Istat, dell’Ocse, scartabellando le misure dei primi
mille giorni dell’esecutivo, ecco che il quadro si fa più chiaro. Mostrando
come l’insoddisfazione e la rabbia si basano su uno status quo che Renzi ha
certamente ereditato, ma che non sembra aver affrontato con vigore sufficiente
per tentare di ribaltare. Anzi: le diseguaglianze generazionali sono aumentate,
e di riforme importanti per ridurre il gap di opportunità tra giovani e
anziani, in questi primi tre anni dell’era di Rignano sull’Arno, non s’è vista
l’ombra.
Partiamo dal lavoro, pietra miliare di ogni polemica. «I
dati dell’Istat pubblicizzati dal governo raccontano che da febbraio 2014 ad
oggi ci sono 656 mila posti in più», ha detto Renzi qualche giorno fa. In
realtà, il tasso di disoccupazione giovanile è sì migliorato di qualche
decimale, ma resta inchiodato a un mostruoso 37,1 per cento, con punte che
vanno dal 60 all’80 per cento in regioni del Sud come Campania, Calabria e
Sicilia. I nuovi occupati, dati alla mano, sono infatti in gran parte over 50,
una crescita esponenziale dovuta alla stretta sull’età pensionabile voluta
dall’ex ministro Elsa Fornero.
Le nuovi assunzioni a tempo
indeterminato sono state pagate in larga parte dallo Stato, e hanno riguardato
soprattutto lavoratori maturi: nel 2015 grazie al Jobs Act le imprese hanno
potuto assumere ottenendo sgravi fiscali da favola, foraggiati di fatto dai contribuenti,
e la bolla è scoppiata appena il governo ha chiuso i rubinetti degli incentivi.
«Questo Paese ha speso ad oggi circa 18 miliardi per poter permettere al
presidente del Consiglio di dire che ha qualche centinaio di migliaia di
occupati in più. Una spesa straordinaria, con un risultato minimo», ha
attaccato Susanna Camusso, leader di un sindacato, la Cgil, che non si è
recentemente distinto come campione dei diritti dei giovani. «Un risultato che
peraltro, con tutto il rispetto per le persone, riguarda prevalentemente la
fascia over 50».
Il refrain è sempre lo stesso.
Renzi, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Luca Lotti, i “ragazzini” di Palazzo
Chigi non hanno cambiato una tendenza che dura da tre lustri: quella
dell’impoverimento strutturale delle nuove generazioni, che la Banca d’Italia
ha individuato come i soggetti più colpiti dalla crisi iniziata nel 2008. Non
solo. Nell’ultimo rapporto annuale dell’Istat si dice che un ragazzo su tre
sotto i 34 anni è «sovraistruito», cioè troppo qualificato per il lavoro che
svolge. Significa che lui e la sua famiglia hanno investito tempo e denaro per
una formazione che l’ha portato, come primo lavoro, a fare «il commesso, il
cameriere, il barista, l’addetto personale, il cuoco, il parrucchiere, l’estetista»,
scrivono nel maggio 2016, sconfortati, gli esperti dell’istituto.
Ovvio che il sentimento dominante,
anche per coloro che un lavoro ce l’hanno, sia quello della frustrazione. E
della consapevolezza che l’istruzione non è più la chiave di volta per la
mobilità sociale: se Almalaurea racconta che gli stipendi dei neolaureati
italiani sono i peggiori del continente, a tre anni dal titolo di studio e
dalla bicchierata fuori l’ateneo con nonne e parenti solo la metà dei rampolli
italiani ha trovato un contratto standard e un posto degno corrispondente agli
studi fatti.
«La vecchiaia non è così male se
considerate le alternative», diceva Maurice Chevalier. Mai aforisma fu più
azzeccato, almeno sotto le Alpi: è un fatto che la Generazione X e quella
successiva dei Millennial abbiano ormai la certezza che le loro condizioni
economiche e il loro stile di vita saranno peggiori di quello dei loro padri. È
la prima volta, dal Dopoguerra, che si registra un fenomeno di questo tipo:
l’ascensore sociale, quello che consentiva di migliorare attraverso lo studio,
il merito, l’iniziativa individuale, è bloccato da anni. E quando si muove lo
fa in un’unica direzione: il basso.
La Boschi, ministro per le Riforme e
architetto del referendum, invita i giovani a votare Sì «per non farsi rubare
il futuro». Il rischio è che votino No perché Renzi non ha saputo rispondere
alle emergenze del presente. Oltre che sul Jobs Act, il governo ha puntato sul
progetto europeo “Garanzia giovani”, un programma nato per aiutare gli under 30
a trovare un posto decente. È un flop clamoroso: secondo l’Isfol, ente pubblico
del ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti, su quasi un milione di
italiani iscritti al programma solo 32 mila (quindi il 3,7 per cento) hanno
trovato un’occupazione vera e un contratto decente. Gran parte dei denari
investiti, 1,5 miliardi di euro arrivati dalla Ue, è scomparsa nei rivoli della
burocrazia. Molti iscritti non hanno mai ricevuto una risposta dai centri per
l’impiego, che si sono affannati a smistare qualche migliaio di ragazzi in
tirocini, corsi professionali e perfino nel servizio civile. «Che un milione di
giovani si siano attivati e registrati a Garanzia giovani è un dato di grande
rilievo», aveva detto Poletti qualche giorno prima che il suo Isfol mettesse
una pietra tombale sull’esperienza, costringendo Renzi ad ammettere che i
risultati sono «così così, poteva andare meglio».
Non stupisce, dunque, che nell’anno
di grazia 2016 sette milioni di under 35 siano costretti a vivere ancora con i
genitori: si tratta di studenti e disoccupati, dei cosiddetti Neet (oltre due
milioni di giovani che non studiano e non lavorano: in Sicilia e Calabria
restano nel limbo della loro vecchia cameretta 4 ragazzi su 10), ma anche di
persone che hanno lavori saltuari o malpagati, che non permettono loro di
emanciparsi dalla famiglia d’origine, fare a meno del welfare elargito da papà,
affittarsi o comprarsi una casa propria, sposarsi e fare figli. Anche Eurostat
spiega che nel 2015, «i giovani adulti» entro i 34 anni che vivono con almeno
un genitore sono il 67 per cento, un esercito di “bamboccioni per forza” in
netta crescita rispetto alla rilevazione precedente. Siamo i peggiori in
Europa, di gran lunga.
Il 7 novembre Giorgio Alleva,
presidente dell’Istat, in un’audizione alla Camera sulla legge di Bilancio
2017, lo ha ribadito: «I giovani sono oggi una delle categorie più
svantaggiate: si tratta di generazioni che, dopo anni di istruzione e
formazione, faticano a trovare lavoro, con ricadute che interessano i comportamenti,
le condizioni economiche, le scelte riproduttive e di vita».
La risposta di Renzi e del governo
“young” è stata quella di allargare a un altro milione di pensionati la
“quattordicesima”, un assegno supplementare dell’Inps pagato ai pensionati con
redditi sotto i 10.290 euro l’anno. Chi già la prende, inoltre, vedrà
accresciuto l’assegno. Una mossa che di certo dà una mano a chi se la vede
male, ma che per l’ennesima volta dimostra che, se ha fiches da investire,
Renzi preferisce puntarle sugli anziani e i dipendenti pubblici. Non a caso
base elettorale del Pd, e - secondo i sondaggi - più propensa a votare Sì.
Perfino il presidente dell’Inps
voluto da Renzi, Tito Boeri, si sta smarcando da mesi dalle scelte di Palazzo
Chigi, evidenziando che l’Italia «non può investire solo su chi ha smesso di
lavorare», e che la manovra finanziaria che verrà è, ancora una volta, tutta
squilibrata: «Per i giovani si fa poco, e un paese che smette di investire su
di loro è un paese che non ha grandi prospettive di crescita». Il problema vero
è quello dell’equità: «Ci sono delle persone che oggi hanno dei trattamenti
pensionistici, o dei vitalizi, come nel caso dei politici, che sono del tutto
ingiustificati alla luce dei contributi versati in passato. Abbiamo concesso
per tanti anni questo trattamento privilegiato a queste persone». Ora, propone
Boeri, bisogna che chi ha prestazioni elevate contribuisca a alleggerire i
conti previdenziali, e permettere una redistribuzione alle persone che, la
pensione, rischiano di non averla mai. O decurtata, come indicano tutte le
analisi, del 50-60 per cento rispetto all’ultimo stipendio.
Il governo, però, non è d’accordo.
Tanto che Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e
consigliere economico di Renzi, ha risposto secco che le pensioni ricche e i
vitalizi «non si toccano». Motivo: «Il rischio di mettere le mani nelle tasche
sbagliate è troppo grosso».
È un punto centrale, che dà il segno
profondo delle politiche renziane, non disposte a tagliare l’enorme fetta di
spesa pubblica (il 32 per cento del totale, secondo dati Ocse del 2014, in
media la percentuale è tre volte più alta di Svezia, Norvegia, Regno Unito e
Olanda) destinata ai pensionati. «La conseguenza», ragiona la sociologa Chiara
Saraceno, «è che abbiamo pochi soldi per altre spese sociali fondamentali, e
pochissimo per i giovani: per l’istruzione in Europa spendiamo meno di tutti,
per la ricerca idem».
«Giovani e precari: dobbiamo
prendere i loro Sì. Al Nord, almeno: il Sud ormai è andato», ripete Renzi ai
suoi. Ma se è vero (come è vero) che il referendum del 4 dicembre è diventato,
a causa di errori strategici del premier, innanzitutto un voto politico
sull’operato del governo, è difficile che chi viene pagato con i voucher non
sfoghi nelle urne la sua rabbia su una leadership che ha permesso l’esplosione
dei buoni lavoro, usati dalle aziende per pagare gli ex co.co.co. Il piddino
Cesare Damiano spiega che alla fine del 2016, se il trend rimarrà costante,
«potremmo arrivare a 150 milioni di voucher venduti. Un vero record rispetto ai
500 mila del 2008, un numero 300 volte più basso». Una follia, dicono i
sindacati dei precari, visto che i buoni sono stati inventati nel 2003 per far
uscire dal nero i lavoretti una tantum, come quelli degli studenti che
arrotondano al bar e il babysitteraggio occasionale. Nell’era Renzi, invece, i
blocchetti vengono usati a piene mani da commercianti, professionisti,
ristoratori per camuffare lavoro nero, contratti stagionali, e stipendi da fame
dei dipendenti: secondo l’Inps quest’anno la paga “tipo” di chi viene
retribuito con i buoni si aggira in media sui 500 euro. L’anno.
Naturale che la promessa di un reddito
di cittadinanza (anche se la copertura economica resta operazione
difficilissima) attragga milioni di ragazzi verso il M5S. Stanchi
dell’immobilismo di una classe dirigente che sembra incapace di affrontare i
costi politici e i prezzi elettorali di una necessaria redistribuzione
generazionale del reddito e della ricchezza.
Mentre aspettano una rivoluzione che
non arriva mai, i giovani restano esclusi dai gangli del potere pubblico
(abbiamo i dirigenti pubblici più vecchi d’Europa), dalle imprese private, dai
quadri sindacali (la metà degli iscritti sono pensionati), dalle università
(nel 2014, su 13239 professori ordinari nemmeno uno ha meno di 35 anni, e solo
15 - spesso figli di baroni e potenti - sono sotto i 40. «Se va avanti così,
con il turn over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno
in pensione, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere
ai programmi europei», commenta l’ex capo della Conferenza nazionale dei
rettori Stefano Paleari.
Non è un caso, infine, che lo Svimez
segnali come pure nel 2016 sia proseguita «la desertificazione del capitale
umano meridionale»: in cerca di migliori condizioni di vita, in vent’anni i
flussi migratori hanno portato via dal Sud oltre un milione di persone, facendo
scomparire in pratica una metropoli grande come Napoli. In pochi hanno notato
che per il 2015 l’Istat ha segnalato come il numero delle nascite al Sud abbia
raggiunto il livello più basso dai tempi dell’unità d’Italia. La Fondazione
Migrantes, della Conferenza episcopale italiana, ha poi messo il carico da
novanta, raccontando che in valore assoluto vanno via (con destinazioni
privilegiate Regno Unito, Germania, Francia e Svizzera) soprattutto giovani
under 35 non dal Sud, ma dalla Lombardia, da Veneto, Lazio e Piemonte.
Centosettemila persone nel 2015, il 6,2 per cento in più rispetto al 2014.
Se la Commissione Ue ha detto che la
fuga di cervelli dall’Italia «può provocare una perdita netta permanente di
capitale umano qualificato a danno della competitività del paese» e che «non si
può parlare di scambio di cervelli» perché se molte teste lasciano il paese pochissimi
laureati stranieri scelgono di venire a lavorare qui, il giovane-vecchio,
Matteo, ha replicato annoiato che la questione «è ormai trita e ritrita: agli
scienziati dico di tornare a casa, ma se tornate dovete sapere di tornare in un
paese dove la ricerca è fondamentale. Sono orgoglioso di voi. Il mio indirizzo
è matteo@governo.it, restiamo in contatto». Il 4 dicembre, però, per Renzi sarà
fondamentale riuscire a restare in contatto con i giovani incazzati che non
sono ancora partiti.